Aspettando la libertà
DI MICHELE SERRA
Certo il mondo è prodigo di violenze ributtanti e odiose soperchierie. Ma l’idea che una ragazza di diciassette anni possa morire perché non indossa il velo è veramente insopportabile.
È capitato alla diciassettenne Armita Garawand sulla metropolitana di Teheran, pestata un mese fa dalla “polizia morale” (che nome ignobile) e morta ieri dopo una lunga agonia. Capitò, prima di lei, alla ragazza curda Mahsa Amini, 22 anni, divenuta il simbolo dei grandi moti di protesta dello scorso anno, che arrivarono a far sperare, inutilmente, che quell’abominevole regime religioso potesse cadere.
La versione del regime è ovviamente differente da quella delle coraggiose e indomite opposizioni urbane (nelle campagne le rivoluzioni raramente attecchiscono). Vogliono far credere, i burocrati di Dio, che nessuno le abbia rotto la testa e l’abbia battuta per suo conto, chissà se il velo non avrebbe attutito il colpo. Noi si guardano le foto di quelle ragazze e si freme di rabbia, perché sapere quanto l’umanità sia avvezza all’inciviltà non è certo una spiegazione e tanto meno una consolazione, semmai un accumulo di dolore e di impotenza. Né elencare mentalmente l’interminabile catena di brutalità contro il corpo femminile sminuisce o inflaziona il sentimento di disgusto verso le varie “polizie morali” che ancora bastonano le donne libere.
Cerchiamo di immaginare come vivono, cosa covano in seno, che cosa si aspettano dalla vita le donne iraniane (e afghane) che non accettano di rimanere nella gabbia loro assegnata. Dev’essere durissima. Una delle poche cose che ancora mi aspetto dal futuro è la loro insurrezione vittoriosa.
Nessun commento:
Posta un commento