Un luogo ideale per trasmettere i miei pensieri a chi abbia voglia e pazienza di leggerli. Senza altro scopo che il portare alla luce i sentimenti che mi differenziano dai bovini, anche se alcune volte scrivo come loro, grammaticalmente parlando! Grazie!
martedì 31 ottobre 2023
Fermatelo!
Orsini pensiero
Senti senti...
Mentre noi siamo affaccendati a truccarci da morti per la notte dei morti...
L'avanzata dei Pronto soccorso privati, come funzionano e cosa si rischiadi Donatella Zorzetto
Si stanno diffondendo in Italia con l'obiettivo di garantire cure immediate evitando le code, ma si paga di tasca propria. Nuovi ambulatori aperti a Milano e Roma. Parla il pioniere: "Siamo una sicurezza"
Si stanno diffondendo in tutta Italia, facilitati dal numero sempre crescente di persone arrabbiate di fronte alle code nei punti di accesso ai Dipartimenti di Emergenza-urgenza degli ospedali pubblici. Sono i Pronto soccorso privati, che da Nord a Sud stanno avendo successo. Molto successo. Perché la gente ragiona più o meno così: pago, ma posso risolvere il mio problema di salute subito e bene. Va detto, però, che se da una parte aumentano i punti di riferimento per chi è in emergenza, dall'altra c'è chi frena. Fabio De Jaco, presidente della Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza, prospetta un'ipotesi inquietante: "Siamo sicuri - dice - che chi accede a questi servizi poi non debba tornare al Pronto soccorso pubblico perché magari un mal di testa era un ictus o un mal di pancia un infarto e serve una Unità complessa per gestirli?".
Il pioniere dei Pronto soccorso privati
Se si va a scavare nel groviglio di informazioni che proliferano sui Pronto soccorso privati italiani escono un nome, 'Codice verde', e una città, Milano (ambulatori in via Carlo Crivelli 15/1 aperti dalle 9 alle 19) che formano la carta d'identità del primo esempio di assistenza sanitaria d'urgenza non pubblica in Italia. Il direttore sanitario è il dottor Carlo Zamponi, al lavoro per 39 anni nella chirurgia d'urgenza, che nel 2011 decise di realizzare questo progetto, appunto il primo in Italia nel suo genere. Ora, su questa strada, si stanno muovendo iniziative simili sul territorio nazionale. "Certamente adesso la realtà dei Pronto soccorso privati è favorita dalle condizioni sociali in cui viviamo", premette Zamponi.
Il progetto "Codice verde"
"Quando è nato il Pronto soccorso privato 'Codice verde', dodici anni fa, le difficoltà non sono state poche. Certo, io sono chirurgo d'urgenza e avevo dimestichezza con questo ambiente. Allora pensavo: tutti hanno bisogno di assistenza in urgenza, ma nessuno si fa carico di chi ha patologie minori. Così l'abbiamo chiamato 'Codice verde', proprio perché prendiamo in esame patologie minori classificate come codici bianchi e verdi, per cui mediamente una persona in un Ps pubblico a Milano deve aspettare cinque o sei ore prima di ricevere assistenza".
Qual è il meccanismo che il dottor Zamponi ha innescato? Per accedere a 'Codice verde' bisogna prima telefonare e prospettare il proprio problema. "Facciamo triage telefonico - conferma il direttore sanitario -. Questo per evitare che i pazienti vengano inutilmente da noi e quindi per saltare eventuali code". Alla telefonata, se l'urgenza rientra nella casistica prevista, segue la presa in carico: i pazienti raggiungono il poliambulatorio di via Crivelli e vengono visitati da uno specialista chirurgo. Mediamente ne arrivano 600 l'anno e per la prestazione pagano 150 euro, con l'aggiunta di un sovrapprezzo nel caso ci sia bisogno di ecografie o lastre (che vengono eseguite in una struttura vicina di fiducia), o se il paziente debba essere curato, quindi seguito nel tempo, dai medici del poliambulatorio.
Perché i Ps privati proliferano
Ora viene da chiedersi: perché, visti i costi che prospettano ai pazienti, questo ed altri Pronto soccorso privati stanno proliferando? È lo stesso Zamponi a rispondere: "Prima di tutto evitiamo alla gente di far code e poi, rimanendo nell'ambito degli interventi di minore gravità, garantiamo una qualità della prestazione che non sempre si può avere in ospedale, anche perché di guardia nei Pronto soccorso pubblici mandano spesso medici specializzandi senza esperienza. E poi siamo una fonte di sicurezza per gli stranieri che si trovano a Milano per lavoro, di passaggio, e non hanno un punto di riferimento per problemi sanitari. Senza contare che ci contattano studenti universitari residenti in altre città Italiane e che a Milano non hanno il medico di famiglia. Spesso facciamo le veci dei genitori".
I codici minori
In sostanza, ribadisce il fondatore di 'Codice verde', "Siamo una sicurezza". "Faccio un esempio - prosegue -. Se si avesse bisogno veramente di un intervento urgente perché si ha un infarto, e si entrasse in ospedale trovando davanti un centinaio di codici minori, si soffrirebbero le pene dell'inferno per essere visitati. I codici minori ostacolano il Pronto soccorso snaturandolo, cioè impedendo che sia accessibile a chi veramente ha bisogno".
"E' vero che le nostre sono strutture private, e quindi per accedervi bisogna sostenere un costo - conclude Zamponi - . Però da noi viene chi può permetterselo, e poi va detto che quasi tutti coloro che lavorano hanno un'assicurazione sanitaria integrativa che copre in buona parte i costi sostenuti. Così facendo si lasceranno le strutture pubbliche al servizio di pazienti che non hanno mezzi e che necessitano subito di una buona sanità".
Il risultato di tutto ciò è che i Pronto soccorso privati in Italia si diffondono a macchia d'olio. Quella che si viene a disegnare è una rete con caratteristiche diverse. Ecco qualche esempio. In Lombardia ha aperto l'ambulatorio di Medicina d'Urgenza e Primo Soccorso Bresciamed "per chi - spiegano i responsabili della struttura - non può aspettare ore in Pronto soccorso ospedaliero per patologie minori dal punto di vista clinico, ma non da quello personale". Affronta interventi chirurgici ambulatoriali non rinviabili, traumi, ferite o sintomi acuti di entità moderata, garantisce ecografie urgenti, e svolge urgenze burocratiche. È operativo in caso di infortuni sul lavoro, o su visite che necessitino di certificato di malattia. Il costo è a carico dell'utenza.
Ambulatori ad accesso diretto
Ma c'è anche altro. L'estate scorsa, il Gruppo San Donato al Policlinico San Marco di Zingonia (Bergamo) ha aperto un "ambulatorio ad accesso diretto" attivo di giorno dal lunedì al venerdì dove si affrontano, senza prenotazione, medicazioni, piccoli e medi traumi, distorsioni, problemi dentali, cistiti. Fatta l'accettazione e pagato il servizio (149 euro per la visita), il paziente è indirizzato allo specialista. Lo stesso Gruppo ha avviato due servizi analoghi, per codici bianchi e verdi, al Galeazzi Sant'Ambrogio, area ex Expo, e al Policlinico San Donato. In questo caso, la tariffa è di 190 euro e comprende gli esami di laboratorio. Si punta su ortopedico, cardiologo, urologo e dentista, introvabili nel pubblico: tariffa 190 euro inclusiva di esami di laboratorio.
Guardia medica privata
Roma non è da meno. Il Gruppo Villa Claudia ha attivato un servizio di assistenza medica 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, senza interruzioni festive, per i pazienti con emergenza medica, chirurgica o traumatologica che, se non gravi, sono indirizzati a Villa Salaria Hospital, altrimenti in ospedale. Una formula un po' diversa è quella che propone Romamed Service, servizio di guardia medica privata, che invia medici a domicilio per coprire urgenze anche ortopediche e pediatriche, e anche "per evitare le liste d'attesa di visite specialistiche" o lunghe code nel Ps dell'ospedale", o "perché non è rintracciabile il medico curante". Si muove su diverse aree di intervento: cardiologia, pediatria, urologia, ortopedia, chirurgia generale, Orl, gastroenterologia, neurologia, diagnostica cardiologica e radiologia.
Ma c'è anche altro. L'estate scorsa, il Gruppo San Donato al Policlinico San Marco di Zingonia (Bergamo) ha aperto un "ambulatorio ad accesso diretto" attivo di giorno dal lunedì al venerdì dove si affrontano, senza prenotazione, medicazioni, piccoli e medi traumi, distorsioni, problemi dentali, cistiti. Fatta l'accettazione e pagato il servizio (149 euro per la visita), il paziente è indirizzato allo specialista. Lo stesso Gruppo ha avviato due servizi analoghi, per codici bianchi e verdi, al Galeazzi Sant'Ambrogio, area ex Expo, e al Policlinico San Donato. In questo caso, la tariffa è di 190 euro e comprende gli esami di laboratorio. Si punta su ortopedico, cardiologo, urologo e dentista, introvabili nel pubblico: tariffa 190 euro inclusiva di esami di laboratorio.
Guardia medica privata
Roma non è da meno. Il Gruppo Villa Claudia ha attivato un servizio di assistenza medica 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, senza interruzioni festive, per i pazienti con emergenza medica, chirurgica o traumatologica che, se non gravi, sono indirizzati a Villa Salaria Hospital, altrimenti in ospedale. Una formula un po' diversa è quella che propone Romamed Service, servizio di guardia medica privata, che invia medici a domicilio per coprire urgenze anche ortopediche e pediatriche, e anche "per evitare le liste d'attesa di visite specialistiche" o lunghe code nel Ps dell'ospedale", o "perché non è rintracciabile il medico curante". Si muove su diverse aree di intervento: cardiologia, pediatria, urologia, ortopedia, chirurgia generale, Orl, gastroenterologia, neurologia, diagnostica cardiologica e radiologia.
Scanzi e il Cazzaro
Salvini ha un’unica dote: non sa nulla di quello di cui parla
di Andrea Scanzi
La politica italiana è quasi sempre orrenda e avvilente, ma se non altro riesce ogni giorno a oltrepassare i confini del ridicolo e dell’assurdo. Vedere Matteo Salvini che accusa Amnesty International di “razzismo”, prendendo a pretesto la scelta di Amnesty di non partecipare a Lucca Comics per via del patrocinio dell’ambasciata di Israele, è qualcosa che va contro ogni umana immaginazione. Siamo ben oltre il “mondo al contrario” del fine linguista Vannacci. Salvini che accusa Amnesty International di razzismo è come Sgarbi che accusa Gandhi di essere scurrile. Come Rocco Siffredi che accusa la Roccella di essere disinibita. Come La Russa che accusa Guccini di essere troppo di destra. Siamo davvero un Paese meraviglioso (e ampiamente irrecuperabile).
Salvini ha una grande dote: non sa mai nulla di quello di cui parla. Interviene per sentito dire, ha una naturale propensione alla gaffe (chiamiamole così) e ogni sua dichiarazione è un distillato di qualunquismo, ignoranza e xenofobia latente. Sul Medio Oriente, a modo suo, ha le idee molto chiare: loro sono il Male e noi il Bene. L’Islam è – tout court – ricettacolo di terroristi, mentre lui (e i suoi tre o quattro adepti rimasti) incarna invece le sacre scritture della Bibbia, a cui come noto si rifà con comportamenti intrisi di empatia e umanità. Se Meloni ha spesso avuto in passato – come tutta la destra sociale – posizioni pro-Palestina, e adesso infatti tradisce imbarazzo nel fingersi da sempre vicina al popolo ebraico (come ha avuto il coraggio di dire l’orgoglioso camerata Ignazio), Salvini non sa nulla della secolare guerra tra Israele e Palestina e (dunque) in merito vanta solo certezze. Non nutrire dubbi, del resto, è “fortuna” e requisito antico di chi non legge e non studia, ma si limita a sproloquiare, tifare e sentenziare.
Salvini, a cui nessuno aveva peraltro chiesto un parere perché ormai il suo punto di vista interessa giusto Porro, si è buttato sul caso Zerocalcare-Lucca Comics con consueta grettezza dialettica. Ha scomunicato (a caso) il primo e celebrato (giustamente) la seconda, splendida manifestazione a cui non mancherà di partecipare. E qui a Salvini andrà di lusso, perché a Lucca non incontrerà i veri Tex Willer e Kit Carson ma solo quelli immaginari, altrimenti i due ranger lo avrebbero senz’altro “spedito a suonare l’arpa sopra una nuvola”, inesorabile destino che tocca a tutti i giuggioloni da loro incontrati.
Nella vicenda si è poi inserita Amnesty International, che per bocca del portavoce Riccardo Noury ha motivato una posizione analoga a quella di Zerocalcare, autore che da sempre si batte meritoriamente per la causa palestinese. Amnesty e Zerocalcare sono stati attaccati dal vicedirettore del Foglio (che non sapevo neanche esistesse), Andrea Marcucci (che non sapevo ancora esistesse) e Salvini. Mancano solo Pigi Battista, Sechi, Donzelli, Magliaro, la Gegia, lo Scrondo del Missouri e siamo a posto. In questo caravanserraglio di geni contemporanei, Salvini non ha mancato di svettare, accusando appunto di “razzismo” Amnesty International. E in effetti, lui, di razzismo (almeno quello) un po’ se ne intende. Le sue posizioni su rom, arabi e (più in generale) “extracomunitari” sono note. Ancora risuonano alcune sue parole sature di tolleranza come queste: “Con gli immigrati che arrivano in Italia è in corso una sostituzione etnica vera e propria. Bisogna scaricarli sulle spiagge, con una bella pacca sulla spalla, un sacchetto di noccioline e un gelato”. Quanta saggezza, quanta lucidità. Da qui a breve, come minimo, Salvini accuserà il Papa di bellicismo efferato, Scorsese di regia debole e Gasparri di intelligenza straripante. Che statista di primaria grandezza!
Mieli travagliato
Il giuramento di ipocrita
di Marco Travaglio
Se all’inizio della guerra Russia-Ucraina gli atlantisti de noantri mostrarono i primi sintomi di allergia alla logica, con l’ennesima guerra Hamas-Israele sembrano aver perduto il ben dell’intelletto. Non ci riferiamo ai dobermann da talk e da social che distribuiscono patenti di terrorismo e tagliagolismo a chiunque azzardi critiche al governo israeliano un po’ meno feroci di quelle della stampa israeliana. E nemmeno a quel minore del renzismo che twitta “Il Fatto è pieno di giornalisti antisemiti”, meritandosi una citazione in tribunale e una nel più vicino reparto psichiatrico. Ma a personaggi di ben altro spessore, abituati a studiare e a ragionare, anche per giungere a conclusioni diverse dalle nostre. Come Paolo Mieli, giornalista e storico. Già ci aveva sorpreso definendo “giustificazionista” di Hamas il discorso anti-giustificazionista di Guterres. Ma ieri, su La7, si è superato: “Vorrei fare una riflessione sugli ipocriti italiani. Quando fu invasa l’Ucraina, dicevano a Zelensky ‘ritirati perché la Russia è troppo più potente’. Ora nessuno dice al capo di Hamas di arrendersi. Sono propagandisti a cui non frega niente”. A parte il fatto che nessuno disse a Zelensky di ritirarsi (e da dove, visto che gli invasori erano i russi e lui era l’invaso?), semmai di negoziare un compromesso col nemico prima che il suo popolo subisse i guai peggiori che sta tuttora subendo, dopo il fallimento della controffensiva ucraina e l’inizio di quella russa, una domanda sorge spontanea: Mieli sta forse paragonando la “democrazia ucraina” al gruppo politico-terroristico Hamas? Nemmeno noi, che la democrazia ucraina non l’abbiamo mai granché notata, specie dopo la messa fuorilegge dei 12 partiti di opposizione e gli atti terroristici compiu oltre confine, ci saremmo sognati un accostamento così offensivo per Zelensky.
Di analogie fra le due guerre ce ne sono, ma molto diverse alla scombiccherata equazione mieliana. Israele, come la Russia, occupa territori non suoi. E l’Ucraina nega ai russofoni del Donbass l’autonomia promessa in due accordi a Minsk. Ma Israele e l’Ucraina sono nostri alleati, la Russia e Hamas no. E con gli alleati l’Occidente ha voce in capitolo e mezzi di pressione per farsi ascoltare, con i nemici no. Quindi i veri ipocriti e propagandisti sono quanti pretendono dal nemico Putin che si ritiri dalle regioni ucraine occupate, ma non pretendono dall’amico Zelensky che conceda l’autonomia al Donbass e un referendum per far decidere a quel popolo con chi vuole stare, né dall’amico Netanyahu che si ritiri dalla Cisgiordania, come Israele si impegnò a fare gradualmente nel 1993 a Oslo. Ecco, non vorremmo che Mieli, a furia di indagare sugli ipocriti e i propagandisti, scoprisse che il primo è lui.
L'Amaca
Salviamo la motosega
DI MICHELE SERRA
Vi prego di cercare in rete le immagini del candidato “anarco-liberista” argentino, Milei, che sbraita come un ossesso con una motosega in mano. Poi ditemi se vale la pena nutrire anche un solo briciolo di fiducia sul futuro non solo dell’Argentina, ma del genere umano.
Fisicamente, Milei sembra Cetto Laqualunque che ha deciso di partecipare a un concorso di sosia di Elvis Presley. Vestito un po’ da Presley, un po’ da Cetto. Come molti famosi leader populisti (vedi Berlusconi e Trump) deve avere un problema con i capelli, perché ha una pettinatura mai vista prima al mondo. Ma a spaventare è soprattutto la motosega, brandita come fa il Salvini con il rosario, con il motore in fuorigiri e i fumi della miscela sparacchiati in faccia a una povera ragazza: se è una del suo staff, va detto che se lo merita.
Leggendo qualche articolo su Milei (amo l’horror, soprattutto i B-movie come questo) ho appreso che la motosega, per l’estrema destra di molti Paesi latino-americani, è un vero e proprio simbolo politico: dev’essere per via dell’Amazzonia, che se potessero raderebbero al suolo con tutti gli indios dentro. Avendone due, di motoseghe, e tenendole nella massima considerazione, ci sono rimasto male. Si tratta di una macchina onesta e utile, come tutti i componenti della grande famiglia degli attrezzi da lavoro. Se ben tenuta e con i denti della catena bene affilati, è in grado di dare grandi soddisfazioni nella manutenzione del bosco e nell’approvvigionamento di legna.
Mi chiedo se ci sia, in Argentina, un movimento per la salvezza della motosega, che non merita di diventare un accessorio per energumeni.
Il Maestro continua ad illuminarci
L’ARTE DI SCRIVERE
“Così è nato Il nome della rosa”
In questo testo inedito il grande semiologo racconta la genesi, ispirata, del suo romanzo medievale
DI UMBERTO ECO
All’inizio del 1978 una mia amica, che stava lavorando per un piccolo editore, mi ha detto che stava chiedendo a non-romanzieri (a politici, a sociologi, a clinici) di scrivere un breve racconto poliziesco. Le ho detto che non ero interessato alla scrittura creativa e che ero sicuro di essere assolutamente incapace di scrivere buoni dialoghi. Avevo concluso (non so perché) che comunque, se per caso avessi dovuto raccontare una vicenda poliziesca, ne sarebbe uscito un volume di cinquecento pagine, e la vicenda si sarebbe svolta in un monastero medievale. La mia amica mi disse educatamente che non era interessata a un tomo commerciale poco ispirato, e il nostro incontro fini lì.
Appena tornato a casa, mi misi a frugare in un cassetto e ritrovai un appunto scritto qualche anno prima dove avevo annotato alcuni nomi di monaci. Il che vuol dire che in una qualche piega della mia mente l’idea di un romanzo stava già crescendo senza che me ne rendessi conto. A quel punto ho pensato che sarebbe stato interessante avvelenare un monaco mentre stava leggendo un libro misterioso, e lì mi fermai. E così iniziai a scrivereIl nome della rosa .
Quando il libro è uscito mi è stato chiesto perché avevo deciso di scrivere un romanzo e le ragioni che davo (che variavano a seconda del mio umore) erano probabilmente tutte vere – segno che erano tutte false. Alla fine avevo concluso che la sola risposta sincera era che a un certo momento della mia vita mi era venuta voglia di farlo – e credo che quella fosse una spiegazione sufficiente e ragionevole. Quando in un’intervista mi chiedono “Come scrive i suoi romanzi?”, di primo acchito rispondo “Da sinistra a destra”. Capisco che non è una risposta soddisfacente e che può produrre un certo spiazzamento nel caso venga data in un paese arabo o in Israele. Ora ho modo di dare una risposta più dettagliata.
All’inizio del 1978 una mia amica, che stava lavorando per un piccolo editore, mi ha detto che stava chiedendo a non-romanzieri (a politici, a sociologi, a clinici) di scrivere un breve racconto poliziesco. Le ho detto che non ero interessato alla scrittura creativa e che ero sicuro di essere assolutamente incapace di scrivere buoni dialoghi. Avevo concluso (non so perché) che comunque, se per caso avessi dovuto raccontare una vicenda poliziesca, ne sarebbe uscito un volume di cinquecento pagine, e la vicenda si sarebbe svolta in un monastero medievale. La mia amica mi disse educatamente che non era interessata a un tomo commerciale poco ispirato, e il nostro incontro fini lì.
Appena tornato a casa, mi misi a frugare in un cassetto e ritrovai un appunto scritto qualche anno prima dove avevo annotato alcuni nomi di monaci. Il che vuol dire che in una qualche piega della mia mente l’idea di un romanzo stava già crescendo senza che me ne rendessi conto. A quel punto ho pensato che sarebbe stato interessante avvelenare un monaco mentre stava leggendo un libro misterioso, e lì mi fermai. E così iniziai a scrivereIl nome della rosa .
Quando il libro è uscito mi è stato chiesto perché avevo deciso di scrivere un romanzo e le ragioni che davo (che variavano a seconda del mio umore) erano probabilmente tutte vere – segno che erano tutte false. Alla fine avevo concluso che la sola risposta sincera era che a un certo momento della mia vita mi era venuta voglia di farlo – e credo che quella fosse una spiegazione sufficiente e ragionevole. Quando in un’intervista mi chiedono “Come scrive i suoi romanzi?”, di primo acchito rispondo “Da sinistra a destra”. Capisco che non è una risposta soddisfacente e che può produrre un certo spiazzamento nel caso venga data in un paese arabo o in Israele. Ora ho modo di dare una risposta più dettagliata.
Nello scrivere il mio primo romanzo ho imparato alcune cose. Anzitutto “ispirazione” è una brutta parola che i cattivi scrittori usano per sembrare artisticamente rispettabili. Come dice il celebre adagio inglese “genius is ten percent inspiration and ninety percent perspiration”, il genio è fatto al dieci per cento d’ispirazione e al novanta per cento di traspirazione, sudore. Si racconta che il poeta francese Lamartine avesse descritto a più riprese le circostanze magiche in cui era nata una delle sue poesie migliori; sosteneva che fosse nata come per folgorazione una notte che passeggiava in un bosco. Poi alla sua morte hanno trovato nel suo studio molte versioni di quella poesia, scritta e riscritta nel corso degli anni.
I primi recensori deIl nome della rosa avevano detto che era stato scritto sotto l’influenza di una luminosa ispirazione ma che, a causa delle sue difficoltà concettuali e linguistiche, era per un ristretto numero di lettori. Poi, quando il libro ha iniziato a vendere un inatteso numero di copie, milioni di copie, gli stessi critici hanno scritto che, per mettere insieme un bestseller destinato a un successo di massa, dovevo aver seguito una ricetta segreta. Più tardi hanno scritto che il successo era dovuto a un programma computerizzato – dimenticando che i primi personal computer con un programma di scrittura maneggevole erano apparsi solo all’inizio degli anni ottanta, dopo che il mio libro era già uscito. Quando lo scrivevo, negli anni 1978-1979, anche negli Stati Uniti circolavano solo dei piccoli computer (mi pare si chiamassero Tandy) che nessuno avrebbe potuto usare se nonper scrivere qualche lettera. (…) Visto che parliamo di lentezza dell’ispirazione, devo dire che Il nome della rosa mi era costato solo due anni di lavoro perché non avevo dovuto fare alcuna ricerca sul Medioevo. Come ho detto, la mia tesi era stata sull’estetica medievale e in seguito avevo continuato ad approfondire questi temi. Avevo visitato tante abbazie romaniche e cattedrali gotiche, e così via. Quando ho deciso di scrivere il romanzo, è stato come se avessi aperto un armadio dove per quasi trent’anni avevo ammassato centinaia di schede. Tutto quel materiale era ai miei piedi, e dovevo solo scegliere ciò di cui avevo bisogno.
Per i romanzi successivi la situazione è stata diversa (anche se, se scelgo un certo argomento, è perché con quello ho già qualche familiarità). Ecco perché i romanzi successivi mi hanno preso più tempo: otto anni per Il pendolo di Foucault , sei per L’isola del giorno prima eBaudolino . Per La misteriosa fiamma della regina Loana ci ho messo solo quattro anni perché riguarda le letture che ho fatto da bambino fra gli anni trenta e quaranta, e ho potuto utilizzare molto materiale che avevo a casa, come albi di fumetti, registrazioni, riviste o quotidiani – in breve, la mia collezione completa di ricordi, nostalgia e cianfrusaglia.
Cosa faccio negli anni di gestazione di un romanzo? Raccolgo documenti, visito luoghi e faccio mappe, schizzo la pianta interna di edifici o, come nel caso de L’isola del giorno prima , di navi; e talora disegno i volti dei miei personaggi. Per Il nome della rosa ho disegnato i volti di tutti i monaci. Insomma, passo questo periodo di preparazione come in un castello incantato o, se preferite, in uno stato di rifugio autistico dal mondo reale. Nessuno sa che cosa stia facendo, neppure i membri della mia famiglia o gli amici più intimi. Faccio finta di fare altro, ma cerco in realtà continuamente idee, immagini, parole per la mia storia. Voglio dire che se, mentre immagino vicende ambientate nel Medioevo, vedo passare per strada una macchina rossa che attira la mia attenzione, annoto mentalmente (o su un foglio) quel colore, che prima o poi giocherà un ruolo o apparirà, che so, nella descrizione di una miniatura.
Cosa faccio negli anni di gestazione di un romanzo? Raccolgo documenti, visito luoghi e faccio mappe, schizzo la pianta interna di edifici o, come nel caso de L’isola del giorno prima , di navi; e talora disegno i volti dei miei personaggi. Per Il nome della rosa ho disegnato i volti di tutti i monaci. Insomma, passo questo periodo di preparazione come in un castello incantato o, se preferite, in uno stato di rifugio autistico dal mondo reale. Nessuno sa che cosa stia facendo, neppure i membri della mia famiglia o gli amici più intimi. Faccio finta di fare altro, ma cerco in realtà continuamente idee, immagini, parole per la mia storia. Voglio dire che se, mentre immagino vicende ambientate nel Medioevo, vedo passare per strada una macchina rossa che attira la mia attenzione, annoto mentalmente (o su un foglio) quel colore, che prima o poi giocherà un ruolo o apparirà, che so, nella descrizione di una miniatura.
lunedì 30 ottobre 2023
Massini
Altro che vampiri e spose cadavere il vero horror è dentro di noi
di Stefano Massini
Che cosa è esattamente il sentimento dell’orrore? Verrebbe da rispondere che si tratta della quintessenza della paura, in cui essa si aggrava con un senso profondo di disgusto e di condanna morale.
Siamo nel pieno di due guerre, la cui genesi sta in una contrapposizione fra parti insanabile e cruenta, tale da rifiutare l’ipotesi stessa del dialogo. È il seme da cui prende forma non solo la violenza, ma anche la paura: il conflitto con l’altro da te, l’estraneo inconciliabile, paradigma di ciò che non controlli e come tale rifiuti. Ed è di questo anatema dell’opposto che parleremo oggi, nella terza puntata di questa inchiesta sull’orrore che trova pretesto nella ricorrenza di Halloween, dopodomani notte.
Facciamo un passo indietro, all’origine del fenomeno. Che cosa è esattamente il sentimento dell’orrore? Verrebbe da rispondere che si tratta della quintessenza della paura, in cui essa si aggrava con un senso profondo di disgusto e di condanna morale. Un esempio in questo senso può essere colto da quel che accadde a un maestro come Hitchcock, mentre lavorava ai Pinewood Studios di Londra sul montaggio di un documentario sui lager nazisti. Si racconta che dopo aver visto il girato dei primi alleati entrati a Bergen-Belsen, il giovane Alfred si assentò per oltre sette giorni consecutivi, rispondendo solo un laconico «è oltre ogni limite».
L’orrore sembra quindi nutrirsi di questo, della percezione di un eccesso, di un confine violato, di una misura clamorosamente abusata: si può avere paura dell’attacco di un felino nella savana, ma viceversa l’orrore scatta solo se il suddetto leone ti insegue con le fauci sporche di sangue di un neonato appena azzannato. Questo upgrade fa convertire la paura a un livello ulteriore, in una specie di elevazione al cubo che ci induce a rimuovere lo sguardo o ad attivare forme di evitamento (le immagini dall’Ucraina o dalla Palestina non solo non voglio vederle, ma mi convinco che siano fake). Ed è, non per nulla, lo stesso meccanismo che consente all’orrore di farsi horror, cioè una forma di paradossale intrattenimento che corre limitrofa alla commedia, con cui condivide proprio questa necessità di estremo, esplicita nei gargoyle delle cattedrali gotiche. Halloween ne è la somma dimostrazione, perché incardina l’antologia dell’orrore più spietato (carni putrefatte, crani scuoiati, interiora in vista, bulbi oculari pendenti) convertendola in un grande cartoon collettivo in cui l’obitorio si fa balera e il funerale è un danzereccio Carnevale.
Questo se ci fermiamo all’apparenza. Ma se girassimo la domanda a Sigmund Freud? Qui il tema si fa molto interessante, se leggiamo quel trattato del 1919, di cui già ho avuto modo di parlare, da Freud dato alle stampe con il titolo Das Unheimlich. In quelle pagine troviamo una definizione inattesa dell’orrore, interpretato dal padre della psicanalisi come reazione non al diverso da noi, quanto piuttosto a una familiarità tradita, e convertita in minaccia. È il cosiddetto elemento perturbante, cioè quello che ci incute angoscia proprio perché lo percepiamo radicato in noi, ed è straordinario il modo in cui Freud ne rintracci il metodo nei racconti (a partire da E.T.A.Hoffmann) su bamboline assatanate e pagliacci demoniaci, ovvero su piacevoli compagni d’infanzia tramutati in automi sanguinari. Lì, spiega Freud, la nostra psiche subisce come un corto circuito, perché è costretta a respingere ciò che in realtà ha già accolto e introiettato in se stessa, insomma va in crisi l’assunto fondamentale della nostra difesa, quello per cui il mostro da annientare è altro da noi. Trovo la suggestione illuminante, nella misura in cui ci porta a ridefinire il concetto stesso di orrore come paura di un orco che sta fuori e dentro, contemporaneamente.
Nel terzo millennio dei tribunali improvvisati online, con l’ossessione di dover tutti per forza esprimere la propria esegesi della realtà sotto forma di post, è chiaro che le parole di Freud sono una rivoluzione copernicana: l’orrore che proviamo manifesta in qualche modo in noi la rimossa sensazione di una comunanza con chi varca il limite, con chi si inebria di violenza e nel calpestare l’altro venera il proprio Baal. Ci inorridisce e ci spiazza lo spettacolo di una natura umana che è anche nostra, e che reca iscritta in sé la potenzialità della propria vena brutale, solo che il suo dilagare ci legittima inconsapevolmente a non reprimerla più.
In questo senso la kermesse di Halloween, con i suoi zombie cannibali e i maniaci armati di motosega, altro non era che la raffigurazione concreta di quanto noi stessi avessimo contiguità con la parte distruttiva di noi, vestendone i panni per una notte in una forma di catartica ostentazione (non è dunque un caso che le prime testimonianze della festa siano datate a oltre cinque millenni or sono, quando niente al mondo sarà stato come adesso tranne l’impalcatura psichica dell’essere umano).
A far riflettere è allora non tanto Halloween 2023, quanto il contesto in cui essa si ripresenta, ovvero questo torneo mediatico di continui inni all’odio e alla violenza che consente alle masse di compiacersi dell’orrore travestendosi a loro volta da boia e legittimando il Tanathos che è in loro (anche su questo, il dottor Freud insegna). Altro che streghe di Salem, altro che conte Dracula e vampiri alla Polidori, altro che spose cadaveriche di Tim Burton, toccherà prendere atto che il vero sabba è già intorno a noi, febbrilmente danzato da milioni di utenti social che virtualmente ne ammazzano più che Leatherface in tutti i sequel di Non aprite quella porta.
domenica 29 ottobre 2023
29 ottobre 1921
Nella spelonca
Mentre ci sollazziamo con le giambrunate, le garrule gasparriane sull’aumento di pubblicità alla tv di stato ai danni della perla del partito azienda voluto dal trapassato, sta avvenendo uno scempio indicibile sotto gli occhi foderati di prosciutto di tutti noi.
Stanno scientemente ammazzando la sanità pubblica per sollazzare quella privata.
E probabilmente si saranno riuniti nottetempo, da carbonari, per attuare una sconcertante politica atta a depotenziare quello che è stato per molti anni un gioiello di famiglia comune. Come han fatto? Semplice. Rendere la vita dei medici ospedalieri terribilmente stressante, riducendo gli arrivi dei nuovi medici, pagando poco e niente tutto il sistema e nel contempo proporre incarichi a pagamento molto più remunerati nelle cosiddette società che si occupano, apparentemente, di alleviare le problematiche attuali, in realtà invece una logorante azione infingarda per dirottare sempre più fondi nelle tasche degli Ucci - Ucci, all'Angelucci per intenderci.
Borotalcamente, quasi insonorizzato, sofficemente il privato sta entrando sempre più nel sistema sanitario nazionale. In Liguria Yoghi Toti ha già deciso di coinvolgere le tasche di ricconi per la costruzione del nuovo ospedale della Spezia, e questo maleficio si ripercuoterà negli anni a venire attraverso pagamenti di rate da circa nove milioni, sottratti alle necessità gestionali comuni; pagheranno i soliti noti, gli ultimi, gli indifesi, coloro che dall'attenzione quotidiana medica e paramedica ottengono la spinta per andare avanti.
Vi fosse un'opposizione seria ed efficace, non collusa, tutto questo verrebbe combattuto e forse arrestato. Così non è. Molti si stanno sbattendo per la nobile causa, ma sono pochi, maledettamente pochi.
Occorrerebbe un'insurrezione pacifica di massa in difesa di un diritto costituzionale basilare.
Ma le giambruniadi, le goliardate nere, le fetecchie da noi remunerate, stanno distogliendo l'interesse comune. Un pò come incazzarsi col ladro colto in flagrante perché ha le scarpe infangate e sta sporcando il tappeto pregiato.
Incredibile vero?
Poltronificio Amato: il giro della Casta in ottanta incarichi
Il neoesperto di Intelligenza Artificiale
DI LORENZO GIARELLI
Non è chiaro se il principale cruccio di Giuliano Amato sia quello di potersi fregiare di illustri incarichi pubblici e privati o, più semplicemente, quello di riempire le giornate senza doversi accontentare dei soliti hobby tipici del popolino, tipo le bocce o il burraco. Fatto sta che il noto giurista – appena nominato a capo di una Commissione sull’Intelligenza artificiale – è da sempre un accumulatore seriale di poltrone e poltroncine: con fare compulsivo siede in consigli d’amministrazione, presiede comitati etici, partecipa a comitati scientifici. Non è neanche una questione di soldi, ché quelli non gli mancano (è in pensione da tempo, in più c’è il vitalizio) e gran parte di questi incarichi è completamente gratuita.
È proprio questione di collezionismo compulsivo, in un contesto in cui i due mandati da presidente del Consiglio (1992 e 2000), i quattro da ministro, le cinque legislature in Parlamento e il periodo alla guida della Corte costituzionale si fanno piccoli piccoli, minuscole tappe di una ricerca della felicità per raccontare la quale già rischiamo di non avere più sufficiente spazio a disposizione.
Bando alle premesse, quindi, per citare i migliori pezzi della suddetta collezione. Per esotismo e competenze spicca per esempio, nel 1991, la nomina a negoziatore internazionale del debito estero albanese, tanto voluta da Tirana e caldeggiata dall’allora Comunità europea. D’altra parte Amato è uomo di mondo e di sicura affidabilità, infatti l’Ue lo chiama pure nel 2001 e lo spedisce alla neonata Convenzione per il futuro dell’Europa – un organo che dovrebbe risolvere i nodi della mancata applicazione del Trattato di Nizza – e il suo lavoro convince talmente tanto che cinque anni più tardi Bruxelles lo promuove presidente del Comitato d’azione per la democrazia europea, incaricato dei lavori preparatori per la riscrittura della Costituzione europea (spoiler: per la Costituzione le cose non sono andate benissimo).
Quella per i tavoli di lavoro istituzionali è una grandissima passione di Amato. Già pluridecorato nel Psi, nel nuovo millennio trova fortuna nel Pd diventando parte prima del Comitato nazionale e poi del Coordinamento nazionale, consacrandosi infine durante il governo Monti, quando il bocconiano lo chiama come consigliere deputato a “fornire analisi e orientamenti” sul finanziamento pubblico ai partiti.
Ci sarebbe già abbastanza materiale affinché il nostro se ne vada a Genova e si imbarchi su un cargo battente bandiera liberiana, vivendo solo dei suoi racconti, eppure non è che l’inizio. Altra enorme smania per Amato sono gli anniversari. Nel 2010 il governo Berlusconi lo nomina presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, forse conscio dell’esperienza maturata dal giurista quale presidente onorario della Fondazione Camillo Prampolini, che nel 2009 aveva festeggiato il 150esimo anniversario della nascita del medesimo Prampolini, già deputato del Regno d’Italia tra i fondatori del Partito socialista. Come non pensare ad Amato, quindi, quando nel giugno 2018 la Fondazione Francesco Saverio Nitti si dà l’obiettivo di creare un Comitato per celebrare il centenario dal governo Nitti. Amato accetta, nonostante un’agenda già piuttosto impegnata.
Nel 2012 è presidente della Sant’Anna di Pisa, di cui guida pure l’associazione degli ex allievi. Nel frattempo, trovandosi in città, diventa presidente dell’associazione degli Amici della Normale di Pisa. Negli stessi anni è co-presidente della Fondazione Memoriale Caduti per la Pace (con un co-presidente così, si dirà, chissà chi sarà il presidente: e infatti è Gianni Letta), per non dire del contributo nel board di Italianieuropei e nel Comitato scientifico della Fondazione Astrid e delle fatiche alla Fondazione Ildebrando Imberciadori. Restano qui sullo sfondo ruoli più noti, come quello di presidente dell’Antitrust e della Treccani, o quello a capo di una infelice Commissione per lo sviluppo di Roma Capitale voluta dall’allora sindaco Gianni Alemanno.
Proprio questa nomina di Alemanno, nel 2008, lo fa prendere in giro persino dai suoi amici. Come Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica e a cui deve peraltro l’eterno nomignolo di Dottor Sottile. Come ha ricordato Francesco Merlo su Repubblica, Scalfari gli dedicò i versi di una “poesia del Regazzoni, che aveva l’hobby – attenzione – di scavare buchi nella sabbia: ‘Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia’”.
Proseguiamo. Per un periodo Amato fa pure da consulente per Deutsche Bank e siede nell’international advisory board di Unicredit, dimostrando di non disdegnare il settore bancario. Tocca qui accelerare per menzionare la presidenza onoraria del Circolo Tennis Orbetello e nel Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi, da alternare col lavoro al Centro Studi Americani di Roma, il ruolo da consigliere in Luiss e la recente chiamata come garante del Codice etico-sportivo del Coni e poi nel Comitato sui Lep e l’autonomia voluto da Roberto Calderoli.
Il giro del mondo in 80 incarichi arriva così all’ultima curva, ma merita un colpo di coda. Nel 1997, quando Amato diventa docente dell’Istituto universitario europeo di Firenze, l’Ansa ha il senso dell’umorismo di chiedere all’Università se “l’assegnazione della cattedra sia compatibile con altre funzioni”, visto che c’è un Paese che ben conosce l’horror vacui di Amato per le giornate lunghe e piovose, di quelle che non passano mai. La risposta del portavoce resta a imperitura memoria: “Normalmente i docenti non hanno altri incarichi. È un impegno molto assorbente, devono stare qui tutti i giorni”. Anonimo profeta.
Nella sua lunga e infinita parabola c’è però la Grande Poltrona mancante. Quella del presidente della Repubblica. Eppure, il Dottor Sottile, nato politicamente craxiano, ci è andato vicinissimo. Era il 2015, all’epoca del letale patto renzusconiano. Il candidato per succedere al Napolitano bis, con l’avallo dello stesso Re Giorgio, era proprio lui. Ma quando Matteo Renzi capì che la minoranza bersaniana non l’avrebbe mai votato, facendo esplodere il Pd, ruppe il patto con Silvio Berlusconi e andò su Sergio Mattarella. Una volta sconfitto ammise: “La corsa per il Quirinale ha comunque cancellato le brutture ingiuste su di me che tanto hanno danneggiato la mia immagine: divoratore di pensioni e cumulatore di incarichi retribuiti”.
Incredibile, eh?
Nella pazzia bellica
Tragica, ma non seria
di Marco Travaglio
Spostiamo per un attimo lo sguardo dalla tragedia di Gaza, dove Hamas si nasconde sottoterra usando i civili come scudi umani e l’esercito israeliano commette crimini di guerra bombardando alla cieca. E proviamo a concentrarci sulla politica italiana, sempre tragica ma non seria: nessuno capisce quale sia la posizione del governo e del Pd. Accusare Meloni, Tajani e Crosetto di furia bellicista a rimorchio di Israele sarebbe ingiusto: finora sono stati prudenti, anche perché l’Italia è stata quasi sempre risparmiata dal terrorismo islamico grazie al suo equilibrio sul conflitto mediorientale. Ma allora perché il governo s’è astenuto sulla risoluzione dell’Assemblea Onu per un’“immediata tregua umanitaria”, mentre Usa e Israele han votato contro e Francia e Spagna a favore? Il pretesto che mancava la condanna di Hamas non regge: l’Onu aveva già condannato il pogrom del 7 ottobre e Guterres aveva già detto (nel discorso spacciato per filo-Hamas da Israele e dalla nostra stampa di destra, quindi anche da Rep) che “56 anni di soffocante occupazione israeliana non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas”. Ora il tema era tutt’altro: la rappresaglia-vendetta israeliana, che in tre settimane ha già seminato 7 mila morti (di cui 3 mila bambini).
Bene hanno fatto ieri Conte e la Schlein a condannare l’astensione del governo italiano. Ma l’altroieri si sono tenute in molte città d’Italia manifestazioni pacifiste, purtroppo poco partecipate, ma prive di ambiguità: condanna di Hamas, conferma del diritto di Israele a difendersi ma non a violare il diritto internazionale, e la stessa richiesta dell’Onu e del Papa: un cessate il fuoco umanitario. Il M5S e le sinistre hanno subito aderito. Il Pd invece si è intorcinato in un arabesco di posizioni che neppure nel Kamasutra: adesione ma forse senza Schlein, non-adesione ma con eventuale partecipazione di esponenti minori a “titolo personale”, adesione con partecipazione di esponenti minori a nome del partito ma sicuramente senza Schlein. Ieri poi 20 mila persone hanno sfilato a Roma per la Palestina. Intanto R. volava nella culla del Rinascimento saudita dall’amico Bin Salman con l’amico Jared Kushner (il genero di Donald Trump) per “ricostruire la pace di Abramo”: cioè quella schifezza di accordi separati ideati da Kushner e siglati nel 2020 da Trump e Netanyahu con i regimi di Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan, in attesa di farlo anche con l’Arabia Saudita, sempre sulla testa e sulla pelle dei palestinesi. Accordi che poi sono uno dei moventi del pogrom di Hamas: impedire la normalizzazione dei rapporti fra Riyad e Tel Aviv. Chiedo per un amico: ma il trumpiano, nonché putiniano e cinese, non era Conte?
L'Amaca
Aspettando la libertà
DI MICHELE SERRA
Certo il mondo è prodigo di violenze ributtanti e odiose soperchierie. Ma l’idea che una ragazza di diciassette anni possa morire perché non indossa il velo è veramente insopportabile.
È capitato alla diciassettenne Armita Garawand sulla metropolitana di Teheran, pestata un mese fa dalla “polizia morale” (che nome ignobile) e morta ieri dopo una lunga agonia. Capitò, prima di lei, alla ragazza curda Mahsa Amini, 22 anni, divenuta il simbolo dei grandi moti di protesta dello scorso anno, che arrivarono a far sperare, inutilmente, che quell’abominevole regime religioso potesse cadere.
La versione del regime è ovviamente differente da quella delle coraggiose e indomite opposizioni urbane (nelle campagne le rivoluzioni raramente attecchiscono). Vogliono far credere, i burocrati di Dio, che nessuno le abbia rotto la testa e l’abbia battuta per suo conto, chissà se il velo non avrebbe attutito il colpo. Noi si guardano le foto di quelle ragazze e si freme di rabbia, perché sapere quanto l’umanità sia avvezza all’inciviltà non è certo una spiegazione e tanto meno una consolazione, semmai un accumulo di dolore e di impotenza. Né elencare mentalmente l’interminabile catena di brutalità contro il corpo femminile sminuisce o inflaziona il sentimento di disgusto verso le varie “polizie morali” che ancora bastonano le donne libere.
Cerchiamo di immaginare come vivono, cosa covano in seno, che cosa si aspettano dalla vita le donne iraniane (e afghane) che non accettano di rimanere nella gabbia loro assegnata. Dev’essere durissima. Una delle poche cose che ancora mi aspetto dal futuro è la loro insurrezione vittoriosa.
sabato 28 ottobre 2023
Unito a Selvaggia
Accanto ai penultimi
di Selvaggia Lucarelli
Ero convinta, stupidamente, che in questo paese gli ultimi non fossero poi così soli. Che al cinismo di chi governa e di chi li ha votati, si contrapponesse la forza di una buona parte della cosiddetta società civile con un megafono: attori, cantanti, scrittori, intellettuali, influencer, imprenditori e così via. Ho visto, del resto, pubblica empatia per gli ucraini, i migranti, la capretta presa a calci, per chiunque sia sembrato il più debole, il più indifeso, l’ultimo, appunto.
Ho capito invece, osservando quella stessa società civile assumere il colore delle foglie perché nessuno la intraveda tra le fronde, che quelli non erano gli ultimi.
Che quell’empatia è sempre stata per i PENULTIMI. Gli ultimi sono i civili di Gaza. Sono loro i veri appestati, quelli che potrebbero attaccare il pernicioso batterio “nemico di Israele” (io non temo le etichette degli stupidi); quelli che riescono a trasformare gli strenui difensori dei diritti di chi nasce nella parte più sfortunata del mondo in inerti da competizione.
Vi siete esposti per chi sale su un barcone con una speranza, non lo fate per quelli che il mare davanti non possono neppure navigarlo, perché superate le tre miglia marine gli sparerebbero. Avete riempito le piazze di arcobaleni, detto che i colori non devono spaventare, che i diritti degli altri sono i diritti di tutti, ma il nero, il bianco, il verde, il rosso della Palestina vi terrorizzano. Vedo gente che potrebbe permettersi di non lavorare mai più e far campare di rendita i suoi diretti discendenti per altre 50 generazioni, che TACE per paura di perdere follower, clienti, contratti, giri di influenze, spazi sui giornali. Vedo la sinistra da TEDx e centri sociali diventati borghesi che dice due paroline stitiche e poi “cosa si suona stasera?”.
Vedo il vuoto gelido delle vostre bacheche. Vedo, in fondo, una grossa paura di perdere qualcosa mentre c’è gente che perde tutto.
Vi vedo già accanto al prossimo penultimo, mentre gli ultimi restano ultimi.
Sappiate però una cosa: questa volta l’ingiustizia che si consuma è così fluorescente che nel buio della notte di Gaza si vedono tanto le bombe quanto la vostra ignavia.
Selvaggia e le slurp slurp
‘Meloni femminista’. Tutti nel trappolone da Nunzia alle dem
VITTIMISMO, CINISMO E LECCACULISMO - In massa a chiedere di essere delicati con la famiglia di chi da anni passa col bulldozer sulle famiglie degli altri
DI SELVAGGIA LUCARELLI
Se c’è una cosa che a Giorgia Meloni è riuscita benissimo è far passare il suo comunicato sulla (presunta) fine della storia con Andrea Giambruno per qualcosa che abbia a che fare col femminismo. O con l’eroismo. Tutti presi come eravamo a commentare le sue parole, ci siamo persi quelle degli altri. Ed è un peccato, perché a leggerle tutte insieme viene da tifare per il machismo, le battute da caserma e le mani sul pacco. Uno dei primi a twittare è stato Carlo Calenda, il quale si è prontamente indignato per la volgarità della vicenda: “Così in Italia non si produrrà mai nulla tranne il fango, finché il fango non sommergerà tutti e tutto”. Detto da quello che ama risolvere i conflitti con sobrietà e discrezione, che non cerca le risse nel fango. Come dimenticare quell’addio elegante tra lui e Matteo Renzi: “Caro Renzi, io non ho mai preso soldi da un assassino”, “Calenda è pazzo, ha sbagliato pillole”.
Abbiamo poi la fila delle pidine che come al solito perdono l’occasione per tracciare una linea di confine netta tra il femminismo e il piagnisteo rancoroso e si buttano sulla solidarietà pelosa. Scrivono tweet zuccherosi esibendo la superiorità morale di chi mostra benevolenza nei confronti dell’avversario, senza mai capire che Giorgia Meloni, su questo furbo bilanciamento tra vittimismo tattico in tutto quello che riguarda se stessa e sul cinismo spietato nei confronti delle debolezze altrui, ha costruito il consenso politico. E così, Alessandra Moretti scrive: “Giorgia Meloni ha agito da donna libera. Chiedo io per lei che le lascino fare la madre”. A leggerla così sembra che gli assistenti sociali siano andati all’alba, in casa Meloni, a portarle via la figlia. Alessia Morani: “Cerchiamo di evitare i dibattiti da bar dove ognuno dice la qualunque”. In pratica chiede di essere delicati con la famiglia di quella che da anni passa col bulldozer sulle famiglie altrui. Pina Picierno: “Solidarietà e abbraccio a Giorgia Meloni. Diffondere gli audio del compagno, utilizzare la vita privata per colpirla è stato spregevole e abietto”. Anziché esprimere solidarietà alle donne costrette a lavorare con lo spregevole compagno di Giorgia Meloni, lei abbraccia Giorgia Meloni per avere lasciato un uomo molesto, ringraziandolo pubblicamente per gli anni meravigliosi trascorsi insieme.
Poi, uscendo dal Pd, abbiamo Elena Bonetti: “Oggi una mamma e una figlia stanno soffrendo per un sistema mediatico che le ha colpite. Che si attacchi la premier in questo modo per indebolirla politicamente è disgustoso. Solidarietà a lei e alla sua bambina”. In pratica la colpa è di Ricci, mica di Giambruno. Ma soprattutto: che ne sa Elena Bonetti di come sta la figlia di Giorgia Meloni? Lei chatta con le bambine di 7 anni? Il suo tweet in effetti è da scuole elementari, forse siede al banco vicino a Ginevra. C’è anche Mariastella Gelmini che elogia Meloni perché “Tante donne si immedesimeranno”. Come no, io mi sono subito immedesimata, anche il mio compagno saluta sempre le colleghe cercando il biscottino della fortuna nelle mutande. Laura Ravetto: “Orgoglio, forza e nessuna paura. Sei un esempio per tutte”. Per fortuna c’è Giorgia Meloni a darci l’esempio mollando un compagno che propone sesso a tre alle colleghe, noi altre eravamo convinte che a uno così bisognasse intestare la polizza a vita.
Infine, la vincitrice assoluta: Nunzia De Girolamo. Nel suo Avanti popolo, programma tv che riesce a far indietreggiare il popolo al punto da realizzare il 2% di share, dopo aver invitato suo marito e un pluricondannato, è riuscita a fare di peggio. Nell’ultima puntata ha pensato bene di dedicare un monologo al caso Meloni/Giambruno con la sintassi della letterina “Piccola Chiara” a Sanremo e i contenuti della propaganda nordcoreana. Mancava solo che sparasse un razzo nel laghetto di Cologno Monzese come avvertimento a Mediaset. Ha iniziato con “IL NOSTRO presidente del consìio ci ha messo la faccia” per poi passare a un improvviso cambio di sesso: “LA NOSTRA presidente del consìio ha scritto sui social, lo ha fatto da donna, da madre, da presidente del consìio”. Perché voi forse non lo sapete, ma se uno scrive sui social non da sorella, da trans o da segretaria ma “da madre, da donna, da presidente del consìjo” c’è una tastiera a parte, proprio. È tutta glitterata, se premi il tasto cancelletto esce il colostro e manca la G, ovviamente. E poi: “Bisogna avere rispetto del dolore della presidente del consìio!”, “Vi chiedo di rispettare una famìia che è finita!”. Addirittura finita, come la benzina in autostrada. Davvero commovente. Una libertà intellettuale che Report se la sogna. Anzi, speriamo che la tutela legale che vogliono togliere alla squadra di Ranucci la diano a lei perché Nunzia sta rischiando grosso: una querela per eccesso colposo di legittima difesa del presidente del consìjo, se va avanti così, non gliela leva nessuno.
Sulla tragedia
Il diplomatico
di Marco Travaglio
“L’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto”. L’ha detto a Rete4 Dror Eydar, ex ambasciatore di Israele a Roma dal 2019 al ’22. Non distruggere Hamas, ma Gaza: un territorio abitato da 2,3 milioni di palestinesi che in stragrande maggioranza non hanno alcun rapporto con Hamas. Buona parte dei maggiorenni ha al massimo votato Hamas alle ultime e uniche elezioni legislative per l’Autorità nazionale palestinese nel 2006, quando noi occidentali spiegammo loro che dovevano diventare democratici ed eleggere liberamente i propri rappresentanti. Poi, siccome vinse Hamas sia nella Striscia sia in Cisgiordania, Usa e Ue iniziarono a boicottare economicamente non Hamas, ma l’Anp, affamando e spingendo vieppiù la gente verso gli estremisti. Ma metà della popolazione è formata da bambini, che non votano, ma voteranno. E, continuando a trattarli così, possiamo immaginare per chi, sempreché qualcuno li chiami ancora alle urne. “Noi – ha aggiunto l’ex ambasciatore – non siamo interessati a discorsi razionali. Ogni persona che minaccia un ebreo, che vuole uccidere un ebreo, deve morire”. Ma si è scordato di spiegare come si fa a riconoscere chi, fra quei 2,3 milioni di civili quasi tutti inermi, vuole uccidere ebrei: a meno di presumere che lo vogliano tutti e sterminarli tutti.
Già l’idea che un simile soggetto che usa un tale linguaggio sia un diplomatico, se non fosse tragica sarebbe comica: perché è l’antitesi della diplomazia, anche di quella più ipocrita che usa toni suadenti ed espressioni soavi per nascondere le peggiori nefandezze del Paese che rappresenta. Ma il fatto che il governo israeliano mandi in giro per l’Europa a spiegare le sue ragioni figuri come Eydar, la dice lunga sull’ottusità dell’attuale classe dirigente di Tel Aviv. Che, anche dimenticando per un attimo gli orrori in corso a Gaza, non si pone minimamente il problema del consenso internazionale, convinta che le verrà permesso qualsiasi crimine di guerra per vendicare il terrificante “pogrom” di Hamas del 7 ottobre. È la terribile sintesi della storia israelo-palestinese di questi 14 anni di Era Netanyahu-Hamas: il sistematico sabotaggio bipartisan degli accordi di Oslo del ’93, siglati da Arafat e Rabin sul principio “due popoli, due Stati” e proseguiti da Sharon col ritiro da Gaza. Quel principio, così in voga in Occidente, è sparito da un pezzo dai radar del Medio Oriente: Israele è grande quanto la Puglia, ma ha la popolazione della Lombardia; la Cisgiordania è grande quanto la Liguria e Gaza è un decimo della Val d’Aosta e hanno ciascuna la popolazione della Calabria. Altro che “due popoli, due Stati”: oggi l’epilogo più probabile è “nessun popolo, nessuno Stato”.
Spettacolo!
DI MICHELE SERRA
I siti meteo annunciano “autunno estremo” o “autunno ruggente”, con dovizia di dettagli minacciosi, eventi che atterriscono, previsioni funeste. Da molti mesi lo scontro tra correnti africane e atlantiche sembra fare il verso a “Ercole contro Maciste” nei B-movie degli anni Cinquanta.
Non fosse, il cambiamento climatico, un problema serio, una novità vera e impressionante, questo proliferare incontrollato del meteo-pulp farebbe solo sorridere, come certi titolacci di cronaca nera che ricorrono agli effetti grevi per attirare la clientela. Ma il clima che cambia non è uno spettacolo a pagamento: è uno dei veri grandi temi di questa epoca. Ci sia consentito dunque lamentare, per l’ennesima volta, la poca quantità di scienza che la comunicazione meteo offre alla sua vastissima clientela, a vantaggio di una rincorsa ai clic fondata sul racconto apocalittico di vicende atmosferiche che meriterebbero una descrizione razionale, non emotiva, oserei dire adulta.
L’isobara e l’anticiclone non sono entità mitologiche e neppure attori di uno show, sono manifestazioni oggettive di come funziona la natura, della sua maestà e della sua potenza. Perché mai si debbano annunciare le perturbazioni come se il popolo dovesse gridare per la meraviglia e rabbrividire per la paura, piuttosto che prenderne coscienza e farsene un’idea ragionevole, è presto detto. Si tratta — come tutto — di un mercato. Contano il numero dei clienti e il fatturato. Se mai verrà il Diluvio Universale, l’importante non sarà costruire l’Arca, ma vendere i biglietti.
venerdì 27 ottobre 2023
Sassolino insignificante
Commento
Cause ed effetti esistono in natura come in guerra
di Eugenio Mazzarella*
Ex nihilo nihil fit, “nulla viene dal nulla”. È Lucrezio, nel De rerum natura. Natura non facit saltus, “la natura non fa salti”, procede per gradi. È formula scolastica, ripresa da Linneo e Leibniz. Nella natura le cose vanno così, e questo è il principio che serve a capirne i fenomeni. Checché ne pensi l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, lo stesso principio governa gli eventi storici, se li si vuole capire, comprendere, indirizzare diversamente, metterli su un altro percorso, sottrarli all’ineluttabile, evitare gli errori fatti.
Biden, che invita Israele a non commettere gli stessi errori fatti dagli Usa dopo le Torri gemelle, fortunatamente sul punto sembra più informato dell’ambasciatore di Israele. Non credo che un diplomatico possa permettersi la rabbia. Ecco perché penso che all’ambasciatore israeliano all’Onu – e al suo ministro degli Esteri, che ha rifiutato di incontrare Guterres – sia venuta meno la logica elementare delle cose, nell’attaccare in modo così virulento il Segretario generale dell’Onu, accusandolo di giustificare l’attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre.
Guterres ha detto due verità. La prima, ribadita due volte nel suo discorso, che il terrorismo di Hamas è inescusabile e indifendibile. La seconda, con le sue parole, che “è anche importante riconoscere che gli attacchi di Hamas contro Israele non nascono dal nulla, considerando che i palestinesi sono sottoposti a 56 anni di occupazione soffocante. I palestinesi hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti, tormentata dalla violenza, la loro economia soffocata, la loro gente sfollata e le loro case demolite; le loro speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite”. Cinquantasei anni di occupazione militare della Striscia di Gaza, aggiungiamo noi, solo fittiziamente sotto controllo palestinese, o meglio controllata, fatta controllare da Hamas dalla politica di Netanyahu per indebolire l’Autorità palestinese di Abu Mazen e allontanare sine die la prospettiva già malcerta di uno Stato palestinese, sono stati il brodo di cultura di risentimento, frustrazione, rabbia che hanno costruito le fortune di Hamas nei territori palestinesi e l’esito terroristico della sua azione politico-militare. È un’evidenza sottolineata anche da autorevoli osservatori israeliani. Questo ha detto Guterres, ribadendo anche in replica alle accuse di Erdogan la sua condanna di Hamas.
Che il governo di Netanyahu non voglia vederla questa realtà è del tutto in linea con la politica che ha seguito per più di un decennio. Guterres ha detto due verità, le responsabilità ingiustificabili dell’attacco terroristico di Hamas e l’oppressione pluridecennale del popolo palestinese. Queste due verità non si elidono a vicenda, ma sì sommano. E bisogna ragionare a partire da questa somma. È l’unico modo per portare a zero i torti reciproci delle due parti e di garantire loro una possibilità di convivenza e di pace. Ogni altro punto di vista è oltranzismo nazionalistico di parte e porterà alla rovina la regione, costringendoci a sperare o a fingere di credere che la rovina si fermerà li.
Israele non può chiedere al Segretario generale dell’Onu, motivata da esigenze di sicurezza frustrate dal fallimento della sua intelligence e da una scelta strategica di non concedere nulla a una statualità palestinese decente, una franchigia dal diritto umanitario, mettendo per altro i suoi alleati di fronte alla scelta del diavolo con noi o contro di noi, e peggio con noi contro i palestinesi. Il vero salto che si può fare nella storia, e in politica, non è quello logico di eventi senza cause prossime e remote, dove il solo accennarle è “giustificare”. Questa è propaganda, e mettere avanti le proprie ragioni come fossero tutte e solo le ragioni in campo. Il vero salto che si può fare nella storia, soprattutto quando va a rovescio dell’umanità, è quello di una volontà politica che vada da un’altra parte di come sono andate, e cambi una realtà in terra di Palestina inaccettabile per tutti. Una realtà dove tra terrorismo e coventrizzazione di Gaza (il raderla al suolo, come fece la Luftwaffe a Coventry e poi replicarono gli alleati sulle città tedesche) rischiano di avere ragione solo i morti innocenti dell’una e dell’altra parte.
*Ordinario di Teoretica all’Università degli Studi di Napoli Federico II, è filosofo, politico (del Pd) e poeta
Testimonianza
Osservo le bombe dalla mia finestra
di Aya Ashour
Avete mai sentito il rumore del vostro cuore che batte di paura ogni volta che inizia la notte? È quello che mi succede dall’8 ottobre sempre dopo il tramonto, quando l’esercito israeliano di occupazione comincia a lanciare bombe a caso dalla frontiera e i caccia dell’aviazione bombardano le case “sicure” dei civili. Ormai capisco dal rumore se si tratta di artiglieria o bombardamenti dal cielo; infatti, il boato dei caccia è più forte e poi… l’aria viene illuminata da una luce rossa e, quindi, si percepisce il suono del missile mentre impatta, poi trema tutto sotto di noi, come fosse un terremoto. E arriva l’esplosione: un rumore terrificante. Ogni notte ho la sensazione che la morte sia lì, a pochi passi, che si stia avvicinando alla mia casa, con trenta persone dentro. E al mattino non riesco davvero a credere di avercela fatta ancora una volta, di essere sopravvissuta, di vedere la mia casa ancora in piedi. Finora, secondo i dati del nostro ministero della Sanità, dovrebbero esser stati uccisi più di 6.000 palestinesi, di cui 2.500 bambini. La mia amica Farida al-Ghoul ha perso il suo fidanzato, Yasser Barbakh, in un bombardamento di un caccia israeliano che ha colpito una casa accanto alla quale lui forniva servizi di assistenza agli sfollati. Farida mi ha inviato questo messaggio: “Aya Yasser mi aveva detto: ‘mezz’ora e ti chiamerò’. Non mi ha ancora chiamato… ma mi aveva promesso che ci saremo sposati dopo la guerra”. Mi sono appisolata. Sono circa le due e i rumori dell’artiglieria mi hanno svegliata. Rumore di vetri rotti, cadono pietre. Stanno colpendo le case qui intorno. Una granata è caduta sulla casa di fronte, un’altra è caduta senza esplodere. Quando toccherà a me? Scrivo mentre continuo a sentire il rumore delle esplosioni, faccio una foto a quel che si vede dalla mia finestra, il cuore batte forte.
Pluto!
Cliccate qui sopra e farete un viaggio su Plutone con la sonda della Nasa che l'ha sorvolato a 80.000 km.
Un pianeta di panna con velature di cacao!
L'Amaca
La cancel culture che ci vorrebbe
DI MICHELE SERRA
“Gli Usa non hanno l’esclusiva dei problemi mentali, statisticamente simili a quelli di tutti gli altri paesi comparabili del mondo. La differenza è che negli Stati Uniti le armi sono a portata di mano di chiunque, e chi vuole usarle riesce a farlo troppo facilmente. La verità evidente è questa, ma il Paese non riesce ad affrontarla per una malintesa interpretazione del Secondo emendamento della Costituzione, che garantisce il diritto di avere fucili e pistole; per gli interessi della lobby dei produttori; e per i politici soprattutto repubblicani che ci speculano sopra. Perciò il problema non viene risolto e centinaia di innocenti continuano a morire”.
Questa è la conclusione della più recente cronaca del corrispondente di Repubblica da New York, Paolo Mastrolilli. La riporto nella sua implacabile oggettività — non è un’opinione, è una sintesi dei fatti — perché non saprei scrivere di meglio, ovvero senza farmi influenzare dal mio disgusto, quasi fisico, per le armi. Mastrolilli racconta l’ennesima strage di passanti, attuata nel Maine da un istruttore di armi uscito di testa: diciotto morti, il corrispettivo di un’azione di guerra. Si aggiungono alle decine di migliaia di vittime degli ultimi anni: ne sono morti di più per le strade di America, crivellati dalle pallottole di mentecatti e maniaci di svariata estrazione (quasi sempre maschi bianchi) che nella guerra del Vietnam.
Alle parole di Mastrolilli mi sento di aggiungere solo questo: i “politici che ci speculano sopra” sono, con tutta evidenza, i veri mandanti della strage. La sola vera e opportuna cancel culture che l’America non è capace di mettere in campo è quella contro la sua mania suicida per le armi. È più facile abbattere una statua che bloccare un grilletto.
Per la serie "Perché siamo ridotti così!"
Il nonnetto dove lo metto
di Marco Travaglio
Eravamo in pensiero per Giuliano Amato, rimasto col culetto al freddo dopo una vita al calduccio alla tenera età di 85 anni. Prematuramente scaduto dalla Consulta, speravamo che le sue sparate retrattili sulla strage di Ustica inducessero la Rai a riesumare Telefono Giallo per affidargliene la conduzione: se ha un programma Nunzia De Girolamo, c’è speranza per tutti. Invece niente. Fortuna che FI, tradizionalmente sensibile al dramma degli anziani disoccupati, gli è corsa in soccorso nominando l’emerito indigente alla presidenza della Commissione Algoritmo: che non è uno scherzo, ma l’organo consultivo del governo sull’Intelligenza Artificiale. Molto più fico del Comitato Calderoli per valutare il nuovo Porcellum dell’autonomia differenziata, in cui Amato si era fiondato con agile balzo, per poi dimettersene subito dopo. Perché lui fa sempre così: agguanta una poltrona per aggiungerla alla collezione, poi si annoia e se ne va. Non per nulla, nella sua quarantennale vita politica – quattro ministeri, una vicepresidenza e due presidenze del Consiglio, cinque mandati parlamentari col Psi e col centrosinistra e mezza dozzina di candidature al Quirinale – diede tre volte l’addio alla vita politica: nel 1992, nel ’97 e nel 2008.
Intanto, fra un ritiro e l’altro, collezionava un’ottantina di poltrone in 40 anni: presidente dell’Antitrust e della Treccani, docente alla Sapienza, membro del Comitato nazionale e del Coordinamento nazionale del Pd (qualunque cosa significhino), presidente della “commissione Attali” all’amatriciana del sindaco Alemanno, consulente Deutsche Bank, presidente onorario della Fondazione Ildebrando Imberciadori, presidente dei Garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, garante del Codice etico-sportivo del Coni, vicepresidente della Convenzione Ue, presidente del Comitato per riscrivere la Carta Ue, consulente di Monti sui fondi ai partiti, presidente della Scuola Sant’Anna di Pisa nonché dei relativi ex-allievi, ma pure dell’International advisory board di Unicredit, presidente onorario del Circolo Tennis Orbetello, giudice poi vicepresidente poi presidente della Corte costituzionale e tante altre belle cose. Il tutto a sua insaputa, visto che in una straziante intervista a Rep dichiarò: “Io non faccio parte della Casta” (come se qualcuno l’avesse mai sospettato). Voi capite la drammatica astinenza da cadrega e la nobiltà del gesto caritatevole di FI. Ora purtroppo corre voce che la Meloni voglia levargli di bocca pure l’Intelligenza Artificiale, come vendetta trasversale contro FI, cioè Mediaset, per Giambruno. Non sia mai: il poveretto potrebbe non riaversene più. Giorgia, non farlo: con tutti i guai che ti dà la famiglia, adotta un nonno.