lunedì 3 giugno 2024

Ahh le regole!


Moda, la Ue chiude un occhio sui minori schiavi nel Pakistan

Nonostante i piani voluti da Bruxelles continua lo sfruttamento dei bambini nei campi per la raccolta del cotone

di Stefano Valentino e Shahzeb Jillani 

L’Unione europea non obbliga i marchi europei dell’abbigliamento a dimostrare che le loro magliette e i loro jeans non sono legati alla schiavitù nei campi, come avviene invece ancora in Pakistan. Il Paese asiatico è tra i 7 maggiori produttori mondiali di cotone. Tuttavia, è anche al 18esimo posto nell’Indice globale della schiavitù, con 2,3 milioni di lavoratori sfruttati. Questi sono impiegati soprattutto nell’agricoltura, che in Pakistan resta un settore informale, privo di tutela giuridica.
Guddi, di circa 50 anni, raccoglie cotone nella provincia di Sindh, la più fertile dopo il Punjab. Non è mai andata a scuola. E nemmeno nessuno
dei suoi sei figli. Guddi è tra le orde di mezzadri senza mezzi di sostentamento intrappolati nella servitù per ripagare i debiti (spesso gonfiati) contratti con i proprietari terrieri. Un’élite feudale che controlla i terreni agricoli della nazione asiatica. Anche la figlia 13enne di Guddi lavora nel latifondo di cotone. “Voglio vederla felice e prospera, ma ci vogliono quattro paia di mani per raccogliere 40 chili, per i quali vengo pagata 500 rupie (1,6 euro)”, si lamenta Guddi. “Non sono mai sfuggita alla povertà, e nemmeno mia figlia ci riuscirà, è una schiava”.
La figlia di Guddi è tra i 22,8 milioni (circa il 44%) di piccoli pakistani tra i 5 e i 16 anni costretti a lavorare per la sopravvivenza quotidiana delle loro famiglie. Il Pakistan è il secondo Paese al mondo per numero di bambini non scolarizzati. Il cotone raccolto da Guddi e da sua figlia viene venduto a intermediari nelle città locali, trasportato agli impianti di sgranatura che producono le balle per i filatori che realizzano i tessuti, poi trasformati in capi d’abbigliamento nelle fabbriche della capitale economica Karachi. Metà di questi vengono esportati nell’Unione Europea che è il principale mercato di esportazione dei prodotti del Pakistan nel comparto della moda.
Per ripulire le filiere dagli impatti dannosi, la Ue ha introdotto il divieto di commercializzare prodotti realizzati con il lavoro forzato e l’obbligo per le grandi imprese di garantire la sostenibilità delle loro forniture, anche se queste norme entreranno in vigore rispettivamente solo nel 2025 e nel 2027. Tuttavia, all’inizio di aprile l’Europarlamento ha frettolosamente votato disposizioni annacquate, in vista delle imminenti elezioni europee di giugno. Il Consiglio dei 27 Stati membri (che agisce come co-legislatore) ha rimandato l’approvazione finale dei due testi al prossimo autunno. Le lacune normative esentano i distributori della moda (così come quelli di qualsiasi altra merce) dal garantire la tracciabilità della filiera fino all’acquisto delle materie prime, per mostrarne chiaramente l’origine.
“L’industria tessile è una delle più esposte allo sfruttamento nel lavoro, tuttavia la tracciabilità dal campo all’azienda non è stata resa obbligatoria perché osteggiata dall’industria”, dichiara Helene De Rengerve, attivista per i diritti umani. European Branded Clothing Alliance (Ebca) è il gruppo di pressione con sede a Bruxelles che rappresenta gli interessi dei principali marchi della grande distribuzione di vestiti, tra cui la spagnola Zara (di proprietà di Inditex), la tedesca C&A e la svedese H&M. “Le aziende avrebbero bisogno di tempo sufficiente per la mappatura della loro intera catena di approvvigionamento nei Paesi terzi, […], imporla per legge non la renderà immediatamente possibile”, sostiene pubblicamente l’Ebca. “Esistono già tecnologie per accertare la provenienza del cotone, tra cui l’etichettatura elettronica”, ribatte invece Priscilla Robledo, coordinatrice lobby & advocacy della rete Clean Clothes Campaign. “Cerchiamo il più possibile di fornire informazioni sull’origine del cotone attraverso strumenti digitali e codici Qr”, dichiara Yaqoob Ahmed, presidente di Artistic Milliners, azienda pakistana leader nella produzione di abbigliamento, “tra i nostri clienti ci sono rivenditori di alto livello come Zara, H&M, C&A, eccetera”. C&A è l’unico grande marchio che indica la quota di capi importati dal Pakistan (6% nel 2022), oltre a rivelare i nomi dei fornitori, come H&M, mentre Zara ha una rigida politica di riservatezza.
In risposta alle nostre richieste, le tre aziende ci hanno rimandato ai loro rapporti di sostenibilità che non tollerano alcuna violazione dei diritti umani. Ma tutte hanno ammesso che i loro controlli diretti sono limitati alla produzione tessile e non si estendono alle coltivazioni di cotone in Pakistan o altrove. Tutti e tre i colossi della moda richiedono ai loro fornitori di acquistare cotone certificato “ambientalmente e socialmente sostenibile” da Better Cotton. Questa piattaforma, con adesione volontaria, si incarica delle verifiche sul campo per aiutare i marchi internazionali a dimostrare il loro approvvigionamento responsabile. Secondo il sistema di Better Cotton, i centri di sgranatura possono certificare tutto il cotone che acquistano da aziende agricole autorizzate. Tuttavia i filatori acquistano dagli sgranatori cotone sia certificato che non certificato. Non vi è quindi alcuna garanzia che il tessuto che arriva alle fabbriche pakistane che a loro volta vendono il prodotto finito ai marchi europei non sia associato al lavoro forzato e minorile. “La nostra catena di custodia non garantisce una tracciabilità al 100%”, confessa il portavoce di Better Cotton. Anche Artistic Milliners si rifornisce attraverso il programma di certificazione Better Cotton. “Non c’è modo di essere sicuri al 100% delle condizioni di lavoro in tutte le aziende agricole”, fa eco Ahmed. “L’approccio di Better Cotton non ci permette ancora di conoscere l’esatta provenienza del cotone presente nei nostri prodotti”, conferma Bianca Maley, responsabile relazione esterne di C&A. “Monitoriamo i progressi di Better Cotton nelle soluzioni di tracciabilità, per adottare contromisure mirate nei Paesi a rischio”, puntualizza Albin Nordin, addetto stampa di H&M.
Better Cotton ha recentemente firmato un accordo con la Federazione delle Camere di commercio e dell’industria del Pakistan per migliorare ulteriormente il suo sistema di sorveglianza (introdotto nel Paese dal 2009). L’iniziativa mira ad assicurare nel lungo periodo la piena tracciabilità dall’azienda agricola ai negozi di abbigliamento. Il piano è ancora nella sua fase iniziale. Gli attivisti non sono del tutto convinti. “Per essere efficaci nell’identificare e rimuovere lo sfruttamento nel lavoro, le pratiche di due diligence delle aziende europee devono andare oltre gli audit condotti da terzi”, dichiara Sian Lea, responsabile per le imprese e i diritti umani dell’Ong Anti-Slavery International. “Abbiamo chiesto di non fare affidamento sulle certificazioni – ad esempio quelle di Better Cotton – utilizzate dagli importatori per scaricare la responsabilità sui loro fornitori, ma la Ue non le ha ufficialmente escluse”, protesta Robledo.
Nell’ambito del quadro giuridico Ue, spetta agli Stati membri avviare indagini sulla base delle denunce fatte da terzi (Ong, media, eccetera) e provare che un prodotto comporta lavoro forzato, al fine di vietarlo. Inoltre, per imporre multe e chiedere risarcimenti, le autorità competenti e le vittime degli abusi devono rispettivamente dimostrare che l’azienda non ha fatto del suo meglio per prevenire gli abusi commessi dai suoi fornitori diretti e indiretti, compresi i proprietari delle fattorie di cotone. Per Guddi e sua figlia, intentare una causa per omessa diligenza senza nemmeno sapere quali marchi di abbigliamento vendono capi realizzati con il cotone da loro raccolto, sarebbe un’impresa quasi utopistica.

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