lunedì 30 ottobre 2023

Massini


Altro che vampiri e spose cadavere il vero horror è dentro di noi

di Stefano Massini

Che cosa è esattamente il sentimento dell’orrore? Verrebbe da rispondere che si tratta della quintessenza della paura, in cui essa si aggrava con un senso profondo di disgusto e di condanna morale.

Siamo nel pieno di due guerre, la cui genesi sta in una contrapposizione fra parti insanabile e cruenta, tale da rifiutare l’ipotesi stessa del dialogo. È il seme da cui prende forma non solo la violenza, ma anche la paura: il conflitto con l’altro da te, l’estraneo inconciliabile, paradigma di ciò che non controlli e come tale rifiuti. Ed è di questo anatema dell’opposto che parleremo oggi, nella terza puntata di questa inchiesta sull’orrore che trova pretesto nella ricorrenza di Halloween, dopodomani notte.

Facciamo un passo indietro, all’origine del fenomeno. Che cosa è esattamente il sentimento dell’orrore? Verrebbe da rispondere che si tratta della quintessenza della paura, in cui essa si aggrava con un senso profondo di disgusto e di condanna morale. Un esempio in questo senso può essere colto da quel che accadde a un maestro come Hitchcock, mentre lavorava ai Pinewood Studios di Londra sul montaggio di un documentario sui lager nazisti. Si racconta che dopo aver visto il girato dei primi alleati entrati a Bergen-Belsen, il giovane Alfred si assentò per oltre sette giorni consecutivi, rispondendo solo un laconico «è oltre ogni limite».

L’orrore sembra quindi nutrirsi di questo, della percezione di un eccesso, di un confine violato, di una misura clamorosamente abusata: si può avere paura dell’attacco di un felino nella savana, ma viceversa l’orrore scatta solo se il suddetto leone ti insegue con le fauci sporche di sangue di un neonato appena azzannato. Questo upgrade fa convertire la paura a un livello ulteriore, in una specie di elevazione al cubo che ci induce a rimuovere lo sguardo o ad attivare forme di evitamento (le immagini dall’Ucraina o dalla Palestina non solo non voglio vederle, ma mi convinco che siano fake). Ed è, non per nulla, lo stesso meccanismo che consente all’orrore di farsi horror, cioè una forma di paradossale intrattenimento che corre limitrofa alla commedia, con cui condivide proprio questa necessità di estremo, esplicita nei gargoyle delle cattedrali gotiche. Halloween ne è la somma dimostrazione, perché incardina l’antologia dell’orrore più spietato (carni putrefatte, crani scuoiati, interiora in vista, bulbi oculari pendenti) convertendola in un grande cartoon collettivo in cui l’obitorio si fa balera e il funerale è un danzereccio Carnevale.

Questo se ci fermiamo all’apparenza. Ma se girassimo la domanda a Sigmund Freud? Qui il tema si fa molto interessante, se leggiamo quel trattato del 1919, di cui già ho avuto modo di parlare, da Freud dato alle stampe con il titolo Das Unheimlich. In quelle pagine troviamo una definizione inattesa dell’orrore, interpretato dal padre della psicanalisi come reazione non al diverso da noi, quanto piuttosto a una familiarità tradita, e convertita in minaccia. È il cosiddetto elemento perturbante, cioè quello che ci incute angoscia proprio perché lo percepiamo radicato in noi, ed è straordinario il modo in cui Freud ne rintracci il metodo nei racconti (a partire da E.T.A.Hoffmann) su bamboline assatanate e pagliacci demoniaci, ovvero su piacevoli compagni d’infanzia tramutati in automi sanguinari. Lì, spiega Freud, la nostra psiche subisce come un corto circuito, perché è costretta a respingere ciò che in realtà ha già accolto e introiettato in se stessa, insomma va in crisi l’assunto fondamentale della nostra difesa, quello per cui il mostro da annientare è altro da noi. Trovo la suggestione illuminante, nella misura in cui ci porta a ridefinire il concetto stesso di orrore come paura di un orco che sta fuori e dentro, contemporaneamente.

Nel terzo millennio dei tribunali improvvisati online, con l’ossessione di dover tutti per forza esprimere la propria esegesi della realtà sotto forma di post, è chiaro che le parole di Freud sono una rivoluzione copernicana: l’orrore che proviamo manifesta in qualche modo in noi la rimossa sensazione di una comunanza con chi varca il limite, con chi si inebria di violenza e nel calpestare l’altro venera il proprio Baal. Ci inorridisce e ci spiazza lo spettacolo di una natura umana che è anche nostra, e che reca iscritta in sé la potenzialità della propria vena brutale, solo che il suo dilagare ci legittima inconsapevolmente a non reprimerla più.

In questo senso la kermesse di Halloween, con i suoi zombie cannibali e i maniaci armati di motosega, altro non era che la raffigurazione concreta di quanto noi stessi avessimo contiguità con la parte distruttiva di noi, vestendone i panni per una notte in una forma di catartica ostentazione (non è dunque un caso che le prime testimonianze della festa siano datate a oltre cinque millenni or sono, quando niente al mondo sarà stato come adesso tranne l’impalcatura psichica dell’essere umano).

A far riflettere è allora non tanto Halloween 2023, quanto il contesto in cui essa si ripresenta, ovvero questo torneo mediatico di continui inni all’odio e alla violenza che consente alle masse di compiacersi dell’orrore travestendosi a loro volta da boia e legittimando il Tanathos che è in loro (anche su questo, il dottor Freud insegna). Altro che streghe di Salem, altro che conte Dracula e vampiri alla Polidori, altro che spose cadaveriche di Tim Burton, toccherà prendere atto che il vero sabba è già intorno a noi, febbrilmente danzato da milioni di utenti social che virtualmente ne ammazzano più che Leatherface in tutti i sequel di Non aprite quella porta.

Nessun commento:

Posta un commento