Basilmente

 



Harris e Trump: la causa e l’effetto del naufragio

di Elena Basile 

Ho in mente un titolo per il mio nuovo libro: “Un approdo per noi naufraghi”. Osservando il dibattito pubblico negli Stati Uniti che precede le elezioni ho infatti la percezione netta di un Occidente che naufraga. La mancanza di cultura, la volgarità e il kitsch che impera, l’ipocrisia e l’ideologia dell’uomo bianco civilizzatore, le politiche classiste, l’affossamento dello Stato sociale, lo spettacolo sfrontato nel quale si balla e si ride nonostante le guerre in corso e le loro vittime, le guerre per le quali le élite statunitensi conservano una responsabilità rilevante. In una gradazione che non fa la differenza, queste caratteristiche appartengono a entrambi gli schieramenti. Esprimono l’imbarbarimento di una società materialistica e consumistica, di una oligarchia che ha minato ai capisaldi delle democrazie nate nel dopoguerra: istruzione pubblica, sanità, diritti sociali, cultura non pilotata dalla politica e dall’industria, stampa libera.

La società americana è sempre stata l’avanguardia di quella europea. Identiche trasformazioni neoliberiste hanno cambiato l’humus culturale dell’Europa. La stampa mainstream, dal New York Times al Corriere della Sera, cerca di convincerci che c’è un fascismo da abbattere e che i Democratici e le loro brutte copie europee rappresentino l’argine. In parte è vero: Renzi in fondo è diverso dalla Meloni come la Harris è diversa da Trump. Eppure, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che i partiti che dovrebbero opporsi al “fascismo” sono quelli che ci hanno accompagnato all’attuale deriva. La destra impresentabile nasce dal rifiuto dei perdenti della globalizzazione, dalla rivolta delle minoranze non protette e non funzionali al potere delle oligarchie della finanza.

Votano a destra il trash bianco, la piccola industria, il ceto medio impoverito, gli operai parcellizzati, minacciati dal lavoro nero dei migranti, le vittime della ineguaglianza sociale. La destra è il prodotto delle politiche neo-liberali, del prevalere dell’Economia sulla Politica. Il “There is no alternative” di Margaret Thatcher è divenuto lo slogan, al netto della propaganda, non solo di Ronald Reagan, dei conservatori e liberali europei, ma dello stesso centro-sinistra, di un socialismo riformista moribondo.

I Democratici costituiscono l’articolazione classica delle oligarchie della finanza che hanno costruito questo mondo nel quale naufraghiamo. Trump e le destre europee sono il risultato. La guerra contro la Russia per interposta Ucraina e il possibile genocidio a Gaza sono la cartina di tornasole dell’élite occidentale, della sua tracotanza. Per i propri interessi decide il massacro dei popoli. Nulla di nuovo sotto il sole, mi si dirà. Come afferma Edgar Morin, la barbarie è stata sempre una componente delle civiltà. Gli schiavi sono morti nella costruzione delle piramidi, il genocidio dei nativi ha permesso la nascita degli Stati Uniti.

Oggi tuttavia non sta nascendo una civiltà: sta morendo al contrario un mondo e i mostri si scatenano. Come non essere complici? Votando la Harris oppure Trump, la Meloni oppure la Schlein? Non scherziamo. La società civile consapevole europea deve denunciare la barbarie che si incarna purtroppo nelle nostre élite, deve urlare la propria protesta contro le guerre imperialistiche. Gli stessi che difendono l’Ucraina aggredita e la libertà dell’Occidente riforniscono di armi Israele. I bambini agonizzanti possono dire grazie non solo a Trump e alla Meloni, ma anche alla Harris e a Renzi.

Non so se l’Europa si risveglierà dal suo letargo. La continuità prevarrà, gli interessi veri dei popoli europei saranno traditi, come gli ideali di pace e prosperità. Eppure se il volto brutale degli Stati Uniti si imponesse, la retorica dell’ordine liberale sarebbe più facilmente demistificabile. Forse si potrebbe sperare di tornare al 2003 quando Rampini e tutto il centrosinistra scendevano in piazza contro la guerra in Iraq di George W. Bush? Lo scetticismo non ci fa intravedere una terra di approdo. Il dissenso si frantuma, gli intellettuali sono inesistenti. La politica è una barzelletta. Leggo il mite Cazzullo (che in uno show televisivo mi accusò di volere un maggior numero di ostaggi americani senza permettermi di terminare la frase), che oggi ripropone in sostituzione di Fitto il capo del Dis, Elisabetta Belloni, la candidata a tutto di cui non si conosce il pensiero, e mi viene da sorridere. Questo è l’establishment? Unisce la Von der Leyen alla Meloni, al capo del Dis, a Renzi, alla stampa mainstream, e la politica è costituita dalle loro beghe e ridicole ambizioni. Intanto l’Europa come comunità di destino, l’Europa neutrale che vorrebbe Morin, l’Europa sociale, culla di pace e cultura, muore di fronte a noi, naufraghi impotenti.

il buono è buono?

 

L’Harris Bar

di Marco Travaglio  

Abbiamo atteso con ansia i risultati del ballottaggio in Moldavia per sapere se era valido o no. Le prime proiezioni davano in testa il socialista Alexandr Stoianoglo, bollato come “filorusso” perché vuol mantenere il Paese neutrale fra Mosca e l’Occidente. Infatti l’Impero del Bene già strillava alle elezioni truccate da Putin. Poi invece ha vinto col 54% Maia Sandu, gradita a Usa e Ue, quindi tutto regolare: “Ha vinto la democrazia”. Era già accaduto al primo turno, quando si votava pure il referendum consultivo pro o contro l’Ue. Finché le proiezioni davano davanti il No, il voto era viziato dai brogli dell’Impero del Male (anche se molti moldavi in Russia non avevano neppure le schede per votare). Poi ha prevalso il Sì per 13 mila voti (50,46 a 49,54%) e sono tornate la legalità e la democrazia. Purtroppo non si può dire lo stesso della Georgia, dove i quattro partiti filo-occidentali fedeli alla presidente Zourabichvili han racimolato appena il 37%, contro il 54 di Sogno Georgiano del premier Kobakhidze (neutralista, ergo “filorusso” pure lui): lì, siccome ha vinto quello sbagliato, il voto non vale, anche se l’Ocse non ha rilevato irregolarità e il riconteggio ha confermato la disfatta dei Buoni per mano dei Cattivi. La Zourabichvili, che non è neppure georgiana ma francese, anziché inchinarsi alla sovranità popolare, ha chiamato la gente in piazza per ribellarsi e chiedere di rivotare, col sostegno delle famose democrazie Usa e Ue, che accettano i risultati elettorali solo se piacciono a loro. Se vince il candidato sbagliato, le elezioni sono truccate e si rivota finché non vince chi decidono loro.

Sono gli stessi che accusano preventivamente Trump di avere l’intenzione di non riconoscere l’eventuale sconfitta, come già quattro anni fa con l’assalto a Capitol Hill. E intanto fanno la stessa cosa in Georgia ed erano pronti a farla anche in Moldavia, se al referendum avesse vinto il No e se la Sandu avesse perso le Presidenziali. Anche fra i golpisti, ci sono quelli buoni e quelli cattivi. Come per le fake news. L’altro giorno Trump ha attaccato la guerrafondaia Liz Cheney, degna figlia di suo padre, schierata con la Harris: “Ha sempre voluto mandare la gente in guerra, se fosse per lei saremmo in guerra con 50 Paesi: mettiamola davanti a un fucile che le spara addosso e vediamo come si sente. Sono tutti falchi di guerra quando stanno seduti a Washington in un bel palazzo e dicono ‘Cavolo, mandiamo 10 mila soldati nella bocca del nemico’…”. Un discorso che avrebbe potuto fare Gino Strada. Ma tutti i media dell’Harris Bar hanno scritto che Trump istigava a fucilare la Cheney e un procuratore idiota ha pure aperto un’inchiesta. Le balle dei buoni non sono fake news: sono dogmi di fede.

L'Amaca

 


Perché Trump è Trump?

DI MICHELE SERRA

Trump è il capo patologico di un elettorato per metà incapace di accorgersene, per metà entusiasta di votarlo perché è patologico a sua volta. Se ai fiumi di parole spese negli ultimi anni per analizzare la mediocrità della sinistra, la sua crisi, la sua debolezza, la sua incoerenza, avesse corrisposto uno sforzo almeno pari per capire la mostruosa (aggettivo scelto con cura) metamorfosi delle destre occidentali, forse potremmo capire un po’ meglio come sia possibile che un figuro siffatto minacci di diventare, per la seconda volta, presidente degli Stati Uniti.
Ma non mi sembra sia accaduto. Trump, il populismo, il bullismo nazionalista che in ogni paese, compreso il nostro, sprizza odio e ignoranza, vengono sistematicamente “spiegati” come il risultato dei famosi errori della sinistra, delle sue mancanze, dei suoi tradimenti, delle sue incertezze. Va bene, ma la destra? Questa destra? È il mero effetto dei fallimenti del Welfare, della globalizzazione, della democrazia? Possibile che non abbia un’anima attiva, una sua propria storia, responsabilità autonome? Possibile che la sua madornale rozzezza, il suo disprezzo per le regole, il suo fanatismo siano sistematicamente addebitabili alle “colpe della sinistra”?
Senso di colpa altissimo a sinistra, senso di colpa zero a destra? Glielo ha ordinato il dottore, a quelli di destra, di votare per gli autocrati, i miliardari, i paranoici? Non potevano scegliersi una leadership decente?
Gli acuti analisti che giustificano Trump come conseguenza del fallimento delle élites democratiche, hanno mai pensato che Trump e i suoi elettori sarebbero ciò che sono, e penserebbero ciò che pensano, anche motu proprio?

lunedì 4 novembre 2024

Grandissima!




Una grandissima ragazza sfida il regime iraraniano! Siamo tutti con te sorella cara!

Lectio

 

Franceschini non era meglio, ma ora la cultura è Minculpop
GLI SCENARI DEL POST-SANGIULIANO - Le brutte novità. C’è però, adesso, una cosa nuova, e gravissima. La Destra ha incominciato a utilizzare le mostre come strumento di legittimazione e propaganda
DI TOMASO MONTANARI
Quasi tutti gli incresciosi retroscena documentati dall’inchiesta di Report sulla genesi della incombente, e già famigerata, mostra sul Futurismo si sarebbero trovati, assai simili, per moltissime altre mostre nell’èra Franceschini (se solo li si fosse voluti vedere): mostre senza progetto scientifico, commistione di interessi privati di galleristi e sedi pubbliche di esposizione, curatori senza credenziali adeguate, altri curatori fatti lavorare senza contratto e poi espulsi… è purtroppo assai vasta la casistica della degenerazione del gran circo equestre delle mostre a getto continuo, un sistema malato e dannoso che in moltissime occasioni ho avuto occasione di denunciare sulle pagine del Fatto quotidiano, e in libri come Contro le mostre (Einaudi 2017, scritto assieme a Vincenzo Trione), nel quale si descrive “un sistema di società commerciali, curatori seriali, assessori senza bussola e direttori di musei asserviti alla politica che sforna a getto continuo mostre di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere”.
Ma c’è una cosa nuova, ora: e gravissima. Se finora la politica ha usato le mostre come intrattenimento, come volano di consenso, lo fatto senza minimamente curarsi dei contenuti (delegati a un sottobosco di curatori di professione o, nel migliore dei casi, a veri ricercatori): ora la Destra ha iniziato a utilizzare le mostre come strumento di legittimazione e propaganda ideologica. Se si trattasse delle libere scelte di curatori, studiosi, ricercatori il cui essere “di destra” legittimamente orientasse i loro progetti scientifici (senza minarne appunto la scientificità), ci sarebbe solo da misurare (con profonda tristezza) la distanza di una simile coscienza politica rispetto al vuoto ideologico di una “sinistra” semplicemente succube del pensiero unico liberista per cui le mostre erano solo bigliettazione, e riempimento di cartelloni ‘culturali’.
Perché questo è il tragicomico equivoco sulla “egemonia culturale della sinistra”: che da almeno trent’anni semplicemente non esiste, sostituita da un generale e sordo ossequio al mercato. Ma Report ha raccontato qualcosa di diverso, e cioè che il livello politico del Ministero della Cultura (con lo stesso ministro Sangiuliano) è intervenuto nella scelta di curatori, collaboratori, opere in prestito. E questo è clamorosamente illegittimo, e senza precedenti: almeno in una democrazia moderna (forse lo fa Kim Jong-un in Corea del Nord…). Il Ministero della Cultura è ministero per eccellenza tecnico, che vede direttori generali che sono non alti burocrati intercambiabili con altre amministrazioni, ma ricercatori delle varie discipline (storia dell’arte, archeologia, archivistica…), e che fonda decisioni cruciali sul parere dei comitati tecnico-scientifici (ora messi gravemente a rischio da una riforma ancora non attuata, e che spero il ministro Giuli vorrà riconsiderare).
Le mostre stesse, come i musei, sono dotate di comitati scientifici, e hanno un progetto scientifico: laddove (in un caso come quello di una mostra sul Futurismo) la scienza è la storia dell’arte contemporanea (che ha un proprio settore scientifico-disciplinare nell’università). Esattamente come il ministro della Salute, il presidente di una Commissione parlamentare sulla Salute o un membro della maggioranza di governo non può entrare col bisturi in sala operatoria, così il ministro della Cultura, il presidente della Commissione Cultura o un qualunque politico non può e non deve decidere tema, articolazione, curatore e opere esposte in una mostra. “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”, dice la Costituzione: per evitare esattamente questo, cioè un’arte e una scienza di Stato in mano alla maggioranza politica di turno. Una decisione presa dai costituenti in frontale opposizione al Ventennio fascista, e alla sua politica culturale di regime. Quando il presidente della Commissione Cultura Mollicone dice: “non ho incontrato Mazzantini e Merlino insieme a Russo per parlare della mostra, chi ve lo ha detto?, non è vero. Fermo restando che non c’è niente di male, sono il presidente della Commissione Cultura, vigilante su musei, mostre e rientrerebbe nei miei compiti. Non ci sarebbe niente di male”, dice una enormità.
La vigilanza è esattamente il contrario di una invasione del campo tecnico, di una commistione con ciò di cui si dovrebbe vigilare proprio l’indipendenza, e l’assoluta libertà scientifica. Il totalitarismo non è solo quello che riguarda il governo politico, è anche quello che allinea tutta la vita pubblica (e anche quella privata, come si è visto nel caso Spano…) alle idee di chi comanda, in disprezzo di scienza e libertà. Nel silenzio tombale dei liberali “de noantri” che cantano ogni giorno le lodi di Giorgia Meloni, anche attraverso il controllo politico-ideologico delle mostre finanziate coi soldi pubblici perdiamo un altro pezzetto dello Stato di diritto, e della nostra libertà. In attesa di guai peggiori.

domenica 3 novembre 2024

Elly Elly!

 

Il Grillo di Elly
di Marco Travaglio
Chi fosse dotato di un pizzico di memoria ricorderà quando e perché i 5 Stelle, fondati da Grillo e Casaleggio sr. il 4 ottobre 2009 come movimento civico per i Comuni e le Regioni, iniziarono a pensare alle elezioni nazionali fra mille dubbi di Beppe. Era l’8 febbraio 2010 e fino ad allora i due guru appoggiavano l’Italia dei Valori di Di Pietro, di cui Gianroberto curava la comunicazione web e non solo per gli aspetti tecnici. L’anno precedente, con il blog, avevano contribuito a far eleggere al Parlamento europeo due indipendenti nelle liste Idv: Luigi de Magistris e Sonia Alfano. Poi quel giorno Tonino annunciò l’appoggio a Vincenzo De Luca, ex sindaco plurimputato di Salerno, che il Pd candidava a presidente della Campania contro il forzista Caldoro e il grillino Fico. Casaleggio gli levò il saluto e Grillo lo fulminò sul blog: “Mi sono svegliato con un senso di nausea. Per un partito che ha fatto delle mani pulite la sua bandiera, uno come De Luca rappresenta un suicidio politico. Chi ha le mani sporche potrà dire che Di Pietro è uguale agli altri… Ma non è uguale agli altri. E allora perché dilapidare un patrimonio di consensi per un signore con due processi pesantissimi in corso? Era meglio Bassolino, che di processo ne ha uno solo ed è anche più simpatico…”.
Oggi, 14 anni e mezzo dopo, De Luca ha 75 anni suonati e aspira al terzo mandato contro la legge. Elly Schlein, eletta segretaria al grido “fuori i cacicchi e i capibastone”, si è ben guardata dal metterlo fuori, ma dopo mille traccheggiamenti e fumisterie ha finalmente detto una cosa chiara a netta: no al terzo mandato, per De Luca e chiunque altro. Quello l’ha sbeffeggiata e il Pd campano ha scelto lui contro di lei: ieri in commissione i consiglieri regionali dem han fatto marameo a Elly che chiedeva un rinvio e obbedito a Don Vicienz, votando la norma che spiana la strada alla sua monarchia assoluta ed ereditaria (i due figli si scaldano a bordo campo). In un partito normale, dinanzi a un simile atto di insubordinazione, scatterebbero le espulsioni. Vedremo se la Schlein sarà una volta tanto coerente o farà anche stavolta buon viso. Finisce così, dopo cinque giorni dalle Regionali liguri, la leggenda che vuole i 5 Stelle morenti in perenne rissa e caos fra Conte e Grillo e il Pd in ottima salute, unito e compatto attorno alla segretaria. Certo, al momento la partita dei consensi la stravince il Pd. Ma Grillo non sposta più un voto, mentre in Campania De Luca è il Pd. Se si candida contro il Pd, forse non vince, ma di sicuro lo fa perdere. Che farà Elly? Accompagnerà alla porta la sua mina vagante come sta facendo Conte con Grillo, o abbozzerà con l’ennesima supercazzola? È quando il gioco si fa duro che si distinguono i veri leader dai quaquaraquà.

L'Amaca

 

I comfort del negazionismo
DI MICHELE SERRA
Se qualcuno, davanti al cataclisma di Valencia, spera che serva almeno a ribadire, nel più doloroso dei modi, che un cambiamento climatico è effettivamente in corso, e che la sua rapidità (si misura indecenni, non più in millenni) dipende dall’influenza spropositata e soverchiante delle attività umane, rischia di illudersi.
Ancora ieri, chiacchierando con un conoscente (bravissima persona), mi spiegava che «queste cose sono sempre successe, Valencia negli anni Ottanta è stata alluvionata proprio come adesso». Non è vero, ma lui crede che lo sia. Lo avrà letto su qualche sito che spiega per benino “quello che non ci vogliono dire”, e non c’è telegiornale o giornale che possa smuoverlo. È contento così. Si sente meglio così.
Come lui, quanti? Quanti esseri umani hanno cognizione del mondo su base, se non scientifica, almeno razionale? E quanti invece, anche di fronte all’evidenza, considerano scomodo prendere atto di ciò che in qualche modo disturba le loro abitudini, o confonde le loro certezze?
Il negazionismo climatico non è solamente un comfort del pensiero popolare. Influenza le scelte di molti governi (soprattutto i governi conservatori), è arma di uso corrente per Trump e i suoi elettori. Solo una frangia minima e trascurabile del mondo scientifico lo sostiene, eppure porta consensi e voti perché rassicura e scaccia i fantasmi: non date retta ai menagramo, il mondo è sempre uguale a se stesso. Ferisce pensare che a pagare il prezzo di questa incoscienza saranno, ovunque, i più esposti e i più deboli. Ai piani alti si annega di meno.

Relax

 


Manca la musica. Quella mettetela voi, a piacimento! 

Selvaggiamente

 

Boccia-Bocchino da Formigli: è troppo pure per Halloween
TRASMISSIONI CHE METTONO PAURA - Vittimizzazione secondaria. La sfregiatrice di ministri dice tutto quello che sa: nulla. E i suoi difensori danno la colpa all’aggredito. Forse Genny aveva la minigonna
DI SELVAGGIA LUCARELLI
È la notte di Halloween e quindi giovedì sera Corrado Formigli pensa bene di invitare nuovamente a Piazzapulita Maria Rosaria Boccia, ovvero l’ospite che più di tutti appare adeguato a festeggiare la notte dedicata al soprannaturale: come infatti sia possibile continuare a intervistare una donna che in due mesi non ha mai risposto a una sola domanda, è materia più esoterica che giornalistica.
L’ingresso in costume dell’aspirante consulente del ministro Sangiuliano è appunto in tema horror: Boccia è travestita da Boccia, indossa infatti gli occhiali Meta che usava per aggirarsi al calar del buio per i corridoi di Montecitorio.
Dopo l’ingresso grottesco, si toglie gli occhiali e mostra subito la nuova versione della tuta grigia da penitente: due occhiaie fumé e profonde come gli scavi di Pompei che le conferiscono subito un’aria sofferente, ben lontana da quella spavalda della precedente apparizione. E poi i capelli raccolti e la camicia bianca in modalità Amber Heard, della serie “non sono io quella violenta”, sebbene si faccia una certa fatica a immaginare Sangiuliano nei panni di Johnny Depp.
Il copione col conduttore è lo stesso di sempre. Formigli le chiede se è laureata o no e lei: “Poi portiamo il diploma di laurea, lo pubblichiamo, ma tanto non finisce lì”. Formigli le chiede: “Lei è in possesso di informazioni di rilievo pubblico, ma non può riferirle perché sono in corso delle indagini?”. “Esatto”. Formigli “Chi tra i politici chiamava più spesso Sangiuliano?”. Lei “Gasparri e La Russa”. Per cosa? “È uscito anche sui giornali”. Formigli: “Perché è stato defenestrato Gilioli? “Non lo so”. Formigli: “Lei è accusata di aver provocato lesioni a Sangiuliano”. “È uno dei capi di imputazione, non lo posso chiarire, però oggi sono qui, ci metto però la faccia”. Già, Sangiuliano ci ha rimesso la capoccia però.
Poi, sempre perché è Halloween e si può credere all’incredibile, Boccia rivela di essersi rivolta al Garante della privacy. Lei. Insomma. Uno strazio di 20 minuti che somiglia di più a un parto podalico con Formigli in versione ostetrica che a un’intervista, ma del resto il bello deve ancora arrivare.
Entra Luca Telese, che ormai è sempre dietro a Maria Rosaria Boccia tipo Sam, il marito fantasma di Ghost che pure dopo morto protegge la moglie Demi Moore. E Italo Bocchino. E qui la situazione si fa tragicomica perché Bocchino attacca l’aspirante consigliera palesemente guidato da Sangiuliano via whatsapp mentre Boccia replica a Bocchino guidata e assistita da Telese. In pratica, si passa da un’intervista a cui Boccia non risponde a un’intervista per procura.
Bocchino, che trema come se quella fosse la sua resa dei conti con lo stragista che gli ha ammazzato la famiglia, le chiede conto di bugie, messaggi in cui lei comunicava a Sangiuliano di essere incinta e del famoso taglio sulla testa. Boccia è in evidente difficoltà e replica, al solito, che non può rispondere perché ci sono delle indagini in corso. Se non è stata lei a spaccare la testa a Sangiuliano non si capisce perché raccontare la vera dinamica dei fatti sarebbe un problema per le indagini.
Siamo tutti disposti a credere a sue versioni alternative della storia tipo “lo sfregio gliel’ha fatto Meloni con l’ascia di Gimli del Signore degli Anelli”, ma niente, Boccia tace.
Il momento più incredibile arriva però quando Telese, senza rendersene conto, non si limita a difendere Barbie vesuviana, ma dà il via a un bel processo di vittimizzazione secondaria ai danni di Sangiuliano. Secondo lui, “se uno prende una martellata in testa poi che fa, gira sorridente con lei in giro per l’Italia e dopo tre mesi si ricorda che è stato picchiato?”. Ha detto proprio così. In effetti sarebbe la prima vittima di violenza a continuare ad accompagnarsi al carnefice. Ma soprattutto, diamo una notizia a Telese: al di là del fatto che magari l’ex ministro era innamorato, non ha denunciato perché non voleva finire nei casini.
Poi, sempre Telese passa a raffinate analisi delle dinamiche dello stalking: “Non può essere stalking, se io ammanetto uno e me lo porto in giro lo stalker non può essere l’ammanettato!”. “Un signore di 60 anni che si prende una martellata in testa e non denuncia, poi non può denunciare per stalking. Processiamo l’amore?”.
Insomma, il manuale della vittimizzazione secondaria è al completo. Mancava solo “Sangiuliano aveva la minigonna”. Nessuno dice ciò che è evidente: se quei 13 punti li avesse procurati un uomo a una ministra, oggi quell’uomo sarebbe ai domiciliari e in tv non se ne parlerebbe con quell’ilarità. E sia chiaro, che tocchi dirlo proprio a me – una donna – è una sconfitta personale.
Ci sono poi altri momenti esilaranti: Bocchino che invita Boccia ad andare a denunciare eventuali illeciti commessi da Sangiuliano, e lei: “Io le persone che ho voluto bene non le denuncio”. Fortuna che “lo ha voluto bene”, in caso contrario Sangiuliano sarebbe già conservato in tranci, dentro a un congelatore a pozzetto.
E fortuna che ha una laurea, soprattutto. Quando ormai capisco che Bocchino, seppure con i suoi modi urticanti, purtroppo ha ragione su tutta la linea, mi viene voglia di procurarmi lo stesso sfregio di Sangiuliano per infliggere a me stessa una qualche punizione per il pensiero impuro. Quindi spengo la tv in attesa della prossima intervista a Boccia in cui la nostra eroina rivelerà finalmente tutto quello che sa: cioè niente.

Daje Marco!

 

La Perugia-Bibbiano
di Marco Travaglio.
Per l’angolo del buonumore, segnaliamo due titoli. Il primo è del Corriere: “Mosca avanza in Ucraina, l’ira di Zelensky”. Il secondo del Messaggero: “Umbria, sorpresa Tesei indagata e archiviata. Lei: ‘Strumentalizzazioni’”. Non è ben chiaro a chi sia indirizzata l’ira di Zelensky, visto che sono 32 mesi che promette vittorie e raccoglie sconfitte. Idem per la presidente dell’Umbria Donatella Tesei, che si salva da un’indagine grazie all’abolizione dell’abuso d’ufficio e s’incazza pure. Con chi ce l’avrà? Col governo amico che le ha cancellato il reato a tradimento? Col Gup di Perugia che l’ha archiviata perché il suo reato non è più reato? Coi giornali che han dato la notizia? Forse preferiva restare indagata fino al voto per non sfigurare, visto che a destra le imputazioni fanno punteggio e portano voti: essere onesti è già un bell’handicap, ma pure sembrarlo. Lei peraltro non corre rischi: l’indagine riguardava 4,8 milioni erogati dalla sua giunta all’azienda di tartufi del marito della sua assessora al Bilancio, che durante il bando aveva assunto suo figlio. Tutto in famiglia. Allora quel mega-conflitto d’interessi era reato, ora grazie a Nordio&C. resta un mega-conflitto d’interessi, ma è lecito, anzi vivamente consigliato. Ma, anziché accendere un cero a San Carletto Mezzolitro, la miracolata tuona contro le “mistificazioni con argomenti di ignobile livello amplificate dalla vicinanza della scadenza elettorale”. E frigna perché ha “appreso la notizia dai giornali”, che peraltro l’han appresa dagli avvocati della sua assessora coindagata e coarchiviata. Ora sarebbe interessante sapere se sia così infuriata per l’archiviazione o per la formula “il fatto non più previsto dalla legge come reato”.
Più ridicoli dei suoi alti lai ci sono solo i commenti del Pd, tipo quello della responsabile giustizia Debora Serracchiani: “Colpisce il comportamento spregiudicato della Tesei che, se non più rilevante penalmente, è indubbiamente inopportuno e discutibile”. È lo stesso Pd che 20 giorni fa, quando la schiforma Nordio salvò il suo ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti imputato per abuso, lo beatificava come un martire perseguitato e reclamava le scuse da chi l’aveva accusato (in barba a una sentenza definitiva – quella che ha assolto Claudio Foti – che ha certificato gli abusi di ufficio della giunta Carletti sugli affidamenti al centro Hansel e Gretel “effettuati in pieno spregio della normativa in materia di appalti”). Le stesse scemenze ora le dice la Tesei: “Mi risulta che l’indagine era iniziata da tempo e già questo dimostra la correttezza della mia amministrazione”. No, dimostra solo che ti hanno abolito il reato. E che, sulla giustizia, la differenza fondamentale fra il Pd e la destra è che il Pd scrive i testi e la destra le musiche.

L'Amaca

 

Bezos ci crede veramente
DI MICHELE SERRA
Si può fare anche un’ipotesi “ingenua” sulla decisione dell’editore Jeff Bezos di impedire ai giornalisti del Washington Post di fare il loro endorsement per Kamala Harris.
L’ipotesi è questa: non lo ha fatto per convenienza economica, per mettere al riparo i suoi interessi personali nel caso di una vittoria di Trump. Lo ha fatto perché crede veramente nella neutralità dell’informazione e ritiene che un giornale (perfino un giornale come quello) non abbia tra le sue prerogative fondamentali l’identità politica, il percorso culturale e civile che lo ha portato, nei decenni, a essere quel giornale e non altri. È più o meno quello che Bezos ha spiegato, nero su bianco, di fronte alla reazione indignata dei giornalisti e di moltissimi lettori.
Se possibile questa lettura, che esclude calcolo economico, è perfino più inquietante di quella maliziosa. Perché rimanda a un’idea asettica, fredda dell’informazione, riconvertita a servizio “tecnico”, a merce ben confezionata ma senza spigoli. Un’informazione che parli apoliticamente della politica è un compito quasi impossibile (a meno di affidarlo all’intelligenza artificiale, che da buon servo non può che obbedire), ma se Bezos ci crede è perché nel mondo della compravendita globale, del quale è uno degli imperatori, livellare i gusti, limare le asprezze, uniformare i linguaggi, pacificare i conflitti è il primo obiettivo.
Perché mai un giornale dovrebbe essere di sinistra, o di destra, o altro? Un giornale deve essere decentemente prodotto e piacere a tutti. Evoluzione, molti anni dopo, del cartello “qui si lavora e non si parla di politica” che negli anni del boom già diceva tutto quello che c’era da dire.

Però…



Però qualcosa dobbiamo necessariamente dirla: è certificato che a volte sia un imbelle, che il suo comportamento in campo in fase di copertura istighi alla violenza. Ma Rafael detiene, come pochi, la scintilla, ha in tasca il magico acciarino capace d’infuocare un match. Non si può lasciarlo in panchina, chi metterebbe nel sottoscala la lampada di Aladino? Raggelante è la constatazione che in società alberghi madame Incompetenza: dall’americano ignavo, all’ex campione tutto e solo muscoli, al povero allenatore in cerca di protagonismo. Come disse un tempo il grande Gino: “tutto sbagliato, tutto da rifare!”

Attorno a Bruneo

 

“C’erano una volta Adolf, Benito, Renzi Grillo e Vannacci…”
IL LIBRO DI VESPA - Il modello “butta dentro tutto”
DI DANIELA RANIERI
Ormai lo si sa, anche se nelle redazioni si finge il contrario: il libro natalizio di Bruno Vespa non è propriamente un libro, è piuttosto un minestrone di gossip politico inserito dentro un contenitore fittizio che ogni anno cambia per giustificare una nuova uscita. Più specificamente: si tratta di una risma di pizzini che i politici mandano all’opinione pubblica e/o a soggetti terzi, avversari ma più spesso alleati o nemici interni, attraverso il medium Bruno Vespa, il quale per dar loro legittimità li infila in un saggio di levatura opinabile su argomenti vari, con preferenza il fascismo e Mussolini. L’argomento è solo un pretesto: Vespa deve avere una specie di ufficio marketing che ogni anno gli referta cosa è andato di moda nei mesi precedenti (quest’anno era guarda caso Mussolini, dalla serie Tv sul libro di Scurati ai cimeli dei governanti); quel che “tira” di più diventa la scocca, la quale poi va farcita col vero contenuto del libro, che appare nel sottotitolo: l’Italia di oggi, con inchino ai potenti di turno (purché non siano Conte). Questo consente al libro di essere venduto e regalato a Natale dalla piccola borghesia come preteso oggetto di “cultura”.
Quest’anno il contenitore è Hitler e Mussolini. L’idillio fatale che sconvolse il mondo, e tu che sei stato in coma per 30 anni pensi che si tratti di una riedizione in chiave divulgativa dell’opera di De Felice; poi però leggi il sottotitolo: “(e il ruolo centrale dell’Italia nella nuova Europa)” e capisci, man mano che si avvicina l’uscita del “libro” ed escono come fucilate le anticipazioni sulla stampa a edicole unificate, che è tutto un alibi per elogiare la Meloni che ha rifatto grande l’Italia in Europa (almeno nella masseria di Vespa).
Oltre che alla suddetta Meloni, il libro contiene (e in definitiva è) una serie di mini-interviste inoffensive: a Schlein, Tajani, Salvini, Conte, Renzi, Calenda, Crosetto e persino alla new entry Vannacci, ospite in estate nella mitologica masseria, con cui Vespa entra in un’imbarazzante, empatica complicità: “Ha preso una valanga di preferenze. Ho fatto i conti con lui”; “Con il generale Vannacci celiamo sul fatto che lui non esclude mai nulla”, “Il generale ricorda sempre nelle preghiere serali Paolo Berizzi, il giornalista della Repubblica autore di una violentissima campagna contro il libro: un modo infallibile per portarlo al successo”. A proposito di idillio fatale.
In questa specie di Dagospia ripulita, è chiaro che di Mussolini e Hitler, al libro in sé come creatura vivente (è pur sempre fatto di carta, che viene dagli alberi, ahinoi), non frega palesemente niente. Ma Vespa entra in confidenza pure con loro: “Diventano così ‘umani’, così ‘normali’, che finisci per dargli del tu, pronto a raccoglierne le confidenze. Eccomi, dunque, accanto a un ragazzo austriaco un po’ disadattato di nome Adolf”, e naturalmente Mussolini è “Benito”, “un focoso giovanotto romagnolo” (giusto per non alimentare la leggenda metropolitana che lo vuole figlio segreto del Duce). Come prendere la Storia e farne salsicce del discount.
L’anno scorso, la cornice era diciamo la geopolitica, da cui il titolo Il rancore e la speranza. Ritratto di una nazione dal dopoguerra a Giorgia Meloni, in un mondo macchiato di sangue, dove il sangue e il rancore venivano sbrigativamente dilavati dalla schietta, caparbia Meloni (“Io sono del segno del Capricorno. Molto schematica”), e dentro cui Vespa infilò di tutto: Israele, l’Ucraina, Zelensky, Renzi, Berlusconi, Calenda (come a Porta a Porta; mancavano solo i fanghi sciogligrasso e il plastico della casa di Cogne); non mancavano le fake news, tipo quelle su inesistenti video di bambini israeliani decapitati da Hamas o sui prodigi economici del governo Meloni, decantati dalla stessa senza contraddittorio. Sì, perché quando un potente parla, Vespa trascrive automaticamente senza verificare, senza obiettare, come uno sciamano in trance sotto l’effetto di mescalina.
Il nostro preferito è quello del 2020, dove Vespa, in palese carenza di potenti da adulare, sfiorò l’apoteosi. Titolo: Perché l’Italia amò Mussolini (e come è sopravvissuta alla dittatura del virus); in esso veniva avanzata l’audace analogia tra il Duce e il Covid: “Questo libro racconta la storia di due dittature, quella di Benito Mussolini e quella del signor Covid (sic, ndr). Si apre con una passeggiata in piazza Venezia: stracolma per i grandi proclami del Duce negli anni del consenso… deserta durante il drammatico lockdown della primavera 2020. Entrambe le dittature hanno soppresso o limitato la libertà degli italiani… ma se allora Mussolini ebbe un’enorme popolarità interna e internazionale, l’Italia ha resistito al virus con un odio sordo, sconfiggendolo con la disciplina in primavera e rivitalizzandolo con la confusione in autunno”: in pratica Mussolini (anzi: Benito) ha sì tiranneggiato gli italiani, ma meno di Conte che li ha chiusi in casa.
Ottima l’annata del 2021: Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando), come no, s’è visto. Notevole nel 2017 Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori (“Che differenza c’è tra Kennedy e Trump? E tra Stalin e Putin? Tra Renzi e De Gasperi? Tra Mussolini e Berlusconi? Tra Hitler e Grillo? Sotto ogni cielo, i popoli sono sempre stati affascinati dagli uomini soli al comando”: stupefacente). Sublime nel 2015 Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi, presentato al Tempio di Adriano proprio da Renzi, a riprova che di tutto si trattava fuorché di cultura.

Di fioretto

 

Marina, in arte Edda
di Marco Travaglio
È con il cuore ricolmo di orgoglio patriottico che apprendiamo dai Cinegiornali Luce quanto segue: Sua Eccellenza Sergio Mattarella ha conferito il Cavalierato del Lavoro a Marina Berlusconi, figlia di cotanto pregiudicato, pluri-prescritto, frodatore fiscale, corruttore di giudici e finanziatore della mafia che uccise Piersanti Mattarella (fratello di Sua Eccellenza). La presidentessa del gruppo Mondadori, rubato dal genitore con una sentenza comprata da Previti e a lei consegnato come suo, sfoggiava – informa la virile cronaca di Francesco Specchia su Libero – un “fisico esile d’acciaio temperato, la guaina severa d’un abito scuro da protocollo, lo sguardo umido e fiero, la salda stretta di mano al Presidente che l’attende sul proscenio”. E “osservarla alla consegna dell’onorificenza è un fatto di una certa rarità”, ma non perché il Cavalierato si dà una volta sola: perché “la Cavaliera”, per “una discrezione al limite dell’umano, tende a divincolarsi dai riflettori accesi”, tant’è che sul Colle avevano spento tutte le luci e brancolavano a tentoni. Il che non ha impedito al “saggio Mattarella” di “elogiare l’Italia dell’impegno e dell’operosità in netta ripresa economica contro tutti i gufi” (tipo l’Istat, che nelle stesse ore annunciava la crescita zero). Né alla Cavaliera di ricevere, “in un immaginario passaggio di consegne, l’onore che fu di papà Silvio” (costretto poi a rinunciarvi per motivi penali) e di sfoderare “ricordi di un nitore quasi letterario”, tipici di una “Wolf che risolve i problemi di Tarantino” grazie all’“occhio della Cavaliera: il miglior segno di continuità” (con l’occhio della madre nella Corazzata Potëmkin di Fantozzi).
La nostra eroina – aggiunge sobrio Luigi Mascheroni sul Giornale – “ha donato tutta se stessa al lavoro e alla famiglia”, “puntuale, scontrosa, generosissima – talis Silvius talis Marina – irremovibile, affettiva… per nulla fredda, femmina alfa che rispetto alla Meloni è l’omega”, ligia ai “Comandamenti del padre: lavorare, crederci e investire”. Manca delinquere, ma solo per motivi di spazio. Infatti “quelle poche parole che ha detto sono risuonate come sentenze”, senza offesa per nessuno. E se “ha bacchettato la Meloni sugli extraprofitti delle banche”, tipo Mediolanum, non è per vile pecunia o allergia ereditaria al fisco, ma “per un’oscillazione dall’area liberal a quella liberale”: che avevate capito. Insomma, per dirla col poeta, “Meno male che Marina c’è”. Vergin di servo encomio, Mario Ajello del Messaggero ha una visione paradisiaca: “Chissà se Berlusconi, vedendo da lassù questa cerimonia per la figlia più berlusconiana di lui che s’intrattiene con Caterina Caselli, starà cantando ‘Insieme a te non ci sto più’”. O magari, per dire, “Nessuno mi può giudicare”.

L'Amaca


Quando il nemico è l’etica pubblica
DI MICHELE SERRA
Si capisce che il sottosegretario alla Salute Gemmato sia molto risentito per gli attacchi politici che lo riguardano. Non dev’essere piacevole. D’altra parte, se si assumono incarichi di governo, si deve sapere che il profilo professionale e lo status economico cessano di essere affare proprio, e diventano affare pubblico. E avere una partecipazione, anche piccola, in una struttura privata che pubblicizza se stessa come alternativa al malfunzionamento della sanità pubblica, non è difendibile per un viceministro alla salute pubblica.
Gemmato, naturalmente, ha infiniti predecessori. I conflitti di interesse e le incompatibilità tra ruolo pubblico e faccende personali sono, in Italia, un inciampo molto frequente, e per altro ogni volta superato con un “oplà!”, un sorriso allegro (Berlusconi) o un’autoassoluzione, corredata dalle pacche sulle spalle degli amici e dalla amareggiata denuncia di quanto siano cattivi e meschini gli avversari politici, quanto carogne i giornalisti.

E sì, capita che gli avversari politici siano cattivi e i giornalisti carogne. Ma il problema rimane, e porgerlo su vassoio d’argento o farne una polpetta avvelenata non ne cambia la sostanza: può o non può uno dei responsabili della sanità pubblica nazionale avere interessi in una struttura privata che per vendere meglio i suoi servigi punta i riflettori sulle inefficienze del sistema pubblico? Gentile viceministro Gemmato, si rassegni: la risposta è no. Poi lei può farsene una ragione tutta sua, pensare che si tratti solamente di una trama ostile e rimanere serenamente al suo posto. Ma guardi: si sbaglia. Il suo nemico non è la sinistra. È l’etica pubblica.