martedì 23 maggio 2017

Articolo


Un articolo illuminante di Attilio Bolzoni che spiega quanto il giudice Falcone abbia dovuto patire durante il suo lavoro. Il gelo attorno a lui fu molto simile alla solitudine mafiosa, preludio di assassinii.

Il tradimento del Csm e quello sfogo con gli amici “Io, consegnato ai boss”

ATTILIO BOLZONI

FORSE è stata la prima volta che ha avuto davvero paura. Di morire, di fare la fine che poi ha fatto. La sera prima era ancora sicuro di farcela. Aveva contato e ricontato tutti i voti che gli erano stati assicurati, una croce sul foglio bianco accanto a ogni nome e a ogni promessa. La sera dopo, nonostante i suoi nervi di acciaio, non è riuscito a nascondere agli amici un’inquietudine che ora dopo ora è diventata angoscia: «Così mi hanno consegnato a Cosa Nostra».
Lo Stato italiano aveva appena delegittimato l’uomo migliore che aveva contro la mafia siciliana. Con un voto vergognoso il Consiglio Superiore della Magistratura aveva “bocciato” Giovanni Falcone come consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, al suo posto aveva preferito un anziano giudice con sedici anni di carriera in più alle spalle che però niente sapeva dei misteri mafiosi e delle complicate indagini che da qualche anno stavano mettendo sottosopra la Sicilia. Il 19 gennaio 1988 il giudice che per primo aveva messo paura ai boss era ormai sicuro che, prima o poi, quei boss l’avrebbero ucciso. Il segnale arrivato dal Csm era preciso: sei solo, ti hanno scaricato pure i tuoi colleghi magistrati. Disse al consigliere Vito D’Ambrosio, che si era schierato con lui: «Lì dentro mi hanno crocifisso, inchiodato come un bersaglio ». Disse alla consigliera Fernanda Contri, una sua amica: «Ora possono eseguire senza problemi la sentenza di morte già decretata da tempo, perché hanno avuto la dimostrazione che non mi vogliono neanche i miei».
A Palazzo dei Marescialli quel giorno 10 votarono per Falcone, 5 si astennero, 14 votarono per Antonino Meli. Gli voltarono le spalle anche metà di quelli della sua corrente, Unità per la Costituzione. Altri lo tradirono all’ultimo momento. Uno in particolare, un magistrato della procura palermitana che, subito dopo la strage del 23 maggio 1992, Paolo Borsellino apostrofò pubblicamente “il giuda”.
Ma la storia di quella votazione infame era cominciata molto tempo prima. E i mandanti erano nascosti in Parlamento e al Palazzo di Giustizia di Palermo. Era appena finito il maxi processo, il primo successo dello Stato italiano contro la criminalità mafiosa da quando lo Stato italiano esisteva. Ma il giudice era “troppo avanti” con le sue investigazioni, si stava avventurando nella terra di nessuno delle contiguità. Un pool antimafia che aveva rivoluzionato i sistemi di indagine, che aveva “centralizzato” tutte le informazioni riservate, che si era trasformato in una cassaforte di segreti. Custodita da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta. E dal loro capo Antonino Caponnetto.
Ma Caponnetto, dopo quattro anni e quattro mesi — era sceso a Palermo alla fine del 1983 per sostituire Rocco Chinnici saltato in aria a luglio — stava per andare in pensione. Chi, più di Falcone, per competenza, passione, merito, senso dello Stato, avrebbe potuto sedersi su quella poltrona di consigliere istruttore? I nemici di Falcone calarono l’asso di bastoni con astuzia, quasi alla scadenza dei termini delle domande per diventare consigliere istruttore a Palermo. Con un nome: Antonino Meli. Era un magistrato anziano, presidente della Corte di Assise di Caltanissetta, che aspirava alla presidenza del Tribunale di Palermo. Un incarico prestigioso. Alcuni giudici, però lo convinsero a ritirare la domanda per quella poltrona e ripiegare sulla carica — meno importante — di consigliere istruttore. Contro ogni ambizione e logica, Meli accettò il consiglio dei suoi colleghi. Fu la mossa finale per sbarrare la strada a Giovanni Falcone. Fra Palermo e Roma organizzarono la trappola, fra il palazzo di giustizia siciliano e il Consiglio superiore della Magistratura. Giocando tutto sul fattore “anzianità” si arrivò alla votazione del Plenum che ridusse Falcone a carne da macello. Il relatore Umberto Marconi spiegò così la scelta: «Accentrare tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi di ribalta... Si trasmoda nel mito, si postula una infungibilità che non risponde al reale, mortifica l’ordine giudiziario nel suo complesso».

La battaglia del Csm non è stata una bega fra magistrati, una rissa corporativa. Antonino Meli in una settimana disintegrò otto anni di indagini di Falcone seppellendo il pool antimafia. Avocò a sé l’ultima inchiesta sul pentito Antonino Calderone e la sbriciolò in una quindicina di tronconi, spedì brandelli di ordinanze a una dozzina di procure sparse per la Sicilia, con una sola firma riportò la lotta giudiziaria alla mafia all’età della pietra. “Spezzatino antimafia”, lo chiamarono i palermitani. All’inizio di quell’estate Paolo Borsellino, che era procuratore capo a Marsala, non rimase in silenzio. E in una clamorosa intervista a Repubblica e all’Unità, accusò: «A Giovanni Falcone hanno tolto la titolarità di tutte le indagini di mafia, la lotta alla mafia è finita». Era il 19 luglio del 1988. Esattamente quattro anni prima dell’autobomba in via D’Amelio.

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