venerdì 30 aprile 2021

Di mattina

 Non ricordo di averne già parlato, ma quasi ogni mattina incontro quel giovane maturo dalla postura inequivocabile, l'andatura col baricentro spostato all'indietro, lo sguardo stanco, stufo probabilmente di vivere per quella malattia oscura attanagliante il cervello che induce a benedire il Cielo per non averla in noi, ma non si sa mai in futuro visto che la depressione è bastarda e sempre pronta ad attanagliare nuove vite. Sul far del mattino mi passa davanti ciondolante, il ventre molle, gli stessi jeans, come identici al giorno prima sono il giubbotto scolorito in un flebile blu, la maglia di flanella grigia e slavata evidenziante la flaccidità dovute alle probabili ore scialacquate non per volontà sua, ma per la codardia insufflata dal subdolo male che probabilmente lo abbraccia da tempo immemore. Entra dal tabacchino e compra cinque, sei pacchetti di sigarette, e il giorno dopo, come oggi, ritorna a far incetta di danno polmonare, senza tregua, senza vitalità. 

Vorrei tanto poterlo affiancare lungo il suo doloroso cammino, carpirne le sensazioni, le speranze, i traguardi, probabilmente annacquati dai farmaci, ma il suo andare per il micro mondo, lo sguardo costantemente rivolto verso gli abissi me lo impedisce, ammetto anche per quella vaga idea di menefreghismo tipica del tempo attuale e di cui molti, me compreso, ne sono portatori inconsapevoli. 

Mentre sono al lavoro ogni tanto penso al suo trascorrere del tempo, sempre uguale, sempre nemico, totalmente immerso nella negatività del suo Io. 

Quante persone attorno a noi vivono affogati nella battaglia in cervice, storditi dai medicamenti che, nella fattispecie, rendono misteriosamente grandi e luminari chi li prescrive, impotenti come sono dinnanzi al mistero obnubilante coscienze tenute dormienti per non arrecare danno a sé e agli altri! 

Quello bravo, nel contesto, è uno scribacchino di sempre più letali farmaci, e non per colpa atavica, bensì per impotenza scientifica. 

Ed ogni mattina il passaggio di questo giovane maturo mi induce a riflettere sul dannato che è tra noi, nel nostro club oramai esclusivo, minimizzante altrui problemi, tralasciante per strade assolate chi, non per propria volontà, melanconicamente ha perso il treno della socialità. Che difficilmente ripasserà.   

Fini al Massimo


DIRITTI IN PANDEMIA
Quel “collare” nato con il Covid
MI SONO VACCINATO - NON VORREI CHE LE AUTORITÀ, ORMAI ABITUATE A CALPESTARE OGNI DIRITTO COSTITUZIONALMENTE GARANTITO, IMPEDISSERO A CHI NON FOSSE IMMUNIZZATO QUALSIASI POSSIBILITÀ DI MOVIMENTO

di Massimo Fini

Il lettore Marco Lupezza, avendomi sentito dichiarare a RadioRadio che mi sarei fatto vaccinare, me ne ha chiesto gentilmente conto visto quel che ho sempre scritto e pensato sul Covid.

Gli ho risposto: “La ragione è molto semplice: non vorrei che le Autorità, ormai abituate a calpestare ogni diritto costituzionalmente garantito, violassero anche quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e quindi facessero una discriminazione fra vaccinati e non vaccinati impedendo a questi ultimi ogni possibilità di movimento”. Detto fatto. Adesso per circolare ci vuole un “certificato verde”. Nella confusione generale non si capisce se valga anche per chi ha fatto solo la prima dose del vaccino e quale Entità sia abilitata a fornirlo. Il vaccino quindi l’ho fatto. Tolta di mezzo l’Aria del minus habens Davide Caparini e affidata la cosa a Poste Italiane, tutto si è svolto nel migliore dei modi possibile. L’hub scelto era la “Fabbrica del Vapore”, un luogo che in pre Covid era destinato a grandi eventi e quindi particolarmente adatto per il necessario distanziamento sociale. Il percorso vaccinale è stato veloce (me la sono cavata in un’ora), efficiente, e con una certa attenzione da parte degli addetti alle comprensibili e umane ansie degli anziani vaccinandi, anche quelli che erano adibiti allo spostamento delle persone, quindi la manovalanza più bassa.

Effetti collaterali non ne ho avuti, per ora. Però sarebbe azzardato dire che sto meglio di prima del vaccino. Mi sento molto più fiacco, stanco e debole. Ed è ovvio, in fondo mi sono autoinoculato una modica quantità di Covid, quindi una malattia che non avevo, per evitarmene gli effetti più gravi. Cosa che già di per sé mi pare poco ragionevole perché nella mia fascia d’età, i morti per Covid sono un numero abbastanza limitato. E adesso ci sono da aspettare i fatidici 14 giorni entro i quali si manifesta, in modo letale, il trombo amico, anche se l’indicazione dei 14 giorni è del tutto vaga perché a causa della velocità con la quale sono stati preparati i vaccini non possiamo sapere se l’evento si possa presentare fra cinque o sei mesi in conseguenza del vaccino oppure, in modo del tutto naturale, perché, data l’età, è venuta la tua ora.

La mia posizione quindi non cambia. Resto convinto che la reazione al Covid-19 sia stata sproporzionata e che gli “effetti collaterali” dei lockdown siano più nocivi, per la salute, dello stesso virus.

In tutta questa storia colpisce come le Autorità di quasi tutti i Paesi democratici abbiano calpestato diritti costituzionalmente garantiti, dalla libertà di movimento a quella dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, senza che ci sia stata una qualche reazione dell’opinione pubblica. C’è anche stato un che di sadico piacere, soprattutto da parte di alcuni governatori, come il campano De Luca, nel darci ordini ancora più stringenti di quelli che venivano dalle Autorità nazionali. Mansueti come buoi ci siamo fatti mettere al collo quello che il lettore Lupezza chiama “un collare”. Tutto ciò senza che gli adoratori quasi mistici della Costituzione abbiano emesso un vagito. Si dirà che questa riduzione in schiavitù della cittadinanza è avvenuta in modo legale. Può essere. Del resto chiunque abbia studiato Giurisprudenza sa che nella Costituzione c’è tutto e il suo contrario e che ci sono sempre i modi per aggirarla. Dice per esempio l’articolo 32 della Costituzione: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”, ma aggiunge subito dopo “se non per disposizione di legge”. Ed ecco che l’articolo 32 va a farsi fottere. L’articolo 3 è famoso perché sancisce solennemente l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, ma poi si impone di fatto il “collare vaccinale” e anche l’articolo 3 va a farsi fottere.

Insomma non c’è stato alcun segno di ribellione. Questa passività è dovuta in prima battuta alla perdita di vitalità e istintualità dell’uomo occidentale. Io mi rallegro, lo confesso, quando sento di qualche delitto di gelosia. Vuol dire che un po’ di vita e di sangue ci sono ancora. Le nuove usanze vogliono invece che se tu torni a casa e trovi tua moglie a letto con l’amante gli presenti il biglietto da visita. Siamo grandi difensori della dignità della donna, ma ci sono stati tanti episodi in cui una ragazza veniva stuprata quasi nel centro di una città e tutti voltavano la testa da un’altra parte. Insomma non siamo più abituati a mettere a repentaglio la pelle, la nostra preziosa, schifosa, pelle.

E questo ci porta al secondo argomento. Si tratta della non accettazione della morte nel mondo contemporaneo. Morire è proibito, vietato e quasi osceno, come se non fosse la sola cosa certa della vita. In passato non era così. Nel Medioevo, nei “secoli bui”, vediamo che il rapporto dell’uomo preindustriale con la morte è completamente diverso dal nostro, direi quasi opposto. “L’accettava. Noi l’abbiamo invece scomunicata. Interdetta. Proibita. Dichiarata pornografica (…) Tanto che non azzardiamo nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: ‘la scomparsa’, ‘la perdita’, ‘la dipartita’, ‘si è spento’, ‘ci ha lasciato’, ‘è mancato all’affetto dei suoi cari’, ‘i parenti piangono’ e così via, la parola morte a indicare ciò che veramente è successo non c’è mai” (La Ragione aveva Torto?). Come nota Philippe Ariès autore di Storia della morte in Occidente: “È la prima volta che una società onora in modo generale i suoi morti rifiutando loro lo stato di morti”. Ma tutti questi interdetti, divieti, scomuniche della morte, tutti questi silenzi, significano in realtà una cosa sola: una paura della morte quale nessuna epoca del passato aveva conosciuto in eguale misura. “A differenza che nel passato, la morte è oggi vissuta come un fatto solo individuale e quindi irrevocabile e definitivo. Staccato ormai dai cicli della natura e delle stagioni, circondato da un mondo di oggetti inerti, che non si autoriproducono, ma caso mai vengono sostituiti, cui si sente sinistramente omologo, inserito in modo anonimo in una comunità troppo vasta, sfuggente e sostanzialmente estranea per conservarvi il senso di un destino collettivo, indebolito nel sentimento della continuità della famiglia ormai ridotta nelle dimensioni e nel significato, depauperato, per il progressivo allontanarsi dalla sua natura animale, della coscienza della specie, l’uomo tecnologico sente la propria morte come una tragedia individuale, esclusiva, totale e quindi più paurosa che mai”.

Oggi c’è una pandemia di panico. E con la paura della morte addosso, sottile ma continua proprio nella misura in cui l’indecenza viene in tutti i modi negata e respinta, si vive male.

E adesso, cari lettori del Fatto, andate a farvi angosciare da Draghi, che non a caso è stato soprannominato Don Abbondio, dal comitato tecnico scientifico, dal miles gloriosus Figliuolo reduce da mille battaglie mai combattute e dai media che in questo terrorismo irragionevole hanno avuto un ruolo devastante.

Oltre il limite

 


Dai non può essere - ma come l'ha detto il Fatto . che fai dubiti di Marco? - adesso allora vado a vedere sul sito di Arab News - digito le parole magiche, con un po' di difficoltà lo ammetto, ed eccolo il nuovo commentatore del quotidiano arabo sprizzante Rinascimento da tutti i pori, la culla del rispetto dei diritti umani, il simposio della cultura, l'effervescenza di menti nobili distaccate dal denaro!
Come sono fiero di essere suo connazionale! 
Mi manca il Tappo Puttaniere al Quirinale e finalmente potrò godermi la gioia vera, lontana anni luce dall'inghippo e dalle ribalderie!

giovedì 29 aprile 2021

Ciao Michael!

 


Se ne è andato oltre The Dark Side of the Moon, uno dei ventiquattro uomini che si sono allontanati maggiormente dal nostro pianeta, sorvolando appunto il lato nascosto del pianeta, Michael Collins, il tassista dei primi esseri umani scesi sul nostro satellite, Armstrong ed Aldrin, il simbolo del rispetto delle regole, capace di svolgere il proprio ruolo a scapito della gloria tendente all'eternità. Capita in piccolo anche a noi di essere ad un passo da un traguardo, da una gioia, da una possibilità e di venirne esclusi per responsabilità, perché così deve essere, perché "ce lo chiede l'Europa!"

Michael è stato il principe dei portatori di amaro in bocca, di fauci spalancate, la materializzazione del fumettistico "Sob!" 

Dall'alto dei cieli lunari ha trepidato assieme all'umanità sessantottina nel seguire le vicende del suo Comandante Neil e del responsabile del LEM Buzz, ne ha seguito le gesta entrate nella leggenda planetaria, ha gioito per i loro primi passi sul Satellite, ha trepidato per il ritorno sull'Apollo e li ha riportati sani e salvi a casa. 

Nella sua vita da eroe non ha mai dato adito a rincrescimento, a stizza, avendo eseguito il proprio ruolo mai con rassegnazione. Ora riabbraccerà il suo Comandante nei cieli, al di là del lato oscuro della Luna, dove ti auguro di riposare in pace Michael!      

Ma quanto ti stimo Daniela!


I 2 Matteo e le riaperture chi si somiglia poi si piglia

di Daniela Ranieri

L’avevamo detto al professor Galli: stia lontano dalla Tv, chi doveva capire ha capito, chi non capisce o è costituzionalmente impedito o ci marcia, andrà a finire che più parla e più il suo messaggio si depotenzia; ma lui niente. L’altra sera a #Cartabianca si è imbattuto nell’ennesima incarnazione dell’interlocutore aperturista, che stavolta era un politico, Stefano Bonaccini – le categorie a cui attingono gli autori di talk show per il “Galli contro tutti” quotidiano sono varie: albergatori/discotecari/ristoratori/chef stellati (che piangono miseria); direttori di testata salviniana e/o meloniana; seconde file leghiste e bolsonariani a vario titolo; ma condividono gli stessi argomenti: bisogna riaprire centri commerciali e ristoranti perché il Paese non ce la fa più. Galli, in qualità di simulacro del principio d’autorità (un’autorità scientista e un po’ ottusa, diversa dall’autorità paterna e in fondo benevola di Draghi, che si “fida del suo popolo”), ha la funzione di dire che si rischiano molti morti. Davanti a questo teatro primitivo, il telespettatore è appagato: la destra e i virologi simpatici (i minimizzatori) ci vogliono far uscire a mangiare una pizza; la sinistra, Speranza, i virologi antipatici come Galli e Crisanti – non uomini di mondo à la Bassetti – godono a tenere la gente chiusa in casa dalle 22 e a far morire di fame i pizzaioli.

La novità è che stavolta l’aperturista ottimista era un politico di sinistra, o meglio uno che si fa passare per tale, Bonaccini, per l’appunto, che con questa favoletta ha vinto le elezioni per la presidenza dell’Emilia-Romagna cavalcando tutta un’epica resistenziale contro la Borgonzoni telecomandata da Salvini, in ciò aiutato anche dalle Sardine, semmai servisse una prova del carattere pubblicitario dell’operazione. Ebbene, quando Galli ha ribadito l’ovvio, e cioè che le riaperture non sono state decise su base scientifica, ma politica, Bonaccini, contundente e manipolatorio come un berlusconiano nel 1996, ha preso a screditarlo: “Quindi lei sta sostenendo che Draghi e il governo sono degli irresponsabili?”. Il sofisma, benché demenziale, gli ha sturato il condotto da cui passano le villanie più grossolane e passivo-aggressive: “Non c’è bisogno che si arrabbi, lasci parlare anche gli altri, perché è così nervoso?”, che come anche i bambini sanno è un modo per far arrabbiare chiunque abbia un minimo di dignità. Non potendo, lui così ruspante, controbattere alle tesi dell’infettivologo, ha usato l’antica tecnica di infamare l’interlocutore additandolo agli occhi dei gonzi: “Se il professor Galli dice che il Paese è ipocrita…”.

La cosa in sé è talmente squallida e la figura di Bonaccini talmente indifendibile, a meno di non sembrare deficienti o in malafede, che infatti sui social c’è stata la corsa dei renziani a difendere Bonaccini. Ernesto Carbone, noto per il “ciaone” rivolto a chi era andato a votare al referendum contro le trivelle, ha insinuato: “Qualcuno può gentilmente promettere un seggio al Prof. Galli? Così la smette di fare politica con la pandemia”. Lo stratagemma, in sé auto-elidentesi (perché attacca l’uomo e non la sua tesi; perché finché Galli non si candida si tratta di un’illazione; perché è una fallacia basata sulla propria etica e la propria concezione della politica), richiama le tesi della destra complottista, per la quale c’è un potere mondiale, vaccinista e chiusurista, che simula una pandemia al fine di far comandare gli scienziati (che intanto, pare a noi, hanno sostituito i magistrati nel Walhalla degli orrori dei liberali). Del resto in giornata l’account Lega – Salvini Premier aveva rilanciato una card in cui Renzi dice che sta con Bonaccini, che il coprifuoco alle 22 non ha senso e che non bisogna lasciare questa battaglia a Salvini. Formidabile: la Lega, che è di bocca buona, utilizza le dichiarazioni di Renzi per farsi campagna elettorale (e questa è una notizia: vuol dire che non ritiene il personaggio screditato al punto da orripilare il proprio elettorato, ma abbastanza screditato da affascinarlo), e Renzi non si dissocia (e come potrebbe, la pensa esattamente come Salvini!). Battaglie di destra sostenute da politici di destra: non vi è attrito o dissonanza cognitiva, è tutto coerente. Salvini e Renzi sono da tempo d’accordo e i loro elettorati hanno molte affinità (nel 2016 Renzi disse di voler mantenere in vigore il reato di clandestinità perché c’era “una percezione di insicurezza”, cioè temeva di perdere voti), ma ultimamente, nell’horror vacui della sparizione e fintanto che c’è da ballare sui morti, i renziani sono indistinguibili dai salviniani. Che aspettano a mettersi insieme, magari con la benedizione di Verdini? L’1,9% a Salvini può far comodo: si sa che gli piace il salame, e poi del maiale non si butta via niente.

Chapeau!



EXPOD’ARABIA
Miracolo a Dubai: la copia del David è un’“opera nuova”
MICHELANGELO? - NARDELLA E LA STATUA DI RESINA

di Tomaso Montanari

“Firenze ha la vergogna di essere una di quelle città che non vivono col lavoro indipendente dei loro cittadini vivi, ma con lo sfruttamento pitocco del genio dei padri e delle curiosità dei forestieri. Non vivete per voi stessi la vita di oggi, ma siete continuamente occupati in questo ignobile esercizio: levare i quattrini dalle tasche degli stranieri, facendo loro vedere i rimasugli dei vostri celebri defunti. Se volete essere come i vostri padri, dovreste imitarli meglio: lavorare per arricchire e aiutare la nuova arte che sorge, invece di rabberciare e sfruttare quella passata, che ormai è morta e sepolta nei musei”. Sarebbero queste parole (pronunciate dal fiorentino Giovanni Papini nel 1913) la didascalia perfetta per la copia in scala naturale del David di Michelangelo che il ministro degli Esteri Di Maio e il sindaco di Firenze Nardella hanno appena recapitato all’Expo di Dubai, affogandola in un’imbarazzante orgia di retorica in cui la frase più sobria recita “la sua immagine contribuirà alla rinascita dell’Italia”. D’altra parte, non era facile per Nardella essere all’altezza del predecessore, che ha appena venduto un Nuovo Rinascimento ai vicini dell’Arabia Saudita (in cambio di un modesto appannaggio annuo).

Ma il sindaco purtroppo non si è fermato qua, rivelando a una folla attonita che “il segreto (del David) è la luce interiore: il segreto dell’anima, una bellezza spirituale che riveste il corpo atletico e che trascende l’umano e che rifugge anche in questo gemello, forse una nuova opera”. Ed è un vero peccato che gli arabi non abbiano potuto apprezzare le fonti del geniale pastiche rappresentato dalle parole del coltissimo sindaco: un po’ Mario Luzi, un po’ dottor Armà (l’indimenticabile mercante d’arte televisivo creato da Corradi Guzzanti). Il culmine è certo nel finale, dove una copia in resina rivestita di polvere di marmo (la versione monumentale dei souvenir che infestano Firenze: un oggetto kitsch che Michelangelo avrebbe distrutto a martellate con terribile sdegno) assurge al ruolo di “opera” – ma solo “forse”.

Non pago, il primo cittadino della povera Firenze ha aggiunto un finissimo affondo iconologico: “Michelangelo volle eliminare da quella statua tutti i simboli della violenza”. Dove ci si chiede cosa Nardella pensa che sia l’oggetto che il David sorregge con la sinistra (che è la fionda con cui uccide Golia): forse un rotolo di carta igienica?

Ma la censura della violenza inseparabile dall’intenzione originale di questa statua potrebbe avere una ragione più seria: potrebbe perfino rappresentare un freudiano ‘ritorno del represso’. La psicologa dell’arte Miriam Mirolla, infatti, ha notato come “portare il David di Michelangelo a Dubai, un nudo di 5 metri, sia l’ennesimo atto di noncuranza nei confronti di una cultura in cui lo sguardo e la rappresentazione del corpo sono tabù”. In effetti, proprio mentre si dichiara (in modo del tutto gratuito, arbitrario, antistorico) che il David sarebbe un manifesto contro ogni violenza, si compie la (piccola ma fastidiosa) violenza di imporre agli arabi un’immagine clamorosamente incompatibile con la loro sensibilità culturale. Sono gli incidenti che succedono a chi pensa di servirsi di storia, arte e cultura senza conoscere storia, arte e cultura. La scelta più sensata sarebbe stata quella di commissionare a qualche giovane artista italiano un’opera capace di mostrare che la nostra cultura non è una stella morta che continua a brillare: laddove c’è invece qualcosa di malato (qualcosa di morto) nel farci rappresentare dalla copia di un’opera di 500 anni fa. E una delle conseguenze è proprio l’incapacità di guardare al presente, di dialogare davvero con le altre culture, di aprirsi allo scambio e alla diversità. L’incapacità di ascoltare l’altro e di mettersi in gioco, invece di continuare ad affermare perentoriamente una identità immutabile, buona per tutte le latitudini e tutte le occasioni – un’identità, peraltro, mille volte e in mille modi rinnegata e tradita.

Proprio a causa dell’ostruzionismo di Renzi e Nardella, i musulmani a Firenze non hanno una moschea in cui pregare: perché un minareto avrebbe turbato la cartolina del Rinascimento di cui parlava Papini. Ora, finalmente, pare che il Comune si stia dicendo possibilista: ma se verrà applicata la stessa logica con cui si è portato il gigante nudo a Dubai, c’è da aspettarsi che il sindaco chieda all’imam di decorare la moschea con un crocifisso: copia di quello di Michelangelo, ovviamente.

Travaglio!


Ora e sempre Resistenza

di Marco Travaglio

Manca un giorno alla nuova Dittatura Sanitaria e nessuno dice nulla. Nove giorni fa, tomo tomo cacchio cacchio, il Consiglio dei ministri ha deciso che lo stato di emergenza vigente dal 31.1.2020, anziché scadere il 30 aprile durerà almeno fino al 31 luglio. E i partigiani di Lega, FI e Iv, che fieramente si opposero alle precedenti proroghe del duce Giuseppi, sono scesi dalle barricate e hanno votato a favore. E i giornaloni, che l’anno scorso conducevano un’eroica Resistenza contro le due proroghe del caudillo di Volturara Appula, ci abbandonano alla terza. A luglio l’Espresso denunciava in copertina lo “Stato di Cont-ingenza” del satrapo che “vuole allungare l’emergenza per tutto l’anno” e “trasforma la fragilità del suo governo nello strumento per conservare il potere”. L’emerito Cassese lanciava sul Corriere uno straziante grido di dolore: “Non dimentichiamo che Viktor Orbán cominciò la sua carriera politica su posizioni liberali”, “Lo stato di emergenza è illegittimo perché l’emergenza non c’è”. E La Stampa titolava un editoriale di Cacciari “Un’illogica dittatura democratica”. Poi a ottobre il nuovo golpe dell’Orbán con la pochette, con la scusa della seconda ondata di sua invenzione: “Emergenza non c’è”, tuonava il subcomandante Cassese a Omnibus.

A dicembre l’italovivo Rosato invocava “un cambio di passo” perché “Palazzo Chigi ha abusato dell’emergenza”. Il 20 dicembre, con 553 morti in 24 ore, Cassese denunciava sul Messaggero le “misure non previste dalla Costituzione e dettate in nome dell’emergenza che tale non è”. Antonella Boralevi fremeva di sdegno: “Il potere ci tiene da un anno, come un regime sudamericano, in uno stato di emergenza”. Galli della Loggia, sul Corriere, diceva basta “forzature, colpi di mano e personalismi” di Conte. Lawrenzi d’Arabia si sgolava: “Non abbiamo tolto i pieni poteri a Salvini per darli a Conte” (battutona ripetuta a pappagallo dal trio Faraone-Bellanova-Boschi). Poi il semprevigile Domani: “Non solo Recovery: ecco i pieni poteri di Conte”. Ancora l’Innominabile, in trasferta su El País: “Conte non ha il mojito, ma vuole pieni poteri come Salvini”, è “un vulnus democratico”, “la Costituzione non è una storia su Instagram”. E il Corriere che rilanciava un dotto studio della Fondazione Leonardo (presieduta nientemeno che da Violante): “Cesarismo e task force”. Il golpe era alle porte, ma fu sventato dalla Liberazione dei Migliori. Che però ci regalano altri tre mesi di emergenza. E la Resistenza dov’è? Cassese che fa? I due Matteo disertano così? I giornaloni mollano sul più bello? Ragazzi, vi vogliamo belli tonici come un anno fa. Resta un giorno per ripristinare la democrazia. Non deludeteci.

Ancova tu!

 


Sta inanellando una serie dal sapore d'infinito, di figuracce meschine, tra cui l'ultima, lo scaricamento totale delle responsabilità a Paratici, attorno al comicissimo caso Suarez e il suo esame d'italiano. 

Conferma lo stile del casato, celebre nel mondo per fagocitare risorse, più che altro grano fresco da stivare in inimmaginabili forzieri, concedendosi quel tocco di regalità e snobismo suggellato dalla tanto adulata "evve moscia". 

Come giaguari, loro soavità sabaude, restano pervicacemente all'erta, pronti a sganciarsi dai fidi collaboratori adulanti in caso d'intoppo, addossandogli con eleganza responsabilità e guai, strenuamente protesi come da sempre sono nel convincerci della loro eterea estraneità, del distacco nobiliare dalle quisquilie tipiche di noi comuni mortali, sudditi paffuti da "loro grazie" rifocillati dalle brioche di famiglia. 

Tipico modus operandi dei riccastri: chiedere ai Benetton riguardo a Castellucci per intenderci!

mercoledì 28 aprile 2021

Voto del Cazzaro


Quindi il Codardo dopo averci sfracellato le gonadi con le fandonie al sapor destrorso contro il ministro Speranza, un grande uomo che ha retto alla grande la botta pandemica, ha votato contro la richiesta di dimissioni presentata dalla Sora Cicoria Nera, ed il perché ci è noto come il suo squallore: partecipare al grande taglio della Tortona europea. Complimenti per la performance, Cazzaro!

Siamo ridotti così!

 

E poi mi dicono che sognare un comunismo buono, che potrebbe esistere, sia un'insana speranza di uno che ha la testa fra le nuvole! Spero che questo insulso capitalismo becero e deleterio prima o poi scompaia! 

Il piano di Pfizer post-pandemia: rincari del 900% sui vaccini. Una dose costerà fino a 175 dollari

Big Pharma - Entro fine anno Biontech, Moderna e AstraZeneca fattureranno oltre 35 miliardi di dollari

di Stefano Vergine 

I numeri da tenere a mente, quelli utili per capire quanto potrebbero costare in futuro i vaccini anti-Covid, li ha svelati lo scorso 2 febbraio Frank D’Amelio. Durante una riunione con gli analisti delle più importanti banche d’affari al mondo, il responsabile finanziario di Pfizer si è lasciato andare. “Voglio solo avere una migliore percezione per il medio e lungo termine, quando il Covid passerà da essere considerata una pandemia a un’epidemia”, ha chiesto Jason Eron Zemansky, uno dei vicepresidenti di Bank of America Merrill Lynch. “Jason, ti rispondo così – ha esordito D’Amelio – inizio spiegandoti come funzionano i margini attuali, e poi passo a come possono funzionare in futuro. Per i margini attuali, diciamo, siamo in un momento di prezzo pandemico. L’unico prezzo che abbiamo pubblicato è quello applicato agli Stati Uniti, cioè 19,50 dollari per dose. Ovviamente, questo non è il prezzo a cui normalmente vendiamo un vaccino, che invece è 150-175 dollari per dose”.

Durante le riunioni con gli analisti, le parole pronunciate dai manager di una società valgono miliardi. Possono fare impennare o crollare il titolo in Borsa. E quelle di D’Amelio avevano tutta l’aria di voler ingolosire la platea degli investitori. L’uomo dei conti di Pfizer non ha detto esplicitamente a quanto verrà venduto il vaccino una volta che quella da coronavirus verrà declassata da pandemia a epidemia, ma ci ha tenuto a dare dei prezzi di riferimento. Se il vaccino anti Covid venisse messo sul mercato a una cifra compresa tra i 150 e i 175 dollari per dose, come ha lasciato intendere il manager, l’aumento rispetto a oggi sarebbe di circa il 900%.


Nel frattempo, le case farmaceutiche possono già fregarsi le mani. Dei cinque gruppi occidentali che stanno commercializzando i vaccini, solo tre hanno pubblicato dati sulle prospettive di mercato per il 2021: si tratta di Astrazeneca, Moderna e Pfizer/Biontech. Nel complesso contano di fatturare almeno 35 miliardi di dollari entro fine anno con le vendite dei rispettivi vaccini anti-Covid.

Non male, soprattutto considerando che le stesse imprese hanno beneficiato di 10,9 miliardi di dollari di sussidi pubblici per la ricerca dell’antidoto. A fatturare di più saranno Moderna e Pfizer/Biontech (33,2 miliardi in totale), che vendono a prezzi molto più alti rispetto ad Astrazeneca. Lo dicono i contratti firmati dalle tre aziende con la Commissione europea tra agosto e novembre dello scorso anno, quelli validi per le prime forniture: Astrazeneca ha venduto il suo vaccino a 2,9 euro per dose, Pfizer/Biontech a 15,5 euro, Moderna a 18,8 euro. Secondo uno studio pubblicato nel dicembre scorso da alcuni ricercatori dell’Imperial College di Londra, i costi di produzione dei vaccini a base Rna messaggero (come quelli di Pfizer-Biontech e Moderna) variano dai 60 centesimi ai 2 dollari a dose.

Di conseguenza, visti i prezzi di vendita, i profitti per le compagnie saranno alti. “Dato il notevole afflusso di denaro pubblico per la ricerca e sviluppo di questo vaccino e i costi probabilmente molto bassi per la commercializzazione – ha scritto Oxfam International in un rapporto pubblicato il 22 aprile – una stima ragionevolmente prudente è che Moderna e Pfizer beneficeranno di un margine di profitto netto del 25-30% da questo vaccino”. Tradotto: Moderna potrebbe registrare quest’anno un utile netto di circa 5 miliardi di dollari, mentre Pfizer e Biontech dovranno accontentarsi (si fa per dire) di spartirsi equamente 4 miliardi di dollari di profitti. Queste cifre, ha scritto l’ong nel suo report, stridono con i numeri delle persone vaccinate nel mondo. Mentre nelle nazioni ricche attualmente una persona su quattro ha già ricevuto la puntura, in quelle più povere il rapporto è infatti di un vaccinato ogni 500 persone, ha calcolato l’Onu. Ribattezzata apartheid dei vaccini, secondo molti esperti questa situazione potrebbe essere alleviata se i brevetti venissero liberalizzati, almeno fino al termine della pandemia.

L’idea è stata proposta all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) dai governi di India e Sudafrica e ha ottenuto l’appoggio di 175 tra ex capi di Stato (tra i tanti Gordon Brown, Francois Hollande, Mikhail Gorbaciov, Romano Prodi, Mario Monti) e Premi Nobel (come gli economisti Joseph Stigltiz e Muhammad Yunus e l’immunologa Francoise Barre-Sinoussi). Avanzata sei mesi fa, all’ultima riunione del Wto è stata bocciata da alcuni membri importanti, tra cui Ue e Usa. Ora però la proposta ha ricevuto l’appoggio dalla Casa Bianca.

Proprio ieri si è saputo che la rappresentante Usa per il Commercio, Katherine Tai, lunedì ha parlato del tema con i vertici di Pfizer e Astrazeneca. Un incontro che anticipa la riunione del Wto programmata per il 30 aprile, dove gli equilibri potrebbero per la prima volta cambiare rispetto agli ultimi mesi.

Restando sui numeri, le prospettive di guadagno di Big Pharma si basano sulle stime di fatturato pubblicate dalle varie aziende a febbraio. Nel frattempo, i prezzi di vendita dei vaccini sono già aumentati. Pfizer, ad esempio, nel contratto firmato con la Commissione europea nel novembre dell’anno scorso aveva previsto che, “per ogni ordine aggiuntivo effettuato e concordato” dopo il via libera dell’agenzia europea Ema ma entro i due anni dalla firma, il prezzo sarebbe stato di 17,50 euro.

Un aumento di soli due euro rispetto alla prima fornitura (venduta a 15,50 euro), che moltiplicato per le dosi nel frattempo acquistate da Bruxelles promette però di fare la differenza sui bilanci della joint venture tra l’americana Pfizere e la tedesca Biontech. Basti dire che, come ha ribadito pochi giorni fa Ursula von der Leyen, la Commissione europea sta negoziando con Pfizer-Biontech un contratto di fornitura da 1,8 miliardi di dosi.

Se il prezzo pattuito fosse di 17,5 euro, le due compagnie incasserebbero la bellezza di 31,5 miliardi. Con un margine di profitto netto di circa il 30%, significherebbe un utile netto di quasi 9 miliardi e mezzo di euro. Da aggiungere a tutto quanto già incassato finora.

Sempre un grande Dibba!


Stamani sul far dell’alba ho commentato anch’io la notizia dello sperpero aereo della Viendalmare. Di certo il Dibba è stato molto più bravo di me! Chapeau!


di Alessandro Di Battista 

Maria Elisabetta Alberti Casellati “Vien dal mare” è la Presidente del Senato. L'art. 54 della Costituzione della Repubblica (costituzione spesso dimenticata da quelli che, a chiacchiere, la descrivono come la più bella del mondo) dice: «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Disciplina e onore. Ebbene credo che dare l'esempio abbia a che fare con l'onore. Si tratta di etica politica.

La “Contessa” Elisabetta Alberti Casellati “Vien dal mare” nell'ultimo anno ha utilizzato un numero record di voli blu. E' salita a bordo del Falcon 900 del 31°stormo dell'aeronautica militare ben 124 volte. Missioni all'estero? Appuntamenti istituzionali imperdibili? Ma quando mai! L'aereo blu l'ha utilizzato, per di più, per il tragitto casa-lavoro, lavoro-casa. Rotta Roma-Venezia, per intenderci. Eppure per quella tratta ci sono treni molto veloci a disposizione. Ma l'aereo blu è sempre l'aereo blu. A quanto pare la nobildonna ha utilizzato il Falcon anche per andare in vacanza in Sardegna. Dicono che abbia preteso con veemenza il posto ponte in traghetto ma era tutto pieno. Credo, ripeto, che la sobrietà nell'epoca drammatica che stiamo vivendo sia un valore.

C'è chi sostiene che queste siano “minchiate”. Per me non lo sono affatto. Pertini diceva: «i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi». Inoltre non è affatto vero che la sobrietà nell'uso di denaro pubblico non sia importante anche dal punto di vista economico. Leggo (oggi sul Fatto) che all'interno del Movimento 5 Stelle si stia discutendo sulla restituzione del TFR al termine della legislatura. Vi sembrerà assurdo ma quando la Camera mi bonificò 43.000 euro di “liquidazione” io fui felice nel restituirli. Giorni fa ho suggerito a tutti i parlamentari della Repubblica di destinare il 100% del TFR che prenderanno in questa legislatura ad un fondo a contrasto dell'usura. 43.000 euro x 945 parlamentari fanno 40 milioni di euro circa. Mica spiccioli. La mia proposta non ha sortito grande entusiasmo nei palazzi del potere.

Per tornare alla Casellati c'è chi sostiene che un'ora di Falcon costi tra i 5000 ed i 7000 euro. Se fosse così i voli blu della Casellati ci sarebbero costati circa 750.000 euro nell'ultimo anno. Poca roba di fronte alle centinaia di miliardi di euro del bilancio dello Stato forse. Ma tanti, davvero tanti, in un Paese dove le diseguaglianze crescono a dismisura.

P.S. Non vorrei rovinare l'atmosfera idilliaca e conformista della Pax draghiana ma se la Casellati avesse utilizzato davvero un aereo di Stato per le sue vacanze dovrebbe dimettersi all'istante. Nei paesi normali (dove oltretutto esiste un'opposizione) funziona così.

Anto’


Date lo scudo antistupidario a Super Mario

di Antonio Padellaro

A proposito del Recovery plan, Mario Draghi “professa ottimismo a patto che i tre cavalieri bianchi ‘onestà, intelligenza e gusto del futuro prevalgano sui tre cavalieri neri: la corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti’” (Repubblica). Ora, pur nutrendo grande fiducia nelle doti di SuperMario, si tratta davvero di un vasto programma con la differenza che la guerra ai corrotti e agli interessi costituiti (qualunque cosa ciò voglia dire) appartiene al mondo del possibile. Mentre, la presenza dei cretini è invasiva come quella degli ultracorpi: ti accorgi di loro quando è troppo tardi. Infatti, “sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione” (Carlo M. Cipolla nel suo fondamentale Allegro ma non troppo). Può anche darsi che esista una correlazione diretta tra la stupidità e gli interessi costituiti di cui sopra poiché, sempre secondo Cipolla, “tra burocrati, generali, politici e capi di Stato si ritrova la maggiore percentuale di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo è pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occupano”. Non ci addentreremo oltre nella complessità dell’argomento se non per segnalare al premier che danni evidenti alla sua azione di governo vengono causati dalla stupidità dattilografa. Ovvero dalla nutrita pattuglia di incensieri dell’informazione unificata che attribuiscono a Draghi eccezionali facoltà taumaturgiche tali da moltiplicare pani, pesci e vaccini, oltreché da ricostruire l’Italia più bella e più superba che pria. Non ci ispirano mediocri invidiuzze professionali visto che analogo allarme è riportato sull’ultimo numero dell’Economist: “Su Draghi aspettative irrealistiche, il presidente del Consiglio non è l’uomo dei miracoli”. Il settimanale britannico riconosce che l’Italia gode oggi di una maggiore autorevolezza sul piano internazionale, ma invita a non farsi troppe illusioni. Poiché “un conto è guidare una Banca centrale, un altro tirare fuori la terza economia dell’area euro fuori dalle secche”. Forse un efficace scudo antistupidario del premier sarebbe quello di tenersi a distanza dai soffietti. In fondo lui non ne ha bisogno. Proprio come Charles de Gaulle che amava dire: “Quando voglio sapere cosa pensa la Francia lo chiedo a me stesso”.

Apparentemente

 


Apparentemente siamo una repubblica solo sulla carta, perché, sappiamo bene tutti, tra noi vivono e vegetano monarchi impreziositi da spropositati privilegi. E tra costoro emerge la Regina, Ella, il diamante sfolgorante delle Istituzioni, la Viendalmare Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato e seconda carica dello Stato, dopo il Presidente Mattarella che Ella, bontà sua, vorrebbe il prossimo anno sostituire non potendo, per ragioni di eternità e nazionalità, concorrere al trono inglese.
E allora oggi Repubblica ci informa che la nostra principessa ha usato dell’aereo a lei dedicato con una frequenza tipica di chi, risiedendo su un’isola, utilizza il traghetto: da maggio 2020 ad oggi il Falcon 900 dell’Aeronautica (31° esimo stormo di Ciampino), a disposizione della seconda carica dello Stato, ha volato 124 volte, di cui 97 sulla rotta Roma - Venezia. Avrà a cuore, la reale Viendalmare, la drammatica subsidenza del nostro gioiello lagunare? No, la regale icona monarchica risiede e vive a Padova. Altre sei volte, ad esempio, l’aereo ha volato da Roma ad Alghero, nel mese di agosto, dove l’incardinata stava godendo del sacrosanto riposo estivo.

Nessuno è andato sulle nubi più di lei, guardate ad esempio gli ultimi voli riportati sempre da Repubblica riferite alle scorse settimane: il 2 aprile alle 10 il Falcon parte da Ciampino per Venezia, il 6 aprile da Venezia torna a Roma; il 9 da Roma a Venezia, il 12 ancora da Roma a Venezia per poi subito rientrare alla base e così, di nuovo, doppio tragitto in giornata il 16 e il 19. Questo mese i voli sono stati sinora 9, a marzo 16, a febbraio 11, a gennaio 11. Ma torniamo ad agosto 2020, il mese del libera tutti poi pagato a caro prezzo con la terza ondata: il 18 agosto il Falcon 900 si alza da Cagliari e raggiunge Venezia, alla due del pomeriggio. Quattro ore dopo riparte, destinazione Alghero. Una settimana dopo, siamo al 25, l’aereo decolla alle 9.18 da Roma con rotta ancora su Alghero, per poi ritornare in mattinata a Ciampino. La sera rifà la stessa cosa: alle 21.21 parte da Roma per la Sardegna, alle 22.22 decolla da Alghero e rientra alla base.

Che dire? Ogni regnante ha le sue richieste, le sue necessità dettate dal rapporto puzzasottoilnaso/perditadellarealtà. A noi non resta che augurarle un regno sempre più dorato e battagliero, come quando Ella inveiva assieme agli altri adepti contro il tribunale di Milano, reo di infastidire il comune boss, ora per fortuna pregiudicato, del quale la Viendalmare è emanazione e paladina.

Ottimo questo Feltri!

 

BUONGIORNO
Vent'anni
di Mattia Feltri
C'è stato un tempo in cui Grillini in Parlamento era un cognome, quello di Franco, oggi presidente onorario dell'ArciGay. Quando fu eletto nel 2001 dichiarò estinti due millenni di persecuzioni perché avrebbe proposto una legge contro l'omofobia. Ma al governo c'era il centrodestra, e la legge non si riuscì nemmeno a impostare. Nel 2006 però fu eletto Romano Prodi, e Franco Grillini disse ok, ora ci siamo, subito una legge contro l'omofobia. E invece, metti la sinistra al posto della destra, il prodotto non cambiò: niente legge. Negli anni, la sentenza «adesso subito una legge contro l'omofobia» è stata la più pronunciata nel Pd (e dintorni) dopo «Berlusconi ladro». L'hanno declamata Pierluigi Bersani, Rosi Bindi, Dario Franceschini, Matteo Renzi, Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Ignazio Marino, Livia Turco, Gianni Cuperlo, Walter Verini, Guglielmo Epifani, Barbara Pollastrini, Anna Paola Concia, Ivan Scalfarotto, Imma Battaglia, Aurelio Mancuso, Federica Mogherini, Andrea Martella, Monica Cirinnà, Maria Elena Boschi, Matteo Richetti, Peppe Provenzano, Andrea Orlando, e tanti tanti altri. Eppure, niente. E nonostante da quel 2006 il Pd (e dintorni) abbia espresso quattro presidenti del Consiglio, naturalmente Prodi, poi Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, e di un quinto, Giuseppe Conte, è stato l'incrollabile sentinella, insomma nonostante sia rimasto al governo per nove anni, quell'adesso per un motivo o per l'altro è sempre stato un dopo, e soltanto adesso assume il pieno significato di adesso, cioè adesso che se si fallisce è tutta colpa del medievale, oscurantista, omofobo Matteo Salvini.

martedì 27 aprile 2021

Imagination



Al momento sono contrarissimo agli aperitivi serali (chi li chiama apericene è un Facci) ma se mi invitassero questi due... l’unico vero problema sarebbe al ritorno: quello cioè di centrare il portone di casa; probabilmente ci riuscirei solo con l’aiuto del Cai!

Meditazione pandemica

 In silenzio, se volete, leggete questo articolo. E cercate di meditare. 


Qui dentro si muore, fuori si ride e si beve. E noi non sappiamo più che cosa dire

di Ordine dei medici di Firenze

È quasi notte, ma le tapparelle della finestra rimangono a mezza altezza. Stiamo cercando di salvare una donna di 50 anni, ha avuto una crisi. Non riesce più a respirare. Le infiliamo il tubo lungo la trachea per farle arrivare l’ossigeno. Dopo ore la visiera è appannata per il sudore, ma non possiamo sbagliare nessuna manovra. Ha il petto scoperto, le rimettiamo gli elettrodi. Osserviamo le luci verdi dell’elettrocardiogramma. Il Covid e la polmonite le stanno togliendo la vita.

Passa mezz’ora e ci chiama sua figlia da casa, vuole sapere come sta. Non possiamo mentire, ma non abbiamo una risposta, lei continua a chiedere. Rimane in attesa ed è un lungo silenzio che fa male al cuore. Nel corridoio ci sono poche luci accese, si sentono le sirene di un’ambulanza mentre si sta fermando davanti al pronto soccorso. Ci guardiamo attorno, le stanze sono tutte piene. Dovrà restare in attesa. C’è un’altra crisi cardiaca nella camera 3, due infermieri avvolti nella plastica blu corrono a dare una mano. In fondo al corridoio qualcuno ha acceso il televisore. Vediamo le piazze stracolme di ragazzi e manifestanti, mascherine abbassate, bottiglie in mano, resse. Grandi risate. Arriva un’altra ambulanza. Questa volta si è liberato un posto letto, un decesso nella stanza 11. Si ricomincia.

Diteci voi cosa dobbiamo fare. Qualcuno ci indichi la strada, perché come medici abbiamo sempre lavorato per curare una società che non vuole ammalarsi, che si rivolge ai professionisti perché ha paura di soffrire, di perdere i propri cari. È chiaro che ora le priorità sono cambiate o non si spiegherebbero le folle per le strade. La tutela della salute è uno dei pilastri della nostra Costituzione, ma quel principio sembra essere confinato solo nei reparti ospedalieri. Diteci cosa rispondere alle famiglie che ci chiamano, agli anziani rimasti soli che guardano fuori dalla finestra. Noi le parole le abbiamo finite.

La manna di Manna

 Lo ringrazio, dobbiamo ringraziare tutti Maurizio Manna, entrato da poco nel Comitato centrale di FOFI. Che cos'è Fofi? E' la Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, e durante una riunione Ettore Novellino, Presidente dell'Ordine di Avellino ha avuto l'ardire di rilasciare la seguente dichiarazione: 

"La categoria dei farmacisti dovrebbe innalzare un altare al virus, perché è grazie a Santo Covid se veniamo presi in considerazione."

E Maurizio Manna, complimentandosi con Novellino per "la grande sensibilità personale e professionale" di rimbalzo ha ribattuto: 

"Ringrazio Santo Covid perché sta dando un'opportunità incredibile ai farmacisti!"

Che dire? Manna ha evidenziato ciò che è sotto gli occhi di tutti, l'incredibile e forsennato lucro perpetrato da un anno a questa parte dei farmacisti ai danni della collettività.

Si dirà che se non ci fossero stati loro, il lockdown sarebbe stato molto più duro e difficile da superare. Balle. Ricordo ad aprile del 2020 la puntigliosa e carbonara attività di molti addetti che confezionavano bustine con dentro le introvabili mascherine che venivano vendute a prezzi da arresto, per loro e per chi le forniva. 

Manna ha scoperto un nervo atavico, scatenante in me un moto rivoluzionario e dal sapore inconfondibile di comunismo. Per me infatti le medicine e tutte le balle esposte in una qualsiasi farmacia dovrebbero essere vendute dallo stato centrale. Si lo so, è un'eresia, una fregnaccia, un'idiozia. Lo so. Ma lo penso seriamente. Certo, ci sarebbero molti meno milionari sulla nostra penisola, ma anche qui parlo con sincerità: non si starebbe meglio? 

Invece forgiamo e agevoliamo ricchi possidenti che sulle malattie fondono imperi economici. E questo lo ritengo una vergogna. 

Gente come Manna andrebbe messa in condizione di non nuocere più alla socialità. E ribadisco: farmacie di proprietà dello Stato che le concede in uso e gestione a laureati i quali, non dovendo correre dietro all'incasso, avrebbero più tempo a disposizione per fare i farmacisti, aiutando e supportando la clientela. 

Sognerò, può essere. Ma sognando mi allontano dal disgusto di vedere quotidianamente l'arsura di pochi sulla sofferenza di molti. E ho detto tutto! (cit.)   



E io che pensavo...

 

«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:

questa fortuna di che tu mi tocche,

che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».  

 

E quelli a me: «Oh creature sciocche,

quanta ignoranza è quella che v’offende!

Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.

 

Colui lo cui saver tutto trascende,

fece li cieli e diè lor chi conduce

sì ch’ogne parte ad ogne parte splende,

 

distribuendo igualmente la luce.

Similemente a li splendor mondani

ordinò general ministra e duce 

 

che permutasse a tempo li ben vani

di gente in gente e d’uno in altro sangue,

oltre la difension d’i senni umani; 

 

per ch’una gente impera e l’altra langue,

seguendo lo giudicio di costei,

che è occulto come in erba l’angue.

 

Vostro saver non ha contasto a lei:

questa provede, giudica, e persegue

suo regno come il loro li altri dèi.

 

Le sue permutazion non hanno triegue;

necessità la fa esser veloce;

sì spesso vien chi vicenda consegue.  

 

Quest’è colei ch’è tanto posta in croce

pur da color che le dovrien dar lode,

dandole biasmo a torto e mala voce; 


E io che credevo, che pensavo, che subodoravo! Forte e roccioso nella mia ignoranza atavica, preso da un sussulto motorio in sinapsi, l'ho già detto, ho iniziato a leggere la Commedia, Divina per molti ed anche per me. 

Orbene: che incontro nel VII canto infernale? Lei, la dea Bendata, bendata a coloro che ne sono inconsapevoli portatori arcisani. E questa spiegazione del Sommo si confà a ciò che avverto da 12 lustri a questa parte, si tra poco entro nei sessanta, altro che mezzo cammin di mia vita! - e cioè che Ella non ha vincoli, non rimpingua chi in apparenza ne è sprovvisto e richiedente, ma agisce "attua i suoi decreti" fulmineamente per soddisfare il piano, a noi oscuro, dell'Altissimo (cit.)

Conseguentemente mi accosto a quest'idea, prometto di non maledire più la Signora Dispensatrice, di non farla più irritare, anche se, il Poeta m'illumina su quanto sia inutile critiicare o maledire la fortuna; dice infatti: "ma lei è felice e non sente tutto ciò: lieta, insieme agli altri angeli, fa girare la sua ruota e gode la sua serenità." 

E allora è inutile adirarsi, per un gol non dato o nell'ammirar la ferraglia rombante del vicino con livore e la livrea dello sgocciolante spasimante di novelle virtù atte a soddisfare la richiesta al cielo di grazia per soverchiare ciò che il fato ha stabilito imperscrutabilmente.

Non mi sono adirato neppur io ieri sera nel veder lo scempio pallonaro della mia squadra del cuore, dilaniata dagli indomiti laziali! Non ho detto nulla a quei cagnacci un tempo squisitamente in tolda ed ora, immersi nel bagno chimico preannunciante un'altra stagione futura ad minchiam. Non ho inveito contro Theo ombra di sé stesso, né con Marione oramai cadavere, né col nero difensore trasformatosi in fuffa, in sbilenco idiota aprente strada più che un'ingegner di trafori, né al turco idiota e beota, un tempo lo avrei apostrofato così, funambolo di 'sta minchia. 

Nulla, proprio nulla, mi è uscito dal cuore. Tanto la dea Bendata non avrebbe udito nulla al proposito. Non resta che aspettare, silenti, sperando che il piano preveda qualche dolcetto anche per noi che navighiamo a vista, urtati in mille modi dal destino carogna. Ops!  


Sotto in area panda




Sotto i verdi compare il simbolo nelle rilevazioni settimanali di Chicco: sono al 1,9% ovvero prossimi all'estinzione, alla vaporizzazione dell'Era del Ballismo. Lui infatti sta già cercando lavoro fuori dai confini nazionali perché, okkeggioia, non se lo fila più nessuno! 
In alto i calici e in bocca al lupo per la tanto agognata, per noi, area panda! 

Cartabia Travagliata

 

Tuttotutto nienteniente
di Marco Travaglio
Più passano i giorni, più si conferma che i Governi di Tutti diventano subito Governi di Nessuno. Accadde a Monti, dieci anni dopo accade a Draghi. Presto, consegnato il Recovery e proseguita bene o male (più male che bene) la campagna vaccinale, i partiti che lo sostengono come la corda sostiene l’impiccato gli (e si) domanderanno: e mo’ che ci stiamo a fare? Il vaghissimo programma enunciato in Parlamento a metà febbraio richiede una decina di legislature. Quindi non finiremo neppure questa. Basta leggere la prima intervista concessa, anzi inflitta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia al povero Massimo Giannini, che non meritava un tale supplizio. Intervista che, intendiamoci, promette benissimo: se la Guardasigilli fa quello che dice, ci sono ottime speranze che non faccia niente, visto che in due pagine e mezza (23 risposte ad altrettante domande) riesce a non dire assolutamente nulla. E un governo con un partito guidato da un pregiudicato (FI), uno da un imputato (Lega) e uno da un indagato (Iv) meno si avvicina alla giustizia e meglio è per tutti.
Eppure di cose da raccontare, volendo, la Guardasigilli ne avrebbe avute: tipo quanti indagati, imputati e condannati ha incontrato nella sua lunga militanza in Comunione e liberazione, da Formigoni in giù. O quante parole (due? tre?) ha cambiato al piano Bonafede per l’utilizzo dei 3 miliardi di Recovery, che il suo predecessore non poté illustrare al Parlamento il 28 gennaio perché Iv, FI, Lega e centrini vari ne avevano preannunciato la bocciatura a prescindere, senza neanche leggerlo o ascoltarlo. E che ora, da lei fotocopiato e firmato con la tecnica del cuculo che nidifica in casa d’altri, è diventato uno splendore da affiggere a edicole unificate. Ma su questi dettagli la Cartabia Copiativa sorvola. In compenso approfitta del 25 Aprile, che non c’entra una mazza, per chiedere a tutti di “superare la tentazione dello scontro continuo”: quello che Giannini chiama “la guerra dei trent’anni”. Cioè il lungo inseguimento fra guardie e ladri che ha prodotto dal 1994 ottanta leggi ad personam per salvare dalla galera centinaia di potenti (soprattutto uno) allergici ai processi. Ora l’attacco sistematico, anzi sistemico degli impuniti ai loro giudici è soavemente descritto da colei che dovrebbe fermarlo come “scontro di idee e sensibilità diverse”, anzi “increspature”. Non è meraviglioso? Adesso però, a mettere d’accordo guardie e ladri, onesti e delinquenti, arriva il “metodo Cartabia”. Funziona così. Quando le chiedi se ha un’idea sulla prescrizione, lei risponde: “Ancora no”. E, se le domandi delle intercettazioni: “Per ora non le dico nulla”. Non è un amore?

Feltri ritrovato

 

BUONGIORNO
Il marmo della storia
di Mattia Feltri
La scelta di Joe Biden di chiamare il genocidio degli armeni col suo nome – genocidio – non è piaciuta ai turchi. Ai turchi non piace mai quando qualcuno, a proposito degli armeni, usa quella parola: genocidio. È un termine codificato, preciso, indica la volontà di distruzione di un gruppo per la sua appartenenza a un'etnia o a una religione. Gli armeni furono spazzati via in particolare negli anni della Seconda guerra mondiale, il novanta per cento fu ammazzato o cacciato dalla Turchia e più dei numeri potrà il testo di un telegramma spedito dal governo centrale alla prefettura di Aleppo – oggi in Siria, allora nell'Impero Ottomano. «Il governo ha deciso di eliminare completamente tutti gli armeni… senza riguardo per le donne, i bambini, i malati. Per quanto possano essere tragici i mezzi di sterminio… bisogna mettere fine alla loro esistenza». Molti storici concordano sul modello che il genocidio degli armeni costituì per i nazisti alle prese con gli ebrei, non soltanto nei metodi ma nei pretesti: per Hitler, gli ebrei erano la causa della sconfitta tedesca nel 1918 e, per i turchi, gli armeni lo erano del tracollo delle ambizioni turche, che speravano nella guerra per rifare grande il loro impero davanti all'Occidente malvagio. Riconoscere il genocidio significherebbe per i turchi riconsiderare la storia immutabile attorno a cui si consolano e ammettere di essere vittime un po' meno vittime e carnefici un po' più carnefici. Non è una loro esclusiva: è lo stesso processo mentale che, a ogni 25 aprile, da posizioni opposte ma con uguale eterna spossante pervicacia, muove i rossobruni italiani.

L'Amaca

 

Un uomo un’epoca
di Michele Serra
Ieri è stata una data storica per il nostro Paese. Grazie alle sedici apparizioni nello stesso giorno nei tigì della Rai, Antonio Tajani di Forza Italia ha raggiunto la sua milionesima presenza televisiva, superando Pippo Baudo, fermo a 999.999. Nel mondo, tra i personaggi ancora in attività, solo Bugs Bunny e l’Uomo Ragno possono vantare un record altrettanto impressionante: ma sono molto più anziani di Tajani.
Davvero imponente, ma ancora in via di classificazione, la quantità dei set impiegati da Tajani. Data la mole del materiale, si sono individuate alcune macro-categorie (piante ornamentali, porcellane, scorci di via, quadri e stampe, scaffali e librerie) che verranno usate per la mostra “Abitare a Roma negli anni Dieci e Venti”. La Manhattan Bank, sponsor dell’evento, il prossimo Natale regalerà ai suoi soci la strenna A Man, an Age: Antonio Tajani in Rome, Signs and Details (Un uomo, un’epoca: Antonio Tajani a Roma, segni e dettagli).
Tajani ha avuto la notizia dal presidente della Rai, Marcello Foa, che nel congratularsi con lui ha voluto sottolineare “il prezioso ruolo dei politici italiani nel riempimento dei telegiornali pubblici, sollevando la Rai dalla fatica di produrre giornalismo”. Non ha voluto rilasciare dichiarazioni, ma da fonti a lui vicine trapela, come è giusto che sia, grande soddisfazione. Pur con un repertorio così limitato (brevi frasi, a volte di senso compiuto), Tajani ha saputo intrattenere ogni giorno, per anni, un pubblico di ogni fascia sociale e di ogni età.
Nessuna dichiarazione dal suo grande rivale, Lollobrigida di Fratelli d’Italia, fermo a quota trecentomila. Ieri una modestissima apparizione, con misero logo di partito sullo sfondo, ha fatto pensare che il popolare Lollo abbia intenzione di abbandonare.

lunedì 26 aprile 2021

Montanari


PIETRE & POPOLO - IDEA DA RICCHI: FUGGIRE DAI POVERI
Tutte le Superleghe d’Italia: regioni, musei e università

di Tomaso Montanari

Anche per chi, come me, nulla sa di calcio, la stupefacente meteora della Superlega appare assai interessante. Intanto perché il suo epilogo conferma il cruciale ruolo politico che ancora riveste questo intrattenimento di massa: nella istantaneità con cui capi di governo come Johnson, Macron e Draghi sono intervenuti per bloccare questa ulteriore involuzione del sistema calcio, si legge la preoccupazione, quasi il terrore, delle “democrazie” per un’Europa in cui i cittadini-bambini cessino di essere distratti e appagati dal pallone. Il consenso, la pace sociale, la possibilità che tutto resti com’è (fingendo continuamente di cambiare): tutto il sistema riposa sul fatto che la palla non venga sottratta a un cittadino studiatamente mantenuto in stato di minorità.Ben altre sono le superleghe pronte a partire davvero, nella noncuranza dei più.

Partiamo dalla più somigliante a quella calcistica, una vera goccia d’acqua: l’autonomia differenziata delle regioni italiane. Non per caso nota anche (dal titolo del libro che le ha dedicato l’economista Gianfranco Viesti) come “secessione dei ricchi”, sottotitolo perfetto anche per la Superlega calcistica. L’idea è identica: in un certo sistema (in questo caso l’Italia) i più ricchi (in questo caso Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) decidono di giocare da soli, facendosi le loro regole e smettendo di condividere gioco, soldi e benefici con tutti gli altri membri del sistema. Il principio è semplicissimo, nell’eterna banalità del male: l’egoismo che diventa politica, senza mediazioni. Si salva chi può: da solo. C’è da sperare che il “no” che nessuno, nemmeno sui colli più alti, è stato capace finora di dire alla superlega delle Regioni italiane, l’abbia in verità detto la pandemia: che sta dimostrando (a così caro prezzo) il totale fallimento di una sanità divisa per venti regioni.

Ma altrove il modello superlega è già da tempo attivo, senza che nessuno abbia fatto una piega: anzi. Alludo alle istituzioni culturali italiane, le articolazioni del ministero (che ora sciaguratamente si chiama) della Cultura: i musei, i siti monumentali, le biblioteche, gli archivi. Dalla riforma Franceschini (2014) in poi la cultura italiana è stata organizzata in un sistema di serie, come il calcio: i musei sono la serie A, i siti monumentali la B, le biblioteche la C e gli archivi la D. Un sistema in cui, scendendo, si va, come sul Titanic di De Gregori, verso il dolore e lo spavento.

Ma non bastando questo colpo alla solidarietà di quello che la Costituzione chiama il “patrimonio storico e artistico della Nazione” è stata costruita una vera e propria Superlega: quella dei musei autonomi pigliatutto, che sono stati brutalmente asserviti alla politica ma in cambio hanno ottenuto il diritto di non condividere i soldi dei loro biglietti con i fratelli più poveri. Così oggi (o meglio ieri, prima della pandemia) succede che il Colosseo non sappia dove mettere i soldi (e infatti progetta di buttarli via nella dissennata ricostruzione dell’arena: a proposito di intrattenimento circense del popolo), mentre a pochi passi la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami vede rovinosamente crollare il tetto (2018) per mancanza di manutenzione ordinaria. La Superlega dei musei è questo: mors tua, vita mea.

È piuttosto stupefacente notare come per il calcio si sia parlato di “immoralità” con toni colmi di indignazione (come se poi Uefa, Fifa etc fossero il regno dell’etica…), mentre per la condanna a morte del patrimonio culturale “minore” del Paese nessuno (o quasi) abbia fiatato. Non è forse abbastanza evidente che è immorale anche inaugurare mostre da milioni di euro mentre nel cratere sismico dell’Italia centrale non ci sono soldi per evitare che piova sugli affreschi delle chiese ancora senza copertura?

Se la Superlega dei musei sembra ormai passata in giudicato, almeno per ora, c’è un altro ambito cruciale della cultura in cui da anni si prova a realizzarne una identica, per ora senza riuscirci: l’università. Il sogno proibito dei liberisti all’amatriciana che popolano i giornali italiani è quello di costruire una Superlega di atenei (del Nord) che abbiano i soldi per fare ricerca (al servizio del mercato), distinta per legge da una pletora di università di serie B che facciano solo didattica, cioè avviamento alle professioni. Un progetto che cementificherebbe la diseguaglianza cognitiva che già attanaglia il Paese, e sterilizzerebbe definitivamente quel poco di pensiero critico che ancora gli atenei riescono a produrre, a dispetto dell’aziendalizzazione imposta dalla Legge Gelmini e da una burocrazia della valutazione che sembra fatta apposta per distruggere la libertà del sapere.

L’ossessione di creare esclusivi (cioè escludenti) club per ricchi è uno dei riflessi condizionati di una società che ha fatto della selezione e del controllo l’unica religione. Nel calcio, questa volta, è stata stroncata sul nascere: ma in tutto il resto come andrà a finire?

Interessante Watson!

 

Destra clericale. Il cardinale Ruini adesso diventa misericordioso per assolvere il corrotto Formigoni

di Fabrizio D’Esposito

La nostra storia repubblicana è piena di politici cattolici corrotti: si pensi al suicidio inglorioso della Democrazia cristiana, che si schiantò sotto il peso delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli. Lustri dopo quel tempo, questa odiosa tradizione non si è affatto interrotta. Anzi. Ed epigono arrogante di questa schiera di cristiani devoti più a Mammona che a Dio è certamente Roberto Formigoni, governatore lombardo per vent’anni, dal 1995 al 2013, e condannato per corruzione per il “Sistema” della sanità.

In questi giorni si è fatto un gran parlare di lui. Dapprima il tribunale interno del Senato gli ha restituito il vitalizio, poi è uscita la sua monumentale biografia, oltre cinquecento pagine, raccontata sotto forma di intervista. Già democristiano e fondatore del Movimento Popolare, il braccio politico di Comunione e Liberazione, indi berlusconiano e alfaniano, Formigoni con il ponderoso volume sulla sua vita cerca ovviamente una riabilitazione a imperitura memoria della sua parabola di uomo pubblico. E per rafforzare la sua pretesa d’impunità si avvale di una densa prefazione del cardinale Camillo Ruini, condottiero della Chiesa italiana dal 1991 al 2007 che tanti guasti ha provocato con il suo interventismo politico.

Arrivato a novant’anni, Ruini non ha rinunciato alla lotta partitica e oggi è una piccola bandiera sventolata dai clericali di destra che in nome della dura dottrina osteggiano papa Francesco e la sua misericordia. Ossessionato dall’anticomunismo, l’ex presidente dei vescovi italiani dipinge con tratto enfatico il ciellino Formigoni e giunto alla fine liquida così la condanna per corruzione: “Termino con una brevissima riflessione personale: Roberto Formigoni è stato costretto a una conclusione traumatica e immeritata della sua esperienza politica. È stato un danno non solo per lui ma per quanti condividono con lui una certa visione dell’Italia e del suo futuro”.

Cioè il danno lo hanno fatto i magistrati a Formigoni, non lui ai contribuenti lombardi per “il sistema corrotto e corruttivo della sanità”, per il quale l’ex governatore deve risarcire in solido con altri rei quasi cinquanta milioni di euro. Ma a colpire è la traballante morale ruiniana, tipica dello zelo fariseo di quei clericali convertitisi dall’andreottismo al centrodestra, e che considerano la corruzione in senso assolutorio e machiavellico, ché il fine giustifica sempre i mezzi. L’esatto contrario di quanto per fortuna sostiene papa Bergoglio. Sono tante le sue uscite in questi anni contro i politici corrotti. Per esempio: “La corruzione avvilisce la dignità della persona e frantuma tutti gli ideali buoni e belli. Tutta la società è chiamata a impegnarsi concretamente per contrastare il cancro della corruzione che, con l’illusione di guadagni rapidi e facili, in realtà impoverisce tutti”. Ecco.

C’è poi un’altra invettiva francescana che fa dubitare evangelicamente del cattolico Formigoni: “C’è un fiuto cristiano per andare avanti senza cadere nelle cordate della corruzione”. Delle due l’una: o questo fiuto cristiano, l’ex governatore corrotto, non l’ha mai avuto oppure si è tappato il naso. Con la misericordiosa benevolenza di Ruini.

domenica 25 aprile 2021

Proverbio



“C’è sempre qualcosa o qualcuno che ti farà ringhiare!” (Antico proverbio berbero) 
A sinistra quella che sembra una scialuppa è lo yacht di Giorgio che ha già annunciato aumenti alla sua collezione per comprarsene un altro almeno alla pari di quello a destra, 97 metri che la scorsa settimana bloccò i canali olandesi)

Con tempo e voglia

 


Credo ne valga la pena leggersi quest'inchiesta su Repubblica sui baroni, bastardi, che soffocano giovani promesse. 


Agnese nel Paese dei baroni

di Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Antonio Fraschilla Luca Serranò e Corrado Zunino . Coordinamento multimediale di Laura Pertici



Vaffanculo barone». Con questo titolo fulminante, il 4 marzo scorso, viene condiviso sui social network un lungo articolo (dal più morbido titolo "On the barone") apparso sulla prestigiosa London Review of books , firmato da John Foot, storico e saggista britannico specializzato in storia italiana. È un amaro epitaffio della nostra università. Che ha il pregio di riassumere il senso e le ragioni con cui, da oltre mezzo secolo, decine di migliaia di giovani ricercatori prendono congedo dal nostro Paese. Siamo partiti dunque da quel "vaffanculo" per tornare a dare, ancora una volta, un nome, dei numeri, dei luoghi alla più intollerabile e silenziosa strage di intelligenza, speranza, merito che, ostinatamente refrattaria a inchieste della magistratura e sentenze di tribunali amministrativi, continua a selezionare in peggio la nostra classe dirigente e ci priva ogni giorno del nostro futuro. E siamo partiti da una ragazza (in un Paese per vecchi, si è tali fino all’alba dei 40) che di nome fa Agnese.

Una proposta indecente

«Spero che i termini della proposta tu li abbia capiti. Erano fondamentalmente politici, o strategici». «Politici», dice il professore di Statistica economica Roberto Benedetti, fiorentino, 56 anni, ordinario all’Università "Gabriele D’Annunzio" di Chieti-Pescara. «Proposta», dice ad Agnese Rapposelli, brillante candidata a un posto in dipartimento. Lui, accademico che conosce i modi dell’università italiana e presiederà la prossima commissione di Statistica economica, le ricorda: «Te l’ho offerto due anni fa e te lo rioffro adesso». Le ha offerto, e non si può rifiutare, di entrare in facoltà come ricercatrice, finalmente, dopo sette ricorsi al Tar, uno al Consiglio di Stato, uno, straordinario, al presidente della Repubblica. E due denunce in Procura.

Ci entrerà, questa volta attraverso un accordo. Vincerà il concorso di Statistica economica a tavolino, garantisce il presidente di commissione. L’importante è che Agnese ritiri l’ultimo ricorso firmato. L’accordo lo gestirà l’esperto professore ordinario. Parlerà con la collega, ostica. Poi dovrà curare gli altri statistici. «Devo metterli a posto — dice — perché anche loro hanno degli interessi». Farà un lavoro di tessitura largo e servono diversi complici: «Io, oltre a me stesso, rappresento tutto un sistema». Ci sono più bandi, davanti, per accontentare chi ci sta: «Tre posti in Statistica e uno in Statistica economica».

La conversazione tra Roberto Benedetti e Agnese Rapposelli viene registrata clandestinamente dalla ricercatrice nello studio universitario del professore la mattina del 29 maggio 2019. E quindi depositata quindici mesi fa dagli avvocati di Rapposelli alla Procura di Pescara. È un ascolto istruttivo (lo potete apprezzare nel longform pubblicato online), perché definisce con esattezza quello che è pane quotidiano nell’università italiana. I concorsi pubblici per diventare ricercatore o professore — e per ottenere un assegno di ricerca, una borsa di studio — sono gestiti dall’università che li ha banditi secondo schemi di convenienza, protezione, favore, interesse economico, familismo. Spesso — troppo spesso come documentiamo in questa inchiesta — per scegliere il miglior ricercatore e il docente più qualificato non si guardano i titoli conseguiti, i lavori pubblicati, le esperienze internazionali, la ricerca realizzata, la qualità dell’insegnamento. Al contrario, si impone al prescelto di entrare in una graduatoria parallela — «un sistema», come lo definisce Benedetti — che consentirà il suo ingresso definitivo in facoltà. Se e quando accadrà, a quali condizioni, lo decidono i baroni al vertice dell’ateneo. La conversazione, dunque.

«Non è una minaccia», assicura Benedetti alla ricercatrice, ma se l’offerta dovesse per qualche ragione essere declinata, «è assai difficile che tu vinca un concorso senza poi passare in magistratura». Già, l’università non tollera i ricorsi. «La soluzione a tutto ciò potrebbe venire solo ed esclusivamente se all’interno del mondo accademico viene fatto un posto per te». I posti si apparecchiano, non si vincono. L’accademico, infatti, promette: «Questo io ritengo personalmente di poterlo ottenere, la commissione la farei io». «Se non ti fidi», azzarda, «tutte queste cose te le segno col sangue ». La risposta della candidata, che respinge l’offerta — «la mia morale non me lo permette, questa non è università» — mette sul chi vive il professore. «Non ti sto offrendo nulla di illegale», abbozza. Semplicemente, «tu c’avresti il tuo bando sul tuo dipartimento senza pestare i piedi a nessuno ». Quindi, quasi in cerca di complicità, il richiamo paternalistico ad arrendersi alla realtà, di dismettere quell’approccio naif che non porta da nessuna parte. Soprattutto se sei figlia del popolo. «Io non sono figlio di professori universitari, però le cose, per ottenerle, ho dovuto imparare qual è il sistema (…) Tu sei più che matura e brava per ambire a una cosa del genere, quindi ti aiuto ad ottenere quello che tu da sola non potresti ottenere ». Agnese non ci casca e il commiato torna a farsi allora vagamente minaccioso: «È ben ovvio che in qualsiasi occasione io ti posso andare contro, lo devo fare, perché tu mi stai creando dei problemi», dice Benedetti. La candidata uscirà dalla stanza del prof e tornerà a lavorare (ha un contratto in scadenza, con l’università) e a studiare. Il Tar del Lazio, per due volte, il Tar Abruzzo, per tre volte, e il Consiglio di Stato nelle sentenze fin qui emesse, le daranno sempre ragione. Nei tre successivi concorsi, Agnese arriverà regolarmente seconda.


Il luminare di Agraria fuori dal recinto


«Insopportabile impersonalità delle università italiane: pochi baroni che insegnavano a masse di studenti sconosciuti, attorniati da piccole folle di petulanti e servili assistenti. Nel 1955 tornai in Italia come lettore. La mia impressione negativa fu fortissima. Avevo scordato quanto profonde fossero le differenze tra il sistema di educazione universitario negli Stati Uniti e in Italia. Il sistema italiano era una struttura a tre caste, in cui i pochi, e per la maggior parte anziani professori, occupavano la casta superiore, immediatamente inferiori a Dio, mentre un gruppo consistente di speranzosi e servili assistenti rappresentava la seconda casta, lo stato intermedio, e gli studenti, dei quali nessuno si occupava, costituiscono la base della piramide».

Franco Modigliani, l’economista che ha rivoluzionato la finanza moderna, Premio Nobel nel 1985, maestro, tra gli altri, di Mario Draghi, racconta quel che sa e quel che pensa dell’università italiana. Lo ricorda una biografia dal titolo

Avventure di un economista

(Laterza). Siamo appunto nel 1955. «Il rettore dell’Università di Roma mi definì, mentre in America ero già full professor, un giovine promettente, mentre il professor Corrado Gini, un "barone", in occasione di un convegno di economisti a Washington, ad un certo punto tirò fuori l’orologio dal taschino e mi chiese: "Senta, ieri mi si è rotto l’orologio, me lo potrebbe far accomodare per cortesia, e poi me lo fa recapitare in albergo?"». Il giovane Modigliani gli rispose che la richiesta avrebbe dovuta farla al garzone della portineria dell’albergo. L’allievo-assistente, fatto di una pasta differente, scrive e commenta: «Questa è una delle origini profonde della crisi italiana. Perché una classe universitaria e una classe dirigente che è stata selezionata in base alla sua capacità di subire umiliazioni, di non avere amor proprio, è quella che non è in grado di guidare l’Italia».

Sono passati 66 anni da quel lontano 1955. Ma l’Italia ha ancora i suoi baroni, e i suoi garzoni. E la classe dirigente di domani continua a essere misurata sulla capacità di subire umiliazioni o stringere il patto con Faust e il suo "Sistema". Sono un esercito di laureandi e post-laureati precari e disperati. Il professor Francesco Fedele, come raccontò

Repubblica ,

nel settembre 2013 allargò le porte del reparto di Cardiologia dell’Ospedale Umberto I di Roma a sei specializzandi obbedienti, tra cui uno che era diventato il suo autista personale. Il futuro cardiologo accompagnava il prof primario all’università, all’aeroporto, ai convegni, ma anche in salumeria. E non era un furbo lecchino, piuttosto un neoliberto senza via d’uscita. Raccontò un compagno a lui vicino: «Il cosiddetto autista del professor Fedele è lo studente con la media più alta del mio corso, una persona davvero in gamba che, emigrata da Lamezia Terme a Roma, indisponibile a una nuova fuga, è stata costretta a lavorare come uno schiavo in reparto e, quindi, ad abbassarsi al ruolo di autista. Chi rimane in questo Paese non è uno stupido, è qualcuno che crede che si possa migliorare, che questa decadenza sociale possa finire. Finora, è stato impossibile denunciare un professore e avere una possibilità di entrare con le proprie gambe in una scuola di specializzazione». Non solo all’Umberto I.


Per dire, c’è una guerra in corso all’Università di Foggia che ha portato il Dipartimento di Agraria, dopo un filotto di denunce e controdenunce, a sopprimere la facoltà esistente, il Safe — Scienze agrarie, degli alimenti e dell’ambiente — per crearne una nuova, Dafne, e lasciare fuori dal dipartimento bis, un recinto protettivo, i quattro contestatori che si erano messi di traverso. Sono due ricercatori e due professori ordinari. Uno degli insubordinati è Matteo Alessandro Del Nobile, ordinario del corso di Scienze e tecnologie alimentari, autore o coautore di oltre trecento lavori sulla scienza degli alimenti, ventisettesimo studioso al mondo per pubblicazioni nella sua disciplina. Quando la classifica diventò nota, il rettore Pierpaolo Limone disse entusiasta: «È un risultato che ci onora come Università di Foggia». Ora, su spinta degli accademici chiamati a rispondere dei loro bandi, e dei vertici universitari chiamati a rispondere della gestione dei fondi pubblici, il Magnifico ha chiuso il luminare e i suoi collaboratori in un dipartimento fantasma. «Devo tutelare la salute dei 56 docenti attaccati», ha spiegato Limone, «sono sotto stress». Il gruppo lasciato in disparte, dal marzo 2016, ha messo insieme quattro denunce alla Procura. Tre concorsi cuciti su misura o affrontati in violazione dei regolamenti universitari, e altro. L’altro ha messo in luce come «a volte il concorso è la moneta di scambio per ottenere cose più remunerative ». Quelle che, nel gennaio 2019, fa emergere la Finanza con un’informativa che ora è architrave della richiesta di rinvio a giudizio per diciannove docenti, tra cui il prorettore vicario in carica, Agostino Sevi, l’ex rettore Giuliano Volpe, il professor Gianluca Nardone, lui dirigente del settore Agricoltura della Regione Puglia, il direttore del progetto Antonio Pepe, il direttore generale dell’università, Costantino Quartucci. Le accuse sono, a vario titolo, di abuso d’ufficio, truffa, peculato.

Per il periodo 2011-2015, il ministero dell’Istruzione ha girato al Distretto regionale Dare 35 milioni di euro con lo scopo di finanziare cinque progetti dell’Università di Foggia di carattere agroalimentare. I quattro interni guidati da Del Nobile si sono accorti presto di alcune preoccupanti anomalie: l’Ateneo, di fronte alle loro richieste di spiegazioni, li ha estromessi dai lavori. «In modo illegittimo», accerterà la Finanza. Gli altri docenti e collaboratori sono rimasti dentro i progetti firmando atti d’impegno «vessatori, irrituali e penalizzanti». Le indagini hanno accertato, ancora, che molti professori avevano dichiarato attività di ricerca svolte in periodi, in verità, precedenti la loro nomina e che l’Ateneo aveva contabilizzato all’allora Miur costi mai sostenuti. Una truffa per 315 mila euro. Il Distretto agroalimentare regionale, il consorzio Dare appunto, aveva invece trattenuto per sé due milioni del rimborso spettante all’Università di Foggia. Una cresta di tutto riguardo.

Ancora: nei "Rapporti tecnici", necessari per indicare lo stato di avanzamento dei lavori, le attività descritte erano state pagate all’ateneo e svolte da altri. Qui si parla di 193 mila euro illegittimamente percepiti. E i rimborsi orari dei docenti per la ricerca — "time sheet" — erano stati amplificati con prestazioni mai avvenute (per altri 112 mila più 130 mila euro). Infine, l’università aveva attivato tre cottimi fiduciari in tre caseifici per la fornitura di prodotti lattiero-caseari. Le ditte, regolarmente pagate dall’Ateneo di Foggia, non hanno però fornito quello che era stato concordato. Qui il sovraccosto pubblico è stato calcolato in 52.500 euro. La contestazione globale, truffa e peculato, è pari a 2,8 milioni. L’ateneo avrebbe modificato in modo retroattivo la quota da trattenere e una parte di quei soldi è finita, dice la procura, negli stipendi dei suoi dipendenti. Tra loro, la sorella di Agostino Sevi. Il prorettore non ha mai pensato di dimettersi e il ministero dell’Istruzione non si è mai costituito parte civile.

Qualche numero

Il mondo accademico usa due argomenti per provare a smontare l’assioma che vorrebbe «i concorsi pubblici universitari non più credibili». Il primo: chi fa ricorso è chi non ha la forza per arrivare primo. Il secondo: non esistono dati per dimostrare in scienza e coscienza che l’università produca bandi su misura e commissioni aggiustate per pilotarne l’esito. In verità, un po’ di numeri esistono. Le sentenze della Giustizia amministrativa su contenziosi universitari dal 2014 al 2020 sono state più di 5 mila (fonte "Il diritto delle università nella giurisprudenza", Giappichelli editore). E nel triennio 2017-2020 sono aumentate del 40 per cento. Il presidente del Tar Lazio ha comunicato che solo nel 2015 ben 1.240 procedimenti di ricorso sono stati avviati per la procedura di Abilitazione scientifica nazionale (che consegna alle università docenti di prima e seconda fascia).

Alla fine del 2017 e all’inizio del 2018, per ragioni di pura sopravvivenza, sono nate due associazioni di contestazione dell’andazzo dei concorsi dell’alta formazione. E sono arrivati altri numeri. Il 10 novembre 2017, in uno studio legale di Trastevere, otto persone — tutte "vittime di università" — firmano lo statuto di "Trasparenza e merito". Due di loro, l’avvocato cassazionista Giuliano Grüner e il chirurgo Pierpaolo Sileri — che si candiderà alle elezioni del "4 marzo" con i Cinquestelle e diventerà viceministro alla Salute con il Conte 2, quindi sottosegretario con Draghi —, tra il 2015 e il 2016 avevano registrato minacce e profferte del rettore dell’Università di Tor Vergata, Giuseppe Novelli. Hanno fatto partire un’indagine che ora è a processo e, inedito nell’accademia italiana, hanno costretto un potente barone accusato di tentata concussione e istigazione alla corruzione a uscire di scena. Giambattista Scirè, tra i fondatori di "Trasparenza e merito" e oggi diventato amministratore unico, è a suo modo il simbolo della mala Università italiana. Ricercatore di Storia contemporanea, nove anni e quattro mesi fa vinse un concorso da ricercatore e docente (per tre stagioni) all’Università di Catania, sede di Ragusa. La commissione insediata gli preferì un’architetta, segretaria dell’ex preside del dipartimento di Scienze umanistiche. Scirè in questi nove anni e quattro mesi ha frequentato e vinto cause in tutte le sedi della giustizia amministrativa, ha ricevuto una lettera di solidarietà dal Quirinale, ha fatto condannare commissioni, ma è sempre fuori dall’accademia. Vive, in casa dei genitori, con un primo risarcimento fin qui utile a pagare gli avvocati.

L’associazione "Trame" oggi è partecipata da 670 studiosi che ritengono di aver subito un torto da un ateneo del Paese. Quasi sempre, un concorso. Hanno tra i 22 e i 75 anni, e una leggera prevalenza maschile. Sono professori (115), ricercatori (303), precarissimi assegnisti, borsisti, post- doc (252). Sono equanimemente distribuiti al Nord, al Centro, al Sud. Il 12 per cento combatte la sua battaglia dopo essere fuggito all’estero. In tre anni di vita, questa pletora di aspiranti acc ademici ha prodotto 3.180 segnalazioni, 750 delle quali sono diventate ricorsi amministrativi o esposti-denunce in procura. Gli associati di Trasparenza e merito si occupano di "bandi sartoriali", ovvero cuciti su misura a un candidato. Di chiamate per professori associati e ordinari senza libero accesso, eccessi di discrezionalità tecnica delle commissioni di concorso, titoli e pubblicazioni che non corrispondono a quello che ha richiesto il bando, elusione da parte degli atenei delle disposizioni del Piano anticorruzione in materia di sorteggio dei commissari, eccesso di potere del dipartimento rispetto alla valutazione della commissione del concorso. "Trasparenza e merito", tra l’altro, ha dato il là a inchieste profonde nelle Università di Firenze e Catania.

Catania, tutti parenti

«Alla fine qua siamo tutti parenti… D’altronde l’Università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città». L’ex rettore dell’Università di Catania Francesco Basile, intercettato dalla Digos quando era in carica, parlava così. L’ateneo di Catania, uno dei più antichi e grandi d’Italia, era come «una grande famiglia», dove il sangue fa premio sulla conoscenza, e l’appartenenza sul merito.

Proseguiva con questo incedere l’allora Magnifico, prima di essere travolto insieme ad altri due ex rettori, sette capi dipartimento e quarantacinque docenti dalla mega indagine coordinata dal capo della procura etnea Carmelo Zuccaro e dall’aggiunto Agata Santonocito che ne ha chiesto il rinvio a giudizio, a diverso titolo, per associazione a delinquere e per aver truccato e pilotato una cinquantina di concorsi per ricercatore, ordinario e associato. Le "famiglie" evocate da Basile sono quelle indicate dai cognomi dei "figli d’arte" in cui si inciampa nelle carte dell’inchiesta. Come Velia D’Agata, figlia dell’ex procuratore capo di Catania, Vincenzo D’Agata, che si è aggiudicata una cattedra da ordinario in Anatomia umana. Quando la sua idoneità stava per scadere, si è discusso come permetterle di scavalcare Sergio Castorina, che otterrà poi una cattedra analoga negli stessi giorni. Alla fine la soluzione si trova ricorrendo a una procedura di chiamata ristretta. Non prima, però, di incontri ai quali hanno partecipato Basile e lo stesso ex procuratore.

Ancora, come l’ordinario di Economia politica Roberto Cellini che fa notare l’inopportunità di chiamare il figlio del direttore del Dipartimento di Scienze politiche Giuseppe "Uccio" Barone, Antonio. Per l’ex direttore generale Lucio Maggio «non è che il figlio di Barone è un genio... Tutt’altro». Barone jr., alla fine, otterrà la cattedra di Diritto amministrativo. Come vincerà un’altra figlia e nipote d’arte: Alberta Latteri, il cui padre Ferdinando è stato anche lui rettore a Catania. Diventerà ricercatrice il 29 agosto 2017. Secondo i pm, dopo un interessamento dell’ex Magnifico Antonino Recca. L’allora rettore Basile ha spesso un ruolo chiave. Come per la chiamata a ordinario di Biologia. La scelta ricade su Massimo Gulisano, ma a quel posto ambisce anche Luca Vanella, un figlio d’arte: il padre è Angelo, noto docente dell’ateneo. Basile convince Vanella a non creare problemi: «Entro fine anno farai tu il concorso». E il giovane risponde: «Va bene, faccio un passo indietro». Se non si tratta di legami di sangue, è il vincolo dell’obbedienza che lo sostituisce. Sebastiano Granata diventa ricercatore perché così vuole il direttore Giuseppe Barone.

Il Sistema Firenze

E per ottenere il risultato, secondo i magistrati, viene messo in piedi perfino un finto convegno «sui volontari italiani in Russia» al fine di «anticipare le spese di vitto e alloggio» a una commissaria che doveva aiutare Granata.

Parlando con la Granata di possibili concorrenti al concorso, e quindi al suo piano, il professor Barone aggiunge: «Vediamo chi sono questi stronzi che dobbiamo schiacciare». Vince Granata e quest’ultimo manda un affettuoso sms al mentore: «Caro prof, mi ha confermato, una volta di più, non solo di essere un maestro fantastico, ma anche un vero papà». La famiglia è un passepartout ed è lessico. La famiglia è garanzia che passata la tempesta tutto si aggiusterà. Dopo l’inchiesta giudiziaria nell’ateneo è infatti calato il silenzio. Tutti gli indagati continuano non solo a insegnare (nessuno è stato sospeso), ma anche a ricoprire posizioni di vertice e qualcuno siede perfino nei nuclei di valutazione interni e nelle commissioni concorsuali. Il nuovo rettore, Francesco Priolo, non ha ancora fatto costituire l’ateneo nelle udienze preliminari come parte civile. Tutto tace.


«Sapevo a cosa sarei andato incontro, isolamento, solitudine, sospetti. Ma non potevo accettare il sistema». Nel 2014 il professor Oreste Gallo, associato di Otorinolaringoiatria a Firenze, denunciò per la prima volta l’esistenza di un grumo di potere capace di condizionare i concorsi a Medicina. A distanza di anni poco sembra essere cambiato, almeno a scorrere gli atti dell’inchiesta della Finanza che nel marzo scorso, con una raffica di perquisizioni eccellenti, ha terremotato l’ateneo fiorentino. Indagati il rettore Luigi Dei, i vertici dell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi e quelli del pediatrico Meyer. E con loro una rete di professori (tra cui Roberto Bernabei, medico di Papa Francesco) e primari che avrebbero tramato per alterare il normale percorso dei bandi e cucirli addosso al candidato scelto. «Siamo persone di sistema», diceva uno dei principali indagati, il professor Niccolò Marchionni, senza sapere di essere intercettato.

Un rifermento, quello al "Sistema", su cui i pm Luca Tescaroli e Antonino Nastasi hanno insistito a lungo durante gli accertamenti, finendo per ipotizzare l’esistenza di un’associazione a delinquere. Questa, esplosa lo scorso 4 marzo, è la terza inchiesta sui concorsi di Medicina dell’Università di Firenze negli ultimi cinque anni. «È una vecchia storia, e di certo non riguarda solo questa città», racconta ancora Gallo. «Non bastano i titoli e l’ambizione, c’è un muro invisibile che separa alcuni candidati da tutti gli altri». Il professore che ha fatto emergere la rete aggiunge: «Così come è costruita, la legge si presta a questo tipo di distorsioni. Nelle commissioni esaminatrici finiscono persone scelte dai dipartimenti, i gruppi di potere hanno gioco facile». Il primo esposto Gallo lo presentò dopo aver scoperto che i vertici della facoltà avevano anteposto altri concorsi a quello di ordinario di Otorinolaringoiatria. Un espediente per favorire candidati interni al dipartimento, cui si sarebbero prestati, secondo le accuse (il procedimento penale è ancora in corso), i vertici di Medicina e alcuni professori. Uno schema non troppo diverso da quello disegnato da quest’ultima inchiesta fiorentina, nella quale sono iscritte sul registro degli indagati ben 39 persone. Oltre all’associazione a delinquere, finalizzata a un numero imprecisato di abusi di ufficio, i pm contestano alcuni episodi di corruzione. Per questo motivo sono state chieste misure di interdizione per otto indagati, tra cui il rettore Dei, il professor Marchionni e il direttore generale dell’Ospedale di Careggi, Rocco Damone. Nelle carte si legge un dialogo del rettore dell’Università di Firenze con un docente: «C’è fior fiore d’inchieste della magistratura. Sono concorsi questi, ma t’immagini se si va a dire che si fa un concorso e si sa già chi viene?». In altri passaggi si scopre la reazione del gruppo di fronte alla candidatura a sorpresa di una concorrente in grado di scompaginare i piani, la professoressa Anna Linda Zignego. «Ci hanno mandato i link per accedere ai candidati… Oh… La femmina ha un curriculum pesante», dice la mattina dello scorso 13 novembre Marchionni sempre a Bernabei. «Prenditi molto tempo e scrivimi una lettera all’indirizzo di casa», replica l’altro, «che bisogna studiare con accortezza tutti…». La sera stessa Marchionni contatta Ungar per informarlo del curriculum dell’avversaria e delle valutazioni da lei ottenute in precedenti concorsi: «Si sono trovati esattamente con lo stesso problema, che hanno affrontato esattamente nello stesso modo, cioè dicendo quant’è brava, buona produzione scientifica, però non si riesce nemmeno a capire cosa ha fatto dal punto di vista clinico… Quindi, bisogna fare in quel modo lì». Fare fuori la candidata sottolineando la sua presunta fragilità sul piano della medicina applicata. Sono una quindicina i concorsi finiti sotto la lente, tutti manipolati, secondo le accuse, dallo stesso centro di potere. Agli altri restavano le briciole.

Il muro di gomma

La prova del nove della scientificità del "Sistema", della sua applicazione sistematica, è del resto in una ricerca italiana pubblicata su

Lancet.

Negli atenei della Toscana e nelle quattro grandi città di Roma, Milano, Napoli, Bologna il 94 per cento dei vincitori, dal 2010 a oggi, è stato un interno. Nel 62 per cento dei casi — qui si parla solo delle università toscane — si è presentato al concorso un solo candidato. Gli altri, sapevano che era inutile. Ammesso ce ne fosse bisogno, è la dimostrazione che la Legge Gelmini, che doveva combattere il baronato, è stata un fallimento plateale. L’"Osservatorio indipendente per i concorsi universitari" è associazione di tutela delle vittime di università nata in tempi recenti. Vede tra gli iscritti addirittura un rettore — Giorgio Zauli, Università di Ferrara — e ha rodato un metodo interessante. Laddove gli associati avvistano un "bando profilato", scrivono una lettera e con la posta certificata la inviano al rettore dell’università, al direttore di dipartimento, al presidente della società della disciplina coinvolta. Agli «illustrissimi professori» l’Osservatorio segnala: il bando «emanato dal Suo Ateneo» potrebbe contenere «elementi di irregolarità». Su 105 segnalazioni, hanno risposto 24 atenei. E in undici casi il rettore ha revocato, annullato, rettificato il bando. All’Università di Torino l’Osservatorio ha avvistato, nell’aprile del 2018, quaranta assegni di ricerca su ottantatré fuori standard. L’Alma Mater di Bologna fermò un concorso nell’ottobre 2018 e uno nel febbraio 2019. Poi, di fronte a tanta insistenza, l’università cambiò il regolamento sulle chiamate dei professori di prima e seconda fascia e non fermò più nulla. Marco Federici, presidente dell’Osservatorio, abilitato all’insegnamento in università ma precario della scuola, dice: «L’Università di Bologna nei bandi ha l’abitudine di attribuire un numero di punti enorme a compiti amministrativi interni, cosa che viola le pari opportunità tra tutti i candidati. Chi è stato ricercatore o associato a Bologna ha non pochi vantaggi in una chiamata a professore del proprio ateneo». Chiosa: «Il comportamento dimostra quanto sia grave concedere tutta questa autonomia agli atenei». Un problema centrale è che gli atenei italiani non ottemperano neppure alle indicazioni della magistratura amministrativa, a meno che un Consiglio di Stato, stufo di tanta sordità, non li commissari e si sostituisca alle commissioni indicate. La risposta di molte università alla contestazione crescente è quella di disattendere le sentenze, lasciarle in sonno. Di fronte a indicazioni precise dei giudici amministrativi, gli atenei non fermano i risultati dei concorsi censurati in tribunale, non riformulano i giudizi sui vincitori, non rifanno le commissioni.

Il caleidoscopio delle gestioni dei concorsi delle autonome università italiane è davvero fantasioso. Nella Firenze del processo Careggi, negli anni, soprattutto gli ultimi del rettore Luigi Dei, è passata liscia l’assunzione di quattro coppie — marito e moglie, compagno e compagna — nello stesso Dipartimento: Scienze politiche e sociali. Otto membri del ristretto corpo docente, fatto di 48 tra professori e ricercatori, sono congiunti. L’Università della Calabria ha provato a risolvere il concorso di Storia della filosofia antica in cui era stato riammesso un candidato che già aveva presentato titoli falsi rifacendo la classifica: la candidata arrivata seconda è stata retrocessa al terzo posto e il terzo è stato spinto al secondo. Il vincitore contestato, straordinariamente voluto dal Dipartimento, è rimasto vincitore. Al Consiglio nazionale delle ricerche si è andati oltre. Il Tar del Lazio ha disposto il riesame dei titoli di fronte al ricorso della chimica Clara Maria Silvestre. La commissione ha formalmente accettato, ma quando è passata alla rivalutazione per il posto da dirigente di ricerca ha introdotto nuovi criteri e ha lasciato Silvestre a 0,1 punti dal vincitore. È una battaglia che toglie il fiato, per chi la intraprende. E segna la vita. Michele Burgio, dialettologo di Palermo, il più giovane abilitato a professore associato in Italia nel suo settore, si è riparato a insegnare nelle scuole serali della sua città dopo essere stato isolato in facoltà. «Avevo contestato un concorso pre-assegnato all’allievo della presidente di commissione, uno sgarbo intollerabile», racconta. «Tutti gli amici del dipartimento mi hanno tolto gli inviti ai compleanni, la bicchierata di Natale e il saluto. Intorno a me, è calato il silenzio. Come se fossi morto». Dopo il primo ricorso, il Dipartimento ha rifatto il concorso e ha riassegnato la vittoria al protetto, solo con uno scarto inferiore. «Mi sono fermato nelle contestazioni, ma solo perché mi sono dovuto occupare della mia vita».

Messina, il commissario seriale d’esame

Salvatore Cuzzocrea, dal 2018, è il rettore di una delle università più complicate della storia repubblicana, Messina. Il farmacista, secondo titolo di laurea in Medicina ottenuto in un corso gestito tra Roma Tor Vergata e Tirana, è arrivato ai vertici dell’ateneo siciliano annunciando di volerlo liberare dai partiti. Nemici e ostacoli sono stati immediati, e hanno trovato terreno fertile nella prassi del neorettore di partecipare — in modo seriale — alle commissioni dei concorsi pubblici della sua università. Dal 17 aprile 2018 ad oggi (con i concorsi più rarefatti) Cuzzocrea, che nel frattempo è diventato vicepresidente della Conferenza italiana dei rettori (Crui), ha preso parte come membro a quattro commissioni nel suo settore scientifico disciplinare.

Nel 2017, da prorettore, fu presente in cinque procedure interne e due commissioni contravvenendo l’atto di indirizzo del ministero sul Piano anticorruzione, che prevede tre presenze al massimo. L’Autorità Anac suggerisce ai magnifici di astenersi e la Legge Gelmini chiede che i docenti chiamati a giudicare «non siano componenti dell’organo di direzione politica dell’amministrazione». Nel 2018 Cuzzocrea presiedette una procedura di passaggio a professore associata a cui partecipò una ricercatrice — valida, peraltro — che aveva condiviso con il rettore, suo testimone di nozze, un largo numero di pubblicazioni. Cuzzocrea mise a verbale il fatto che fosse coautore, nessuno sollevò obiezioni, ma sul punto due sentenze della magistratura amministrativa sono chiare: avrebbe dovuto evitare. Si difende Cuzzocrea: «Non ho mai violato la legge, ho sempre pensato che un rettore resta un professore ed è giusto che valuti gli studenti. Credo di avere il curriculum per farlo, visto che l’Università di Stanford mi posiziona tra i primi trenta ricercatori nel mondo. In futuro non parteciperò più a commissioni giudicanti».

Una riforma esiziale

Raffaele Cantone da procuratore della Procura di Perugia ha fatto emergere la grottesca illiceità dell’esame in Lingua italiana del calciatore uruguaiano Luis Suarez, la scorsa estate in predicato di passare alla Juventus. L’Università Stranieri di Perugia è arrivata a coltivare la possibilità di una truffa così grossolana perché da tempo, in nome dell’autonomia, i suoi dirigenti, a partire dall’ex rettrice Giuliana Grego Bolli e il suo direttore generale Simone Olivieri, si muovono calpestando regole e leggi e, non a caso, hanno fatto precipitare l’ateneo in un baratro di perdite di bilancio, rarefazione di iscritti e azzeramento di credibilità. Ebbene, proprio Cantone, da presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, aveva subito gli strali di una parte consistente del mondo accademico italiano per la sua azione normativa sul campo. Il magistrato il 26 settembre 2017 diceva a Repubblica:

«Quello universitario è un mondo suscettibile e capace di grandi difese corporative. Il rapporto professionale padre-figlio, ricorrente di per sé, in facoltà è forte. All’Anac arrivano diverse denunce e ci segnalano, soprattutto, conflitti di interesse che interverrebbero nelle scelte, nei giudizi, nelle promozioni ». Cantone segnalò la capacità di autoprotezione dell’accademia malata: «A mettersi contro il sistema nell’università si rischia. Dobbiamo constatare che negli atenei c’è un deficit etico e soprattutto un’abitudine a tollerare l’andazzo, a considerarlo parte del sistema. Anche le persone con più capacità, a volte, per sopravvivere devono sottoporsi a pratiche umilianti».

Il rettore dell’Università di Palermo, Fabrizio Micari, già candidato del centrosinistra alle ultime regionali, ritiene che le difese degli atenei dagli esterni, da chi è fuori da una scuola, siano legittime. Dice: «Nel mondo universitario la cooptazione esiste e non può essere considerata necessariamente un male. Il professore bravo è quello che crea scuola, accoglie e fa crescere i suoi allievi, nella logica rinascimentale della bottega. La cooptazione esiste in Germania e nel mondo anglosassone». La questione è che questi sono ancora concorsi pubblici, non chiamate all’anglosassone. Spiegatelo alle migliaia di giovani Agnese italiane.