martedì 27 settembre 2022

Finalmente, grazie Michele!

 

Le idee
Alla ricerca dell’identità perduta
DI MICHELE SERRA
È saltato il tappo, e il tappo era il Pd. Chiedo perdono anche a me stesso per la brutalità della sintesi (ho votato Pd alla Camera, Verdi/Sinistra Italiana al Senato), ma il 25 settembre del 2022, con la vittoria della destra sovranista e dei suoi accodati, la lunga stagione — da Giorgio Napolitano in poi — degli aggiustamenti istituzionali, dei governi tecnici, delle abili manovre di vertice, della sapienza di Palazzo contrapposta all’emotività popolare, è cancellata per sempre. Bocciata per sempre. E mai più riproponibile.
Il Pd, vuoi per senso di responsabilità vuoi per affezione al potere (dunque per una virtù e per un vizio) era diventato il partito simbolo di questa perenne emergenza repubblicana, tanto perenne da sembrare, alla fine, pretestuosa anche quando motivata dagli eventi. Una specie di anchilosi politica, nonché la condanna ad assumere una postura conservatrice davvero paradossale per un campo che si dice progressista, e per il partito erede delle più potenti istanze di cambiamento degli ultimi centocinquantaanni. Non c’è stato nulla di “illegale”, nella stagione finita domenica scorsa. I governi, nel nostro sistema istituzionale, trovano piena legittimità nell’investitura del Parlamento. Ma l’idea che il voto popolare contasse relativamente e fosse, diciamo così, irreggimentabile se non manipolabile da successive alchimie politiche, era molto diffusa. E non per complottismo, ma perché il ricorso alle urne è parso e forse è stato davvero, dalle parti della politica “responsabile”, l’ultima delle risorse, un appuntamento da rimandare, un rischio da evitare, e questo ha generato un contraccolpo quasi fisico: le urne sono diventate, per milioni di italiani, l’arma da impugnare “contro il Palazzo” e “contro la casta”. In parole semplici: il populismo è figlio, anche, dell’elitarismo. Ne è la controparte inevitabile. Ieri Grillo, oggi Meloni in forma ben più definitiva, sono stati gli interpreti più efficaci di questo grande sommovimento certamente populista, ma (lo dimentichiamo spesso) anche popolare.

Ora che è finita, quello che rimane di gran lunga il maggiore partito della sinistra italiana, terminato l’inventario dei cocci, entrerà, sebbene obtorto collo ,costretto dagli eventi, risvegliato dalla sberla, in una fase totalmente nuova della sua esistenza. E non è escluso che — già adesso, a botta calda — questa nuova fase, che solleva di fatto il Pd dalla sua ossessione governista, e in qualche modo lo restituisce al gioco della politica a tutto campo, possa essere vissuta anche come una liberazione. Più che il partito delle Ztl (connotato che le analisi del voto ridimensionano e rimescolano grazie alla new entry di Carlo Calenda), il Pd è stato il partito dei ministeri, delle amministrazioni pubbliche, dei sindaci, e soprattutto il pezzo dell’arco politico più disponibile a supportare fedelmente ideus ex machina tecnocratici, da Monti a Draghi. Questo appiattimento sui doveri, sull’alto profilo, sulla salute repubblicana, sullo stile sobrio, ha avuto qualche evidente merito ma è costato, politicamente parlando, tantissimo. Un prezzo enorme: quello della perdita di una identità progressista, ovvero mobile, veloce, all’inseguimento del futuro.

Così la sinistra — fatta eccezione per le sue particole settarie e, a conti fatti e a urne chiuse, insulse — ha ceduto la piazza agli “altri”, confusi nella comoda categoria del populismo anche quando le forme della protesta, o dell’insofferenza, non erano poi così apparentabili: gli elettori di Conte non la pensano come gli elettori di Meloni o di Salvini, e dunque sarebbe bene, di qui in poi, ricominciare a capire quanto poliforme sia il malumore sociale. “Populismo” significa qualcosa (significa, per esempio, una predicazione raramente razionale, e quasi sempre demagogica) ma non abbastanza. Non qualifica quante e quali sono le zone della società perdute alla politica perché la politica le ha considerate una zavorra o un impiccio, all’insegna di quel “lasciateci lavorare” che è stato il connotato più sgradevole, e più controproducente,dell’elitarismo “responsabile”. La politica è parlare al popolo: né più, né meno. Coglierne i bisogni e gli umori, respingerne (spiegando bene perché) la parte che si considera nociva, fare propria (spiegando bene perché) quella che si considera giusta e utile, e di interesse comune. Trasformare il rancore in progetto, l’esclusione in presenza. Destra e sinistra non adoperano lo stesso vaglio, proprio no, per fare questa selezione. Il problema è che la destra, negli ultimi anni, ha continuato a fare la sua, la sinistra no. Era troppo occupata a salvare la Patria.
Ora la Patria la deve salvare la Meloni (che il dio degli improvvisatori la assista…). L’alibi dello “spirito di servizio” cade, finalmente, lasciando il Pd solo con le sue parole, i suoi silenzi, le sue incertezze, i suoi dirigenti così spesso di flebile carisma. Spogliato di tutto il suo sussiego istituzionale, della sua disponibilità così come della sua boria. Nudo, sconfitto, privato della sua sola vera gloria recente, che è il potere. 
L’occasione è unica.

La sinistra sa benissimo, in cuor suo, che la sua sola vera identità è il cambiamento. In un mondo così iniquo, scempiato dalla guerra, da accumuli di ricchezza mai visti sotto il cielo (nemmeno tra un faraone e un suo schiavo c’era la disparità di potere e di destino che separa un Bezos, un Musk, da un proletario americano), dalla crisi climatica, dal martirio distante delle ragazze iraniane e da quello prossimo delle ragazze pakistane uccise, in mezzo a noi, da un padre infame, da un’ignoranza di ritorno che alimenta superstizione e pregiudizio in forme organizzate, e infine dal trionfale e legittimo ingresso al governo del Paese degli eredi del fascismo, con qualche ignobile corollario (Sesto San Giovanni che preferisce Rauti a Fiano), finalmente la sinistra può tornare a sentire il richiamo del mondo e delle moltitudini che lo popolano. Se è sorda, non lo sentirà. Se non è sorda, può ricominciare da se stessa, da quello (tanto) che già sa, che ha già imparato, e dal tantissimo che ancora non sa e non ha capito.

Enrico Letta non merita croci. Ha fatto quello che poteva, per esempio ha cercato di federare un largo fronte democratico, ben sapendo quale sconcia legge elettorale gli aveva lasciato in eredità il suo predecessore Renzi, che fece il Rosatellum pro domo sua e se lo vede impugnare, e ben gli sta, dalla Meloni. Non è riuscito nella sua impresa federativa, Letta, per via delle vanità personali e dell’ottusità generale. Delle une e dell’altra, il centrosinistra non ha mai difettato, se non in rarissime occasioni, una delle quali, l’Ulivo di Prodi, ancora viene evocata come un’età dell’oro facile da rimpiangere, difficile da emulare. Ma alle spalle di Enrico Letta, prima di lui, tutto ma proprio tutto era già accaduto, e il Pd aveva già rinunciato, quasi per intero, all’irrequietezza senza la quale non esiste sinistra e neppure esiste “progressismo”, cioè critica del presente e ricerca del futuro.
Costretta a tornare on the road dal voto popolare, la sinistra ne approfitti. Ha buona gente e buone idee a portata di mano. Dimentichi la sua lunga fase governista: ha avuto lo sfratto, dunque si incammini. La strada è lunga.

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