lunedì 9 settembre 2024

Tomaso

 



Quel Guercino “strappato” e le mostre a ciclo continuo

LA “CROCIFISSIONE” VIA DALL’ALTARE - Trasloco alle Scuderie del Quirinale. Da Reggio Emilia un “prestito” assurdo: senza il suo contesto l’opera è stravolta e sacrificata. Per l’ennesimo business

di Tomaso Montanari 

Mi rendo conto che di fronte alle mirabolanti storie instagram della dottoressa Boccia; alle intemerate del signor presidente del Consiglio convinto di (ri)fare la storia (e dunque ‘niente passi falsi’: ognuno si gestisca in silenzio il suo giambruno); al rogo del povero Sangiuliano (umiliato da una pubblica ritrattazione in abitino da penitente, e poi arso vivo: nella migliore tradizione italiana, tra farsa e inquisizione); al Gramsci strattonato dal nuovo ministro Giuli, questo articolo sembri un tantino fuori dal tema della Cultura. Ma proviamoci: paulo maiora canamus. Ebbene, siamo proprio sicuri che sia una buona idea togliere dal suo altare e spedire a una mostra la Crocifissione della Ghiara di Guercino? Andiamo con ordine.

La Madonna della Ghiara è il santuario civico per eccellenza della città di Reggio Emilia. Sulla ‘ghiara’ (cioè la ghiaia) lasciata da un fiume che ivi scorreva, sorge dal Trecento un convento di Servi di Maria. Nella notte tra il 28 e 29 aprile 1596, un’immagine della Madonna qui dipinta fa un miracolo: mentre vi prega davanti, il quindicenne Marchino, garzone di macellaio sordomuto fin dall’infanzia, riesce ad articolare alcune parole. Non è un momento qualunque: pochi mesi dopo muore, senza eredi, il duca di Ferrara Alfonso d’Este, signore di Reggio. Ferrara viene devoluta allo Stato della Chiesa, e gli Este spostano la capitale a Modena, snobbando Reggio: che si attacca, come a una consolazione e a una ri- legittimazione, al culto della Madonna miracolosa. È il 1619 quando il nuovo, grandioso, santuario viene consacrato, e nel 1621 è pronto un colossale altare civico, offerto alla Vergine dal Senato e dal Popolo di Reggio: prima si pensa a mettervi un Cristone di bronzo, poi si viene a più miti consigli e si sceglie una pala d’altare.

Si è fatto ormai il 1623, e se Guido Reni è troppo caro, la morte di papa Gregorio XV Ludovisi segna la fine dell’“estate di San Martino della pittura bolognese a Roma” (Giuliano Briganti), liberando il secondo più grande pittore emiliano del momento: Guercino. Ne viene fuori un capolavoro strepitoso, un colosso alto 437 centimetri e largo 250, in cui il nuovo classicismo che Guercino va scoprendo si innesta “sul ceppo ancora traboccante di linfa dello scapestrato naturalismo giovanile” (Alessandro Brogi). Un pezzo emozionante, epico: che ha un senso pieno solo lì, montato in quell’altare, con quella luce, in quella scala grandiosa. Ancora, per fortuna, legato intimamente a quel contesto architettonico, artistico, religioso, morale che fa sì che esso non sia ‘solo’ un’opera d’arte, ma un palladio civile: un pezzo di città, proprio come una facciata o una piazza. Un organo di un corpo vivo. ​ Ma ora l’opera di Guercino lascia tutto questo: in un espianto, temporaneo sì, ma non meno insensato. Il trauma si deve a una mostra delle Scuderie del Quirinale: un ente che, se questo Paese fosse una Repubblica bene ordinata, semplicemente non dovrebbe esistere. Perché non ha alcun senso dover alimentare a getto continuo un mostrificio senza ricerca e senza pensiero, togliendo energie, soldi, idee al patrimonio vero del Paese, quello aderente al suo scheletro come una carne viva. La mostra sull’arte romana al tempo dei Ludovisi sarà (una volta tanto) affidata a ottime mani curatoriali: ecco una ragione di più per porre il problema. A Reggio Emilia si dice che il viaggio sarà l’occasione per ripulire l’opera da insetti e problemi vari: ma è ormai vero il contrario, e cioè che i restauri si fanno per le mostre, come un baratto. E infatti a Reggio, una stampa allineata o inconsapevole scrive, immancabilmente, di “un’opera che, solo al termine delle operazioni condotte grazie al finanziamento straordinario garantito dagli organizzatori della rassegna, potrà finalmente recuperare il suo primitivo splendore”. Amen, alleluja! Ma a Reggio c’è ancora chi ricorda che l’opera “venne restaurata una trentina d’anni fa sotto l’attenta, puntuale direzione scientifica di Denis Mahon: che, nella sua saggezza e per il suo amore genuino verso il maestro centese, non riteneva legittimo separare, sia pure temporaneamente, il capolavoro dal contesto d’appartenenza, consapevole del fortissimo legame intrinseco fra l’uno e l’altro”. Francis Haskell diceva che quando cadrà un aereo carico di Caravaggio o di Poussin, allora si capirà cosa stiamo facendo. Per ora vince un altro modo di fare storia dell’arte: quello incarnato da Antonio Paolucci, che da ministro di Lamberto Dini regalò il patrimonio italiano ai privati, e che da soprintendente di Firenze si definiva il “movimentatore massimo di capolavori”. È andata così, è fin troppo chiaro. Ma almeno sopra certe dimensioni, almeno per pezzi così ancora avvinti al loro contesto, almeno per i simboli civici, bisognerebbe sapersi ribellare, rinsavire, aprire gli occhi. E dire basta: muoviamo invece la gente, mandiamola alla Ghiara. Viaggiare o perire è ormai il motto delle opere d’arte del passato: e non è detto che sia un’alternativa.

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