sabato 1 dicembre 2018

Meditativo


sabato 01/12/2018

LA STORIA - MORIRE PER 20 EURO

Uomini e cani tra pietre e ulivi


di Enrico Fierro inviato a Guglionesi (Campobasso)


Rafla cammina a testa alta per le strade di Guglionesi. Con i suoi occhi profondi come lo Chott el Jerid – il grandissimo lago di sale del suo Paese, la Tunisia – fissa chi sa e non parla, chi c’era e non ha mosso un dito, chi ha mentito sapendo di farlo. E quelli abbassano lo sguardo e vanno via. Rafla è la sorella senza pace di Saifeddine Chaffar, giovane uomo di trent’anni, ucciso a calci e pugni in questo lembo del Molise solo perché reclamava il diritto di essere pagato dopo una giornata di lavoro. Rafla vuole giustizia, non si rassegna e da anni una serie di domande le tormentano il cervello e tutti i giorni che il suo dio manda in terra. Quanto vale la vita di un uomo sfruttato, umiliato, preso a calci e pugni e ridotto per anni immobile e muto in un letto, senza più memoria, né controllo del suo corpo? Morto dopo un calvario fatto di ospedali, tubi che penetrano e ti permettono di respirare, alimentarti, mordere attimi di una vita che non è più tale, degradanti pannoloni. Vale zero. Meno di zero. Lo percuoti fino a ucciderlo perché tu sei il padrone, l’uomo che in paese sa come farsi valere, e rischi niente. Male che vada cinque anni di galera. Afflizione presunta, perché la legge è legge e quando vuole sa essere benevola e comprensiva e sa tener conto dei ravvedimenti tardivi e delle buone condotte assunte fuori tempo massimo.

Questa è la storia di Saifeddine Chaffar, giovane tunisino approdato in Italia, in Molise per raggiungere sua sorella Rafla, alla ricerca del suo pezzo di pane da guadagnare con onestà. Viene da al-Qayrawan, quarta città dell’Islam: e, nel suo Paese, il suo nome significa “la spada di Dio”. Ma quella sera del 4 novembre 2007, più di dieci anni fa, non c’è nessun dio a proteggerlo. Sono da poco passate le cinque di sera e a Guglionesi, 5mila anime a una ventina di chilometri da Termoli, c’è la vita di sempre. Poca gente per strada, pochissimi giovani, qualche vecchio a giocarsi una birra al bar. Saifeddine attraversa a passi rapidi il “lungomare”, il corso principale, che in paese chiamano così anche se del mare non c’è traccia. Entra deciso nel bar Renzetti per parlare con Rosario, il proprietario. Per giorni ha lavorato nei suoi terreni a raccogliere le olive, si è rotto la schiena e lo ha fatto perché gli servono i soldi. Poche decine di euro. Regolarmente in nero. Senza tutele, senza diritti, senza rispetto. Guglionesi non è la Puglia della “Pummarola Valley”, né Rosarno del ghetto per i dannati delle clementine: qui si raccolgono le olive. Ma grandi e piccoli proprietari usano manodopera in nero e a basso costo. Perché così si fa da sempre. Saiffeddine entra e chiede di essere pagato. Rosario gli dice che non c’è un euro, lo invita a ripassare il giorno dopo. E ride. E ridono a crepapelle i pochi avventori aggrappati alle loro “Peroni”, quando – così raccontano in paese – Rosario fa sventolare sotto il naso del tunisino una ventina di euro: “Salta, salta… prendili se li vuoi!”. Anche Cezar Florinel Hongu aveva raccolto le olive per Rosario Renzetti. Anche lui voleva i soldi e anche lui fu minacciato: “Che cazzo vuoi, vedi che qui siamo in Italia, non in Romania. Non mi guardare in cagnesco”.

Saifeddine si sente umiliato, fatica a trattenere lacrime di rabbia. Esce dal bar, ma prima tira un calcio alla porta a vetri. Va in strada e prende il cellulare per fare una telefonata. Forse a un amico, o alla sorella maggiore Rafla, che abita a pochi metri dal bar. Non ha il tempo di comporre numeri, perché Rosario, il barista, un uomo grosso, lo colpisce con un pugno. “Vattene via che ti ammazzo”. Saifeddine cade, batte la testa, tenta di rialzarsi. Ma viene colpito ancora. Calci e ancora calci. Dati con forza. Il suo corpo viene ridotto come quello di un uomo investito da un tir. Lo dicono le perizie mediche che parlano di “danno assonale e vascolare diffuso, fondamentalmente quello tipico che si può ritrovare in vittime della strada e nei pugili che subiscono una lesività del distretto encefalitico tale da essere anche mortale”. Saifeddine non viene investito da un’auto, né è un pugile sfortunato, il suo ring mortale è il marciapiedi sul quale è riverso e dove riceve ancora colpi. Da quante persone? “Da tutti, contro uno solo”, è la triste risposta di Giuseppe D’Urbano, l’avvocato della famiglia Chaffar. “Saifeddine – scrivono nei loro rapporti i carabinieri – si limitava a subire. Non si tratta di colluttazione”. A colpire è certamente Rosario, ma ci sarebbero anche Michele, suo fratello, di mestiere guardia carceraria, e anche l’altro fratello, Vincenzo, militare della Guardia di Finanza. Quest’ultimo verrà liberato da ogni accusa con una sentenza di non luogo a procedere. Michele, invece, viene riconosciuto da alcuni testimoni e indicato dalle prime indagini dei carabinieri come l’uomo che avrebbe sferrato uno o due calci, con uno stivale con la punta in ferro, al giovane tunisino. Saiffedine stesso lo riconosce il 4 ottobre 2011 in una drammatica udienza davanti al Gup. Il giovane è uscito da un lungo coma, il suo corpo è devastato, riesce appena a parlare, ma la memoria di quella maledetta sera è ancora viva. Indica Rosario come l’uomo che l’ha picchiato, poi anche Michele. “Guardalo bene, è lui, sei sicuro?”, gli chiede il magistrato. Saifeddine è stanco, provato ma sicuro. In primo grado Michele viene condannato a sette anni. Sarà assolto in Appello. Ora è in pensione e di questa storia non vuole più sentir parlare.

Quella sera del 4 novembre di undici anni fa, il giovane bracciante tunisino Saifeddine Chaffar si rialza da terra, si asciuga il sangue che gli riga il volto e va da solo alla guardia medica. Cammina a fatica a gambe allargate. Quei 450 metri che separano il luogo dell’aggressione dall’ambulatorio gli sembrano una eternità. Piange, deve svuotare la vescica, ma non riesce a raggiungere il bagno. Il medico capisce di trovarsi di fronte a una situazione drammatica. Alle 18,20 arriva un’ambulanza: Saifeddine viene portato a Termoli, entra in coma “da trauma cranico con ematoma epidurale”. Lo trasferiscono al reparto di rianimazione dell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. Lo dimetteranno 166 giorni dopo, il 18 aprile 2008. Altri sette anni li passerà a casa della sorella Rafla. Sempre inchiodato a letto. Paralizzato, affetto da “grave compromissione motoria e sensitiva”. I muscoli facciali fermi, immobili, la saliva che gli cola, non può più deglutire. Vede poco e non sente. Soffre di incontinenza urinaria e sfinterica. “È incapace di compiere gli atti quotidiani della vita e bisognevole di assistenza continua”, scrivono i medici.

Nel piccolo centro, in pochi in giro. Tanti gli occhi che invece quella sera videro. Ma regna non omertà, solo indifferenza

In tanti hanno assistito al suo massacro. Pochi parlano. Tanti mentono. Le indagini sono difficili, perché, ammettono i carabinieri, “c’è stata molta reticenza da parte delle persone che abbiamo sentito: era palese che non volessero dirci effettivamente la verità”. Molti testi cambiano versione rispetto a quelle rese a caldo. “Non ho visto chi ha colpito quella persona, sono stato tirato in ballo dai carabinieri per testimoniare solo per conoscenza…”. E poi mille “non ricordo”. “Non ho visto”. “Mi avete capito male”. Fino all’offesa più umiliante nei confronti di Saifeddine, quella scritta nera su bianco nelle perizie di parte. Il tunisino era un ubriacone, “affetto da etilismo acuto”, aveva “generali disturbi della personalità, atteggiamenti autolesionistici”. Cose escluse fin dal primo momento, come nelle analisi successive. “Non c’era assolutamente la puzza di alcol. Io l’ho visitato, l’ho toccato a distanza ravvicinata, si sarebbe sentito”, fa mettere a verbale il medico che per primo lo ha soccorso.

“Quella sera non la dimenticherò mai”, racconta Rafla, la sorella che lo ha accudito e curato fino alla fine. “Lui non rientrava a casa e io ero preoccupata. Scendo in strada e la gente mi guarda in modo strano. Il giorno dopo incontro un vecchio professore di francese che mi chiede se mio fratello fosse uscito dal coma. Rimango raggelata. Mi avvicina Rosario Renzetti e mi dice che ha dovuto dare due schiaffi, proprio così, a Saifeddin perché si era comportato male e gli aveva rotto un vetro. Gli ho sputato in faccia”. Rafla vive da anni in Italia. Ha sposato un italiano dal quale è divorziata, parla e scrive benissimo, e ha due figli, uno a Pescara e l’altra in Francia. “Mio fratello è una vittima senza giustizia. Chi ne ha causato la morte sconterà pochi anni di galera, se li farà. Certo, faremo la causa civile, ma so già che avremo solo un risarcimento formale, visto che il condannato risulta nullatenente e senza reddito. Povero Saifeddine, lo abbiamo portato in Tunisia, è sepolto nella sua terra”.

Safeddine Chaffar muore il 7 aprile 2015. Per la sua morte c’è un solo colpevole, Rosario Renzetti, barista e “utilizzatore” di braccianti in nero. Condannato il 20 novembre 2018, 12 anni dopo quella maledetta sera, dalla Corte d’Assise e d’Appello di Campobasso a 5 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Un anno in meno rispetto alla sentenza di primo grado. Si chiude così una storia che a Guglionesi, paese di montagna che guarda il mare, nessuno vuole più ricordare. Solo Rafla, la sua sorella-mamma, che ha un unico desiderio. “Andar via da questo posto”. Il resto è il benzinaio che avviciniamo e che ci liquida frettolosamente. “I morti lasciamoli in pace, pensiamo ai vivi, a Rosario che ha i figli e che mo’ si deve fare la galera”. Il barista che ci serve un caffè e ha la tv a tutto volume sul talk dove i soliti figuri si accapigliano sulla sicurezza. “In giro c’è troppa violenza, droga… anche qui da noi. Un barista come me ha picchiato un marocchino – era tunisino, ndr – e gli stanno facendo causa. Vogliono i soldi. Tu vai in galera e loro sono liberi e pretendono!”.

Saiffedine Chaffar, ucciso perché chiedeva solo i pochi euro che gli spettavano dopo una giornata passata a raccogliere olive, e morto senza giustizia, ora ha trovato la sua pace. Voleva lavorare e portare sua moglie in Italia. Riposa nella sua città, all’ombra della grande moschea di al-Qayrawan.


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