sabato 08/09/2018
Prima gli italiani
di Marco Travaglio
Siccome Salvini è un tipo fin troppo sveglio, si esclude che non capisca. Perciò l’unica spiegazione è che finga di non capire, sperando che i suoi numerosi elettori e fan non capiscano un fatto molto semplice: la Lega Nord, col suo ex tesoriere Francesco Belsito, il suo ex segretario Umberto Bossi e i suoi tre ex “revisori dei conti” (ahahah), ha rubato 51 milioni di euro al Parlamento, cioè ai cittadini. Ha presentato carte false per farsi rimborsare tutti quei quattrini per spese e investimenti privati e personali (diamanti in Tanzania, lauree taroccate in Albania ecc.) spacciati per esborsi politico-elettorali. La stessa cosa, per importi inferiori, han fatto consiglieri regionali e comunali di FI, Pd, Lega &C. con le truffe sui rimborsi dei gruppi consiliari che, dopo le inchieste e le sentenze, han visto gli indagati e i condannati candidati ed eletti in questo Parlamento (il che rende ridicoli i moralismi di Renzi &C. in casa d’altri). Dei 51 milioni rubati dalla Lega, il Tribunale di Genova che ha condannato in primo grado Belsito, Bossi e i tre sedicenti revisori (tutti e cinque per truffa e il primo pure per appropriazione indebita) è riuscito a sequestrarne solo 2: gli altri 49 sono spariti. Che siano stati spesi, come sostiene la Lega, o dirottati su conti segreti, come sospettano i pm, poco importa. Il derubato, cioè il Parlamento, cioè noi, si è costituito parte civile e il Tribunale gli ha riconosciuto il sacrosanto diritto di riavere indietro la refurtiva.
La legge non solo consente, ma impone il sequestro preventivo dei beni equivalenti al bottino sottratto anche prima che la sentenza diventi definitiva: altrimenti il condannato in primo grado che sa di perdere i quattrini dopo il terzo, li fa sparire subito e, quando arriva la Cassazione con la confisca definitiva, la vittima resta con un pugno di mosche. Dunque il Tribunale di Genova dispose il sequestro dei 49 milioni mancanti dopo la prima sentenza (quella d’appello arriverà tra poche settimane). La Lega ricorse al Riesame, che le diede ragione. La Procura impugnò in Cassazione, che a luglio confermò il sequestro. L’altroieri il nuovo Riesame ha recepito il messaggio, ordinando di prelevare da tutte le casse della Lega l’equivalente della somma rubata e sparita. D’ora in poi – salvo nuovi, disperati ricorsi in Cassazione – qualunque somma donata da parlamentari o privati alla Lega, o a società, onlus, fondazioni a essa legate, verrà incamerata dai magistrati fino ad accumulare 49 milioni. Per un partito all’antica come la Lega, con sedi e circoli sul territorio, è una pessima notizia. E cambiare nome servirà a poco.
Salvini ha già levato “Nord” dal logo senza riuscire giuridicamente a distaccarsi dalla pesante eredità del passato. Anche perché la Lega maroniana si costituì parte civile contro Belsito, ma poi Salvini fece marcia indietro e ritirò la richiesta di danni all’ex tesoriere: temeva che sapesse qualcosa di compromettente? O solo di riaprire la piaga della penosa vicenda umana e politica di Bossi, della sua malattia e del suo cerchio magico? Dovrebbe spiegarlo, anziché attaccare i giudici che obbediscono alla legge. Poi dovrebbe cambiare non il nome, ma la forma e la sostanza del partito, trasformandolo in un movimento leggero. Un po’ come i 5Stelle, che nel 2013 restituirono 49 milioni – guardacaso la stessa cifra – di finanziamento pubblico e il 4 marzo sono riusciti a raggiungere il 32,5% con una campagna elettorale costata 800 mila euro (tutte micro-donazioni private). L’alternativa è lanciare una mega-colletta tra militanti e simpatizzanti per raccogliere quei 49 milioni (10 euro a elettore), consegnarli al Tribunale e ripartire da zero.
Al momento, comprensibilmente sotto choc, Salvini e i suoi preferiscono prendersela con chi non ha colpe: i pm e i giudici che non hanno “attaccato la Costituzione”, ma – repetita iuvant – obbedito a un obbligo. E l’hanno scritto nella sentenza: “Esiste una precisa disposizione di legge che impone la confisca addirittura come obbligatoria nel caso in esame, senza quindi consentire al giudice alcuno spazio di disapplicazione della norma stessa per i dirigenti pro tempore di un partito politico che commettano reati rispetto alle posizioni di qualunque altro imputato”, anche perché “non esiste alcuna norma che stabilisca ipotesi di immunità per i reati commessi dai dirigenti dei partiti politici”. Salvini paragona la sentenza di Genova a quella di un giudice turco che mise fuorilegge un partito di opposizione a Erdogan tagliandogli i viveri. Ma quel partito non aveva dirigenti condannati per truffa: quella sì fu una “sentenza politica”, emessa in un regime antidemocratico; questa è la sentenza di uno Stato democratico su reati comuni commessi da politici. Se avesse voluto dimostrarsi estraneo a quei reati comuni, Salvini – che pure era un dirigente e un parlamentare anche della Lega Nord bossiana – avrebbe dovuto almeno confermare la costituzione di parte civile. E forse non gli sarebbe bastato perché, come notano i giudici del Riesame, “la Lega Nord ha direttamente percepito le somme qualificate in sentenza come profitto del reato in quanto oggettivamente confluite nei conti correnti”: dunque “non può ora invocarsi l’estraneità del soggetto politico rispetto alla percezione delle somme confluite sui suoi conti e dalle quali ha direttamente tratto un concreto e consistente vantaggio patrimoniale”. E anche politico-elettorale: senza il bottino di Belsito &C., la Lega bossiana, maroniana e salviniana avrebbe avuto 51 milioni in meno per le campagne elettorali successive alla grande rapina. Che l’ha avvantaggiata per anni, fino al 4 marzo: ora i voti ottenuti anche grazie a quei soldi se li può tenere, ma il bottino deve restituirlo. Prima gli italiani. O no?
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