Undici minuti da favola
A Tokyo Jacobs è il nuovo re dei 100 metri Tamberi conquista l’oro nel salto in alto
di Emanuela Audisio
Tutto in una notte, piena di sole. Anzi in 11 minuti. Super Golden Sunday. Un viaggio infinito: da Simeoni a Tamberi. Da Bolt a Jacobs. Per sorpassare il mondo. Due italian boys. Due corpi che si abbracciano e si chiedono: ma cosa abbiamo fatto? Due campioni olimpici che stravolgono la storia, anzi la ribaltano. E con un secondo tricolore difficile da trovare perché vai tu a pensare che due azzurri nello stesso giorno e stadio e quasi alla stessa ora producano così alta intensità?
Un promesso sposo e un papà di tre bimbi. Il bianco e il nero. Uno che salta (2,37) e uno che corre (9”80). Due che vincono. Quasi stessa età: 29 anni Gianmarco, 27 a settembre Marcell. Tutti e due alla prima finale a Cinque Cerchi.
Un’Italia mai vista prima, nell’atletica, lo sport più universale. Sara Simeoni vinse l’alto ai Giochi di Mosca nell’80 e Pietro Mennea i 200 metri. Ma erano entrambi primatisti del mondo e avevano attraversato due Olimpiadi. Tamberi invece a Londra 2012 non passò le qualificazioni e a Rio 2016 era con il gesso alla caviglia mentre Jacobs qui debuttava e aveva il compito più duro: nessun azzurro era mai riuscito a correre la finale dei cento mai. Mai, never . Fino a questa pazza e sconvolgente domenica che mette sottosopra il mondo.
Ora in America scrivono: the fastest man in the world is italian. Yes, indeed. E si capisce lo stupore, anche nei Caraibi e dintorni. Perfino Usain Bolt nella sua villa in collina fuori Kingston si starà chiedendo: da dove salta fuori questo qui che prende il mio posto? E già perché questi sono i primi Giochi senza Bolt, che è l’unico ad aver vinto le sue finali olimpiche con tempi più veloci di Jacobs: 9”69 nel 2008, 9”63 a Londra, mentre a Rio si fermò a 9”81 (un centesimo in più di Marcell).
Tamberi ha un genitore allenatore, Marco, ex saltatore, sempre presente, Jacobs invece no, padre assente, i rapporti si sono interrotti presto, quando è tornato in Italia, e questo ha lasciato fratture e incomprensioni. Il primo è nato a Civitanova Marche, è estroverso, molto attore, in senso scenico, il secondo a El Paso, Texas, ma da quasi subito si è trasferito con la madre a Desenzano. Gianmarco detto Gimbo, sempre a dieta, ha saltato 2,37 senza mai sbagliare e chiedendo sostegno al poco pubblico (lui si carica così), al decimo salto, con l’asticella a 2,39 ha cercato di forzare, ma non ne aveva più. Nel frattempo aveva fatto di tutto: pregare in ginocchio, agitare le gambe alla Josephine Baker, mimare un canestro, urlarsi con il padre. Grande gara: in sei a 2,39, con tre che passavano 2,37. E con il suo rivale- amico Mutaz Barshim (Qatar) diventato da poco padre, anche lui operato al tendine d’Achille, che non mollava di un centimetro, anzi diventava sempre più furioso. Però alla fine era sfinito anche lui.
A 2,39 fallito da entrambi, ci doveva essere lo spareggio, il tie-break, i rigori (vi ricorda qualcosa?), ma Barshim chiedeva al giudice: «Can we have two golds?». Possiamo avere due ori? Insomma ex aequo. Gli amici condividono, non si sbranano dopo un viaggio al termine della notte, soprattutto se si sono lasciati biglietti sotto la porta nei momenti di maggiore sconforto. E a quel punto Tamberi sembrava preda di una pista mistica, piangeva, rideva, collassava, risuscitava, mostrava il gesso che per cinque anni aveva imprigionato il suo sogno oramai ossessione. E ripeteva: «Non ci posso credere». Se l’erano detto la sera prima giocando alla playstation: ti immagini se domani vinciamo insieme? No dai, e chi ci crede?
Intanto Jacobs aveva messo due piedi nella finale dei 100 correndo con disinvoltura in 9”84, migliorandosi di 10 centesimi, record italiano ed europeo, e dicendo ai giornalisti che non poteva fermarsi perché doveva andare a riposare. Come Carl Lewis che tra una gara e l’altra faceva il sonnellino. In finale la corsia a destra di Jacobs si svuotava per falsa partenza (fuori l’inglese Hughes), l’americano Bromell non si qualificava, e Marcell ai blocchi aveva la faccia di chi era riuscito a inquadrare il posto del mondo dove voleva essere. Proprio lì, ma in testa. Detto fatto. Vento quasi nulla, penultimo tempo di reazione. Scattava, era in linea con l’americano Kerley, ma ai 60 passava avanti, mangiandosi i metri, toccando una punta di velocità di 42,9 km orari. Roba da Tour. Qualcosina di meno di Bolt mondiale. Piombava sul traguardo senza nemmeno accorgersene, ma dando un’occhiata sulla destra, per vedere se c’era una marea che saliva.
Quando fai così, vuol dire che sei lucido, come Bolt che a Rio, prima del traguardo, si volta a sinistra verso il fotografo per essere inquadrato bene. E in più gli sorride. Primo? Primo. Il tabellone dice Jacobs. Secondi lunghi di incredulità. C’è qualcosa che non torna: un debuttante, uno di un Paese che in più di un secolo non è mai riuscito ad entrare in finale nei cento, ora la vince? Mettendosi alle spalle gli dei dello sprint americani e canadesi? Va bene l’Italian Job, ma questo è un tempo mondiale. Il decimo all time. E Marcell si è migliorato di altri quattro centesimi. Per la quinta volta è andato sotto i 10”. Era da Barcellona 1992 con l’inglese Linford Christie che un europeo non si prendeva i cento. Ok, è stato un anno strano, assurdo, molto alla rovescia. L’Italia del calcio ha vinto gli Europei, ma a Rio l’atletica azzurra aveva chiuso con zero medaglie e le ultime della pista risalgono a 25 anni fa (Lambruschini e Brunet ad Atlanta ’96). Era perplesso anche Marcell, ex lunghista, forse pensava a cosa dire ai figli, a Jeremy, Anthony e Megan: allora papà, il primo agosto 2021 a Tokyo in uno stadio vuoto mentre il mondo cercava il nuovo Bolt, si è fatto una corsetta con altri che si credevano chissà chi e li ha fulminati. Si chiamavano Kerley e De Grasse, 9”84 e 9”89, andavano molto più piano di papà che ora per ricordo si farà un altro tatuaggio, se trova ancora un centimetro di pelle libera. O forse pensava alla promessa fatta alla sua compagna, Nicole Daza, 27 anni, originaria dell’Ecuador: «Arrivo in finale a Tokyo e ti sposo». Anche Tamberi prima di partire ha chiesto la mano di Chiara con cui convive e se l’è portata a Tokyo. E per la prima volta non si è fatto i capelli strani, né si è rasato a metà. Come a dire che l’età per essere ragazzini è passata e che i dolori, tendine d’Achille e lungo stop, t’invecchiano in fretta. Ma Gimbo chi lo ferma più? Non sembra nemmeno tanto stanco. Zompa in braccio a Barshim, a Marcell che intanto ha trovato una bandiera da sventolare, fino a quando un gruppo di sei addetti giapponesi gli si para davanti per obbligarlo a smammare dalla pista. Il mondo sarà pure immenso, ma quella che per Metternich era un’espressione geografica fa, sportivamente s’intende, quello che fa Gassman nel film Il Sorpasso di Risi. Ah sì, le scarpe magiche. Anche Marcell le aveva. Mentre i suoi avversari dicono: «Non sapevamo chi fosse». Così Jacobs, il grande sconosciuto, spiega: «Ho cambiato disciplina, ma non ho cambiato sogno». E lo sport è così, a volte riallinea i pianeti, i cuori, e nuove felicità. Si può vincere in tanti modi. Marcell lo sa: «Quando la gente mi chiedeva chi è tuo padre, dicevo sempre non lo so. Un anno fa gli ho parlato per la prima volta, è stato importante. Mi ha scritto prima della gara, dicendo: puoi farcela, siamo con te, ti guarderemo». Non ci sarà più una prima domenica di agosto così. Con le coordinate del mondo molto italiane. La terra e il cielo. L’uomo più veloce sulla pista, Jacobs. E l’uomo più alto nell’aria, Tamberi.
La teoria della relatività da oggi ha nuova formula. I=mc2. L’Italia come misura dello spazio e del tempo.
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