lunedì 25 novembre 2024

Cambiamenti

 

Votare non salva più nessuno: lottare è la “nuova” politica
IL BARATRO DELL’ASTENSIONE - Che fare. Le ultime amministrative hanno confermato la “separazione” tra persone e partiti. Unica chance: le esperienze dal basso, da New York alla Spagna
DI TOMASO MONTANARI
Il nome di questa rubrica allude al fatto che nessun discorso sul patrimonio culturale (le pietre) può stare in piedi senza tener conto del suo rapporto con i vivi oggi, intesi come comunità politica (il popolo). Le elezioni italiane delle ultime settimane, al di là dei risultati, certificano un dato fondamentale, liquidato con qualche parola di circostanza in ogni analisi: il popolo e la politica si sono separati. Anche in Italia, la maggioranza non vota più. Perché ritiene che la politica non possa fare nulla per migliorare le precarie (in tutti i sensi) condizioni di vita delle persone. È l’esito finale (largamente annunciato) della rinuncia delle democrazie a costruire giustizia sociale: le sinistre (da Clinton a Blair all’Ulivo italiano) hanno fatto proprio il There Is No Alternative di Margaret Thatcher. Non era la politica che decideva, ma l’economia: il mercato. Un suicidio che culmina nell’idea che un Mario Draghi sia il leader naturale dei progressisti.
Un bel giorno, però, l’alternativa è arrivata: ed è stata la peggiore possibile, quella della destra xenofoba e razzista. Oggi la rabbia dei poveri (poveri di soldi e di conoscenza) viene messa a reddito dagli imprenditori della paura, rimasti i soli a parlare con loro: e quando poi appare chiaro che le vite non cambiano nemmeno con questa destra (capace di mutare destino solo agli ultimissimi e ai diversi: in peggio), l’estrema disillusione riporta gli elettori nell’astensione, il grande buco nero del rifiuto della politica. Al netto di scelte tattiche azzeccate (Proietti in Umbria) o sbagliate (Orlando in Liguria), penso sia ormai evidente che, sul piano strategico della visione, non ci sia molto da aspettarsi da Elly Schlein. Il mandato esterno al partito, che aveva lasciato sperare in una stagione di vero cambiamento, è stato totalmente vanificato dagli equilibrismi interni, e oggi è difficile dire quale sia la visione del Pd sulla guerra e la pace, sul fisco, sul lavoro, sulla salute e sulla scuola… Il Pd che vota Fitto ‘perché è italiano’ dimostrando di non avere alcuna di idea di Europa e di subire la visione nazionalista delle destre. Allora, è un Pd a cui tutto va bene così (un Pd ancora renziano), o invece è un Pd che finalmente capisce che bisogna ribaltare le scelte non della destra, ma le sue e quelle dei suoi predecessori, dall’Ulivo in poi, su questioni fondamentali (la precarizzazione del lavoro, per citare la madre di tutte le sciagure)?
D’altra parte, la comprensibile necessità di coalizioni elettorali sta massacrando anche l’altra forza di alternativa, il Movimento 5 Stelle: che più diventa ‘responsabile’ (cioè compromesso con la palude), più perde voti, risucchiati dall’astensione.
È dunque fin troppo evidente che la politica va cercata altrove: dove è davvero. Nelle lotte, nelle vertenze, nelle solidarietà, nelle associazioni che – su scala locale ma con aspirazioni e metodi globali – cambiano poco a poco il loro mondo: silenziosamente, ogni giorno. Lo sappiamo da un pezzo, ma si allarga il fronte mondiale di chi la pensa così. E ora dall’America trumpiana arriva il libro di un ricercatore (Adam Greenfield, Emergenza, Einaudi 2024) che ci aiuta a mettere a fuoco questa prospettiva postpolitica (o neo-politica). Partendo dalla constatazione che “le foreste bruciano. Il livello dei mari si alza. I poveri sono sempre piú poveri e i ricchi sempre piú ricchi, e intanto i nuovi fascismi guadagnano consensi”, e che in futuro le cose non miglioreranno, Greenfield dice una cosa dura: il nostro più pericoloso nemico è la speranza. “Il primo passo è smettere di coltivare speranze vane: dall’alto dei cieli o dei palazzi del potere non arriverà niente o nessuno in nostro soccorso… Andare a votare non ci salverà, ma non ci salverà neanche non andare… Soltanto con questa consapevolezza potremo ripartire dal basso”.
Cioè “dai programmi di sopravvivenza delle Pantere nere negli anni Settanta, agli esperimenti di municipalismo in Spagna e nel Rojava, fino ai gruppi di autoaiuto sorti a New York durante l’uragano Sandy”. Il libro, terribile e bellissimo, è una guida a ciò che in queste, e in altre, esperienze è replicabile. Una guida animata da un radicalismo disperato e insieme pieno di speranza, che ricorda le riflessioni più mature di Emilio Lussu, che scriveva: “La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c’è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all’alto è capitolazione, sempre”. Ora che rimettersi all’alto, anche volendo, è impossibile, le pagine di Greenfield invitano a cercare ciò che è vivo nella metà del popolo che non vota. Non per portarlo a votare (per cosa?), ma per costruire insieme un altro modo di ‘fare politica’. La cosa ci riguarda davvero tutti. Perché, come dice una antica massima del rabbino Tarfon, eletta a bussola da Greenfield: “Non è tuo dovere completare l’opera [di riparazione del mondo], ma non sei nemmeno libero di non parteciparvi”.

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