Conflitti. Nell’esaltazione del “sangue contro sangue” dominano gli estremi
di Alessandro Robecchi
La guerra bisogna vederla dal basso, dalla parte di chi la subisce. Perlopiù ce la raccontano dall’alto, dalla parte di chi la fa: tattiche, strategie, azioni militari, con parole antichissime (assedio) e nuove (droni, cyber war), si tende a guardare tutto dalla parte di chi tiene il fucile e non da quella di chi guarda il buco nero della canna rivolta verso di lui. Vale per tutti i civili, ovviamente, da qualunque parte, in qualunque guerra. Vale per gli ucraini, per gli armeni costretti a scappare, per gli israeliani ammazzati in casa o al rave party, per i due milioni di abitanti di Gaza a cui ora si chiudono luce, gas, acqua, approvvigionamenti di cibo, mentre li si bombarda indiscriminatamente, ospedali, moschee, case, nella febbre della rappresaglia, nell’esaltazione del “sangue contro sangue”: comandano gli estremi.
In questa tenaglia finiscono i civili, quelli che non c’entrano, che semplicemente stanno lì. Succede che la valvola della pentola a pressione salti, che la fiammata ammazzi qualcuno, quasi sempre qualcuno che non c’entra, gli innocenti, quella “povera gente”, per citare Bertolt Brecht, che in seguito alle guerre farà la fame, da vinti e da vincitori.
La questione palestinese se ne sta lì da molto più di mezzo secolo, a volte assopita, a volte clamorosamente scottante, un bubbone aperto che si spera non erutterà – figurarsi – con un Paese governato da una destra estrema, con ministri fanatici, con insediamenti illegali che rosicchiano terre e case al nemico, con esercito e servizi fino a ieri considerati efficientissimi; e un’altra popolazione prigioniera, che dipende in tutto e per tutto dall’occupante. Quello che succede oggi è figlio di una storia complessa, intrecciata in anni e anni di ingiustizie, tormenti, risoluzioni Onu mai rispettate, repressione, apartheid, formazioni terroristiche. Ma è figlio anche di uno schema che è andato precisandosi e affinandosi, che la guerra in Ucraina ha affilato come una lama, che viene imposto nella narrazione corrente, reso obbligatorio: il buono e il cattivo. Se perde il buono perderemo tutti, è l’assunto che rafforza la tesi, una tesi che la famosa Europa sembra sposare sempre in modo meccanico e acritico, si veda la favola bella che armiamo fino ai denti l’Ucraina per difendere Berlino, Roma, Parigi, l’Occidente, eccetera eccetera. Balle, come gran parte dell’opinione pubblica sa da tempo. E guai a dire che il buono non è così buono come lo si descrive, perché il sistema binario è subito applicato con rigore chirurgico: dopo il retorico “sei putiniano”, aspettiamoci il più risibile e ridicolo “sei terrorista”. Un sistema binario che è esso stesso guerra, che serve ad alimentare lo scontro, non a fermarlo.
Così oggi quello che la narrazione corrente chiede – una vera chiamata alle armi – non è di capire o di fermare il massacro, o di ragionare, ma di schierarsi senza se e senza ma. Eppure, a dispetto della propaganda, no, noi non siamo Israele, e naturalmente no, noi non siamo Hamas (tocca dirlo, purtroppo, anche se pare assurdo, per prevenire i propagandisti), e questo chiederci di essere questo o quello – senza sfumature, senza dubbi – non è che un ennesimo portato della guerra, un arruolamento forzato delle coscienze. È un altro modo – da qui, dal divano – di fare la guerra, mentre il contrario – fermarsi, ragionare, accettare le differenze, lavorare sulle cause, rimuovere le ingiustizie, isolare gli estremi – è l’unico modo, invece, per fare la pace. Non succederà. Non ora, almeno. Ed è un altro crimine.
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