venerdì 7 giugno 2024

L'Amaca

 

La morte e la fanfara
di Michele Serra
Le rievocazioni e le cerimonie per l’ottantesimo dello sbarco in Normandia hanno avuto un pregio tutt’altro che secondario, e soprattutto non scontato. Si è parlato di quella pagina decisiva della Storia come di una carneficina. Sicuramente utile a rovesciare le sorti della guerra: ma al prezzo di una inaudita mattanza, tal quale viene descritta, con una crudezza a tratti insopportabile, nella ricostruzione cinematografica più celebre, quella di Spielberg in Salvate il soldato Ryan. Per quelli della mia generazione le commemorazioni belliche, dal Risorgimento in poi, sono pervase di stendardi al vento, sciabole sguainate, valor militare. Non ho memoria, né alle elementari né alle medie né al liceo, di immagini o parole che riportassero la guerra alla sua sostanza materiale, che è quella della morte violenta e dei cadaveri esposti alle mosche. È possibile che la mia prima percezione non retorica della guerra sia una poesia di Ungaretti: “Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato, con la sua bocca digrignata”. Si chiama Veglia, è ambientata sul Carso nella Prima Guerra Mondiale, forse era in un’antologia ginnasiale meno imbalsamata delle altre (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso), forse ce la fece leggere un/una prof più irrequieta della norma. Mi è sempre rimasta impressa. Poi venne la Guerra di Piero di De André, con i cadaveri dei soldati “portati in braccio dalla corrente”.
La guerra è fonte secolare di retorica, non si contano i monumenti a generali o militi che grondano baldanza e patriottismo. È un passo avanti questo piegarsi su migliaia di giovani uomini freddati da un proiettile (i più fortunati) o sventrati e riversi nella sabbia, poi ricomposti in quelle distese di uguali che sono i cimiteri militari. La guerra è morte e fanfara, in questo caso la memoria della morte è stata più forte della fanfara. Segno di civiltà.

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