martedì 1 aprile 2025

Limpido ragionamento

 

I bersagli comuni della destra
di ANNALISA CUZZOCREA
Chi si propone di distruggere la democrazia, per prima cosa cerca di abbattere ciò che la protegge: il limite. Non è un paradosso, non è una contraddizione: le democrazie liberali si fondano sull’equilibrio dei poteri e quindi sulla impossibilità — per uno dei tre poteri, che sia esecutivo, legislativo o giudiziario — di farsi assoluto.
Quando Matteo Salvini — a proposito della condanna di Marine Le Pen in Francia — parla di una “dichiarazione di guerra da parte di Bruxelles, in un momento in cui le pulsioni belliche di Von der Leyen e Macron sono spaventose”, sta dicendo una cosa al contempo falsa e antidemocratica. Quando spiega che “Chi ha paura del giudizio degli elettori, spesso si fa rassicurare dal giudizio dei tribunali”, paragonando la decisione di un magistrato di Parigi a quella della Corte Costituzionale rumena sul candidato filorusso Georgescu, sta spiegando quale sia la sua idea di democrazia. Che non prevede limite per chi riveste cariche pubbliche, o per chi si candida a farlo. Che ritiene sia possibile usare finanziamenti pubblici, in questo caso del Parlamento europeo, per fini non consentiti: la politica interna di un Paese, la gestione di un singolo partito, senza pagarne le conseguenze. O, come in Romania, che sia consentito farsi finanziare da potenze straniere e avere collaboratori che tengono armi d’assalto in casa (tra l’altro, si tratta di situazioni diverse perché Georgescu è stato sì bloccato dalla commissione elettorale, e dalla Corte Costituzionale, ma non ha ancora avuto un processo come la leader del Rassemblement National).
Nella visione di Salvini, che è quella dei patrioti europei, di Le Pen, di Orbán, ma anche di Putin, di Musk, di Bannon o Alexander Dugin, per andare alle radici filosofiche del sovranismo mondiale, l’eletto dal popolo può tutto. Non ha vincoli, non deve sottostare alla regola. E chi lo richiama a farlo è un traditore della volontà democratica, un giudice con fini politici. In altre parole: un nemico. A batteria, i parlamentari della Lega hanno fatto uno dopo l’altro dichiarazioni analoghe a quella del loro leader. Esemplare per chiarezza, il senatore Claudio Borghi: “Non entro nel merito delle accuse a Le Pen. La questione grave è l’ineleggibilità. Il popolo deve essere libero di votare chi vuole”. Senza limiti, appunto. Qualunque sia il reato commesso. E magari, con la possibilità di sottrarsi al giudizio una volta eletti. L’ascesa di Donald Trump, nonostante la condanna nel caso Stormy Daniels e nonostante il ruolo nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, è in questo senso esemplare.
Giorgia Meloni è costretta alla cautela dal suo ruolo istituzionale, ma la sua famiglia politica di riferimento ha lanciato il grido: “Je suis Marine Le Pen”.L’amico americano, quell’Elon Musk padrone di X e Tesla e dei satelliti che il governo italiano vorrebbe tanto comprare, ha sentenziato: “Quando la sinistra non riesce a vincere per via democratica, abusa del sistema giudiziario per far incarcerare glioppositori politici”. La cosa divertente, è che sia lo stesso giudizio del portavoce del Cremlino Peskov: “La condanna all’ineleggibilità di Le Pen è una dimostrazione di come in Europa vengano violate le norme democratiche”. E qui cade la maschera.
Perché è l’autocrazia per eccellenza a parlare. È la visione dei despoti, e non è strano che sia così. Quel che è strano, è che ragionamenti di questo tipo travalichino la destra estrema in nome di uno “spirito liberale” che non dovrebbe fermare gli oppositori politici per via giudiziaria. È la linea di Forza Italia, che la maschera di garantismo. E di un’area centrista che tende a tirarla fuori quando conviene. Il punto è: seppure una condanna finisse per favorire chi la subisce, che si atteggia a martire, cosa dovrebbe fare la magistratura? Ritenere i politici al di sopra delle leggi scritte per i comuni mortali?
Il mondo di riferimento della premier, come Salvini, paragona il caso Le Pen a quello del candidato filorusso in Romania Georgescu, che l’europarlamentare di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini, copresidente del gruppo dei conservatori europei, ha definito “un attacco alla democrazia”. Così come sono, per Meloni e i suoi, attacchi alla democrazia le decisioni dei giudici sui migranti in Albania o la condanna per rivelazione di segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Delmastro. In quel caso, è stata la stessa premier a dirsi “sconcertata” e a chiedersi “se il giudizio sia realmente basato sul merito della questione». Quando i contropoteri non vanno nella direzione voluta dalla maggioranza di governo, la regola sono il sospetto, l’accusa, l’attività di linciaggio mediatico degli organi di complemento.
È una destra che, con il premierato, vuole cambiare la Costituzione per rafforzare ancora di più le prerogative del governo, e allentare fin quasi ad annullarle quelle del presidente della Repubblica e degli organi di controllo. Un progetto che nella sua idealità accomuna tutta la maggioranza, nonostante gli inciampi che ha incontrato finora per la necessità di ciascun partito di portare avanti la sua bandiera. Ma sul difficile rapporto col limite della democrazia, da quelle parti grandemente misconosciuto, non bisogna pensare ci siano troppi distinguo tra Meloni, Salvini e Tajani. In questo caso è il leghista a tuonare più forte semplicemente perché è l’alleato europeo più fedele di Le Pen, e il più interessato a trarre profitto politico dal martirio. La sentenza francese contro la leader del Rassemblement National, però, sarà usata da tutta l’estrema destra mondiale per tacciare di illiberalità chi crede nei presidi democratici. Sta agli altri, non cadere nel tranello. In Montesquieu, il coraggio della moderazione, appena ripubblicato per la Piccola Biblioteca Einaudi, Jean Starobinsky ricordava che l’illuminista “non invita alla rivolta, ma alla vigilanza.
Perché la servitù comincia sempre col sonno”.

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