Quel che è giusto…



Beh c’è da dire che al termine della cena non gli ha fatto pulire il locale e non l’ha neanche percosso…

L'Amaca

 

Razzismo e antirazzismo
DI MICHELE SERRA
Che cos’è il razzismo? Il razzismo è sottolineare l’etnia o la nazionalità di qualcuno quando fa comodo, quando rafforza i propri pregiudizi e attizza quelli altrui. E considerare irrilevante l’etnia o la nazionalità di qualcuno quando non è conveniente farlo, quando non giova alla propria causa.
Un caso di scuola è il Salvini. Prendete il suo post di ieri sull’assassino, reo confesso, della ragazza Verzeni: “Fermato Moussa Sangare, origini nordafricane e cittadinanza italiana… ”, e poi i soliti scontati bla bla sulla necessità di una “pena severa”. Provate a chiedere al Salvini se ha mai concepito un post siffatto: “Fermato Filippo Turetta, origini venete e cittadinanza italiana…”. O analogo post in occasione dell’arresto di uno dei tanti femminicidi italiani.
Credo che non capirebbe la domanda.
Oppure la riterrebbe pretestuosa, malevola, ostile, essendo invece una domanda oggettiva. Il cui senso è: o sottolinei sempre, in ogni caso, l’etnia dell’autore di un crimine, o non la sottolinei mai, perché se la sottolinei solamente nel caso il criminale sia milanista (se sei interista) o sia interista (se sei milanista) vuol dire che non ti importa un fico secco del crimine, tampoco della vittima: ti importa caricare quel crimine sulle spalle del “nemico”. Ti interessa usarlo a tuo vantaggio.
Di conseguenza: l’antirazzismo non consiste nel segnalare, con enfasi e puntiglio, i femminicidi commessi da italiani “ciento pe’ ciento”, come direbbe Abatantuono. Significa segnalare allo stesso modo e considerare ugualmente gravi tutti i crimini, chiunque li commetta.

Fuori di testa

 

Il mondo al contrario
di Marco Travaglio
Dài, dite la verità: lo sognavate un mondo dove hanno ragione contemporaneamente Trump, Orbán e Salvini? Bene, anzi male: questo passa il convento.
Ogni sincero democratico attende che in America qualche vero progressista, magari la Harris, pronunci questa normale, anzi banale frase: “Siamo più vicini a una guerra mondiale di quanto non lo siamo mai stati negli ultimi cinquant’anni”. Invece l’ha pronunciata Trump, e non potrebbe essere altrimenti: la vice di Biden fa parte della banda della Casa Bianca che da anni soffia sul fuoco della guerra mondiale.
Ogni sincero democratico attende che in Europa qualche vero progressista metta a posto Ursula von Sturmtruppen, Borrell e gli altri euro-squilibrati che ci stanno trascinando in guerra con la Russia e vogliono autorizzare Kiev a invaderla e a bombardarla con le nostre armi, perché non riescono a dire la verità a un ex comico che fino a sei anni fa tentava di far ridere fingendo di suonare il pianoforte col pisello: qualcuno che dia dello “sconsiderato furioso” a Borrell, denunci “la politica bellicista sbagliata, irresponsabile e pericolosa dell’élite occidentale che sta distruggendo l’Europa”, accusi Ursula di dire “sciocchezze” e auguri a lei e ai suoi compari di “scendere dal cavallo di battaglia o cadere giù”. Invece l’hanno fatto il ministro degli Esteri e il portavoce di Orbán.
Ogni sincero democratico attende che in Italia qualche vero progressista, per esempio Elly Schlein (Conte e Fratoianni lo fanno da un pezzo), dica a chiare lettere che il nostro Paese “appoggia Kiev, ma è contrario a ogni ipotesi di interventi militari fuori dai confini ucraini”. Purtroppo l’ha detto Salvini, costretto oltretutto a rimangiarselo dagli altri partner di governo che, da Crosetto di FdI a Tajani di FI, sono sulla stessa linea, ma temono rappresaglie su Fitto dagli euro-estorsori di Bruxelles. E il Pd? Mentre Tajani diceva una delle prime cose sensate della sua vita (“Le nostre armi vanno usate in territorio ucraino, l’Italia non è in guerra con la Russia”), il senatore dem Alberto Losacco lo accusava di “isolare l’Italia in Europa e spingerla tra le braccia di Orbán”. E l’esagitata Pina Picierno, incredibilmente vicepresidente del Parlamento europeo, accusava il ministro degli Esteri di “porre il Paese su un pericoloso crinale antieuropeo”: il tutto perché Tajani aveva osato ricordare che l’Italia ha una Costituzione che ripudia la guerra. Quindi i pidini, mentre si mettono in mostra raccogliendo le firme per la “Costituzione più bella del mondo” contro il premierato e l’autonomia, pensano che l’articolo 11 l’abbia scritto Orbán e che l’Europa sia nata per fomentare le guerre, non per abolirle. Ci vorrebbe Totò: poi dice che uno si butta a destra.

Poche ore…



A poche ore dalla chiusura del mercato estivo, il team tecnico del Milan, qui in foto, dopo aver venduto Kalulu ai rivali, preso in prestito secco Abraham (con diritto di riscatto sarebbe stato da normodotati) cedendo il volonteroso Salamella - che ci mancherà - ha perso la volata per Manu Kone - a causa del ritardo della distribuzione delle pastiglie - con la Roma, pare dall’immagine che stia decidendo su operazioni dell’ultima ora, improvvisate come tutte le altre, per rispettare le rigide regole del progetto Ibra-Cardinale: “Semper Semper ad minchiam!”

Elly Elly!

 

Vuoto sincronizzato
di Marco Travaglio
Siccome Elly Schlein, per imperscrutabili motivi che solo uno psicanalista bravo potrebbe scovare, ha deciso di imbarcare Renzi e di regalargli la scena agostana sparendo dai radar per tutta l’“estate militante”, i pidini si sono subito allineati: chi con entusiasmo (i tanti renziani rimasti a far la guardia al bidone), chi con la faccetta rassegnata (tutti gli altri). Li aspettiamo tutti al varco quando lo scorpione pungerà la schiena dell’ennesima rana che se l’è accollato: faranno come sempre, fischietteranno, perché ammettere di essersi fatti fregare da uno che ha già fregato tutti è più umiliante che confessare di aver creduto a Wanna Marchi e al Mago do Nascimento. La frase più in voga è che “il problema non è Renzi, sono i temi”. Giusto. Infatti sarebbe interessante sapere su quali temi il Pd pensi di governare con l’uomo, o meglio l’ometto, che abolì l’articolo 18 e fece il Jobs Act, la Buona Scuola, la schiforma costituzionale, due leggi elettorali incostituzionali (Italicum e Rosatellum) e il salva-frodatori fiscali, è il juke-box di Bin Salman e altri nobiluomini, vota le porcate melusconiane sulla giustizia con bavagli incorporati, governa in giunte di centrodestra, ha raccolto firme (le sue e quelle dei familiari) per abolire il Reddito di cittadinanza prima che lo abolisse col suo voto la destra, si oppone al salario minimo, strilla contro il Superbonus fingendo di non averlo votato, approva la commissione Covid per criminalizzare le politiche di Conte e Speranza fingendo di non averle votate, inventa complotti mediatico-giudiziari al cui confronto quelli di Sallusti sono roba seria, bersaglia i giornalisti critici con raffiche di cause civili che fanno impallidire quelle destronze e ha augurato la morte a tutti i partiti con cui è ansioso di allearsi. Si dirà: pur di mantenere il seggio e l’immunità, è disposto a rottamare tutto ciò che ha fatto, detto e pensato. Chi non crede in nulla può dire tutto e il suo contrario.
Ma la vera domanda è: in che cosa crede oggi il Pd? Se davvero, come si dice in giro, è il “più grande partito della sinistra europea”, possibile che in 10 mesi di mattanza a Gaza e ora pure in Cisgiordania non abbia ancora detto una parola chiara sui crimini di guerra di Israele e sul modo più efficace di sanzionarli, frenarli, o almeno dissociarsene (sanzioni, ritiro dell’ambasciatore, riconoscimento della Palestina, qualcosa)? Possibile che, dopo due anni e mezzo di guerra fra Russia e Ucraina, non pronunci mai la parola “pace” unita a qualche proposta credibile che non sia la guerra e a qualche voto coerente in Italia e in Ue? Ovvio che poi, in questo vuoto pneumatico, il ritorno o meno di Renzi si riduca a una questione di nomi anziché di idee: perché le idee non esistono, o, se esistono, le hanno nascoste benissimo.

Ritratto

 

Raffaele Fitto fitto: dalla Dc al Pnrr, in missione per sé
IL MINISTRO DAI PLURI-INCARICHI - Nato fedele. Giorgia lo comanda con la sola forza dello sguardo. Dalla seconda rata in poi del Piano di Ripresa, gli ha ordinato di annettersi tutti i rubinetti di spesa Ha obbedito. Ora lo manda a Bruxelles
DI PINO CORRIAS
Raffaele Fitto se ne sta fermo in cima alle verdi valli del Pnrr nazionale, a farsi vento. È vivo e vispo, più o meno come una pala eolica. Non solo perché ne ha la statura e la vivacità nello sguardo, ma perché produce da fermo una costante quantità di energia che gli consente, ogni anno da trent’anni, di amministrare la propria biografia grazie a un’ostinazione familiare e a un karma doroteo che lo portano sempre un po’ più in alto, senza spettinarlo mai.
Stavolta – per volontà di Giorgia Meloni, messa con le spalle al muro dalla sua ex amica Ursula – la sua destinazione sarà il nuovo parco eolico di Bruxelles, magari non proprio in prima fila, pazienza, sicuri tutti che saprà rendersi utile e ubbidiente come sempre: sbarbato, profumato, di scuro vestito, con la cravatta azzurra che indossa dalla prima comunione in poi.
Giorgia lo comanda con la sola forza dello sguardo blu, meglio di una scudisciata. Dalla seconda rata in poi del Pnrr, gli ha ordinato di annettersi tutti i rubinetti di spesa. Ha ubbidito, infischiandosene dei cento nemici che si accatastavano alla sua porta di ministro plenipotenziario, accusandolo di essere “troppo accentratore”. Proteste alle quali rispose con l’arietta del bimbo che dice “non lo fo per piacere mio”. Subito dopo la ducetta gli ha comandato di smontare le architetture contabili pensate dal geometrico Mario Draghi, stabilendo, con il decreto Sud, la sua sola titolarità su ogni finanziamento a regioni e comuni, per il massimo dispetto di Matteo Salvini che a ogni giro di pala eolica del suo rivale, riempie il tempo vuoto ideando scempiaggini sui social e costruendo castelli di sabbia sulla risacca, solidi quanto la sua Autonomia differenziata e il suo Ponte.
La storia di Raffaele, nato proprio in queste ore il 28 agosto 1969, è un apologo delle radici. Le sue sono quelle antiche e solide della Democrazia cristiana e del paesone che gli regalò i natali, Maglie, provincia di Lecce, quello che nella piazza Aldo Moro, celebra il monumento al concittadino Aldo Moro che pensa e guarda lontano, ma così lontano, da avere una copia dell’Unità in tasca, come a dire che (in fondo) Mario Moretti non aveva sbagliato bersaglio.
Babbo e mamma, Salvatore e Leda, erano democristiani di massimo potere. Il padre imprenditore, prima fu sindaco di Maglie poi presidente della Regione Puglia. Tutto cancellato dal cattivo destino di un incidente automobilistico sulla statale 7 verso Brindisi, all’ora del tramonto, morti lui e l’autista, finiti a super velocità dentro a un camion.
Raffaele quel giorno compiva 19 anni. E rovesciò il suo modo di stare al mondo, niente più calcio, motociclette, ragazzine e prepotenze di svagata gioventù. Disse: “Da quel giorno la mia vita ebbe uno scopo”. E lo scopo fu quello di riempire il vuoto familiare con la politica a tempo talmente pieno da essere eletto in Regione, in capo a un anno, diventando prima il più giovane consigliere della Puglia. Poi addirittura il più giovane presidente della Puglia, anno 2000, stesso scranno del padre, ma con un potere maggiore, vista la sua capacità di presidiare le massime turbolenze di quegli anni, migrando da un nuovo partito all’altro senza mai spostarsi troppo dal suo piedistallo: prima la Dc di De Mita, poi il Partito popolare di Martinazzoli, quindi il Centro di Buttiglione, poi la valanga azzurra di Berlusconi, fino alla fiamma di Giorgia, anno 2019, ultimo giro di pale, per il momento.
Lui e lei si conoscono nel 2008, durante il quarto governo Berlusconi, lei ministro della Gioventù, lui degli Affari regionali, lei a recitare il copione dell’Underdog indisciplinato, lui quello del bimbo quieto. Talmente ubbidiente da assecondare Berlusconi anche quando dirà che Vittorio Mangano – il sicario mafioso assunto a Arcore – “è stato un eroe”. Al punto che Silvio lo battezza “pupillo”, nominandolo “mia protesi”, come fosse un favore.
Raffaele cresce a immagine del Capo anche nel comparto giudiziario: accumula 14 imputazioni in carriera, per corruzione, peculato, falso e abuso d’ufficio. Reagisce denunciando i suoi giudici, come gli ha insegnato la politica. E quando i magistrati gli contestano 500 mila euro di finanziamento della famiglia Angelucci nella campagna elettorale del 2005, versati alla sua lista “La Puglia prima di tutto”, lui replica: “È un contributo regolarmente contabilizzato”, proprio come faranno tutti gli amministratori a seguire, compreso il collega e amico Giovanni Toti, presidente della Liguria, tanti anni dopo.
Strategia vincente, visto che fatta salva qualche condanna in primo grado, Raffaele viene assolto e qualche volta prescritto da tutto, con massimo onore della Camera dei deputati e dei suoi difensori, tra i quali l’immancabile Francesco Paolo Sisto, avvocato di Berlusconi e sottosegretario alla Giustizia.
Ma se immacolato resta il suo colletto bianco, tre inciampi scheggiano la sua rotante carriera anche se solo momentaneamente. Due volte viene sconfitto nella corsa alla rielezione della Regione Puglia, prima da Nichi Vedola, anno 2005, poi da Michele Emiliano, anno 2020. E una terza, quando si dimette dall’ombra del Capo, dichiarandosi contrario al cosiddetto “Patto del Nazareno”, l’imbroglio ideato nel 2015 dal macellaio Denis Verdini e dal suo allievo Matteo Renzi, che intendevano insaccare il Partito democratico e cuocerlo alla brace.
Per il morbido Fitto è un colpo inaspettato di orgoglio e di pala eolica. Al quale Berlusconi risponde con uno stizzito “vaffanculo!” in pubblico, battezzandolo “parroco di Lecce”, e sentenziando: “Se ne va? Meglio. Ogni volta che va in tv, perdiamo il 4 per cento”.
“Sono introverso e non sorrido”, replicò lui, senza perdere il suo grigio umore. Ogni volta rigenerandolo alla fonte battesimale “della Puglia, la mia terra”, intesa non solo come famiglia gelosamente custodita – una moglie, tre figli, nessun pettegolezzo – ma anche come collegio elettorale, alla maniera dei vecchi democristiani che mai si scordavano del bicchier d’acqua agli amici che attendevano in anticamera con le immancabili liste di collocamento in tasca.
La terra è il Salento, incorporato da un accento così marcato che Giorgia gli ha appena comandato un corso full immersion di inglese, per prepararsi alle piogge di Bruxelles. Ha ubbidito, ci mancherebbe: Fitto è una risorsa della Repubblica, specialmente la sua.

L'Amaca

 

La democrazia e la guerra
DI MICHELE SERRA
È diventato del tutto ozioso domandarsi quali dei palestinesi uccisi a Gaza (e ultimamente in Cisgiordania) siano per davvero dei terroristi, come sostengono le autorità israeliane, oppure no.
Né che cosa significhi esattamente, ormai, “terrorista”, visto che è la definizione che molti Stati in guerra danno dei loro nemici in quanto tali (vedi Putin quando parla degli ucraini).
È diventata una definizione, diciamo così, “di massa” (oltre che di comodo), buona per chi non ha tempo da perdere con concetti un tempo importanti in democrazia, per esempio la responsabilità individuale. E dunque soldato, combattente, militante politico, terrorista, oppure familiare-fiancheggiatore dei terroristi, o abitante in luoghi dove si presume che si coltivi il terrorismo, non fa più tanta differenza.
Poiché il terrorismo esiste (è stata puro terrorismo l’azione di Hamas il 7 ottobre del ’23), avere dissolto una così grave accusa — accusa di disumanità — spalmandola nelle strade e nelle case di un intero popolo, fa perdere significato alla parola. Se io dico “siete dei criminali” agli abitanti di un quartiere, per quanto malfamato sia il quartiere dove vivono, compio un atto gravemente iniquo, e nego il presupposto stesso della democrazia, che è: ogni persona è uguale di fronte alla legge, e risponde solo di se stessa e delle proprie azioni. La guerra è dunque il contrario della democrazia. È la morte del diritto. È la cancellazione degli individui, delle loro storie personali, della loro identità. Ed è la preparazione metodica della propria eterna ripetizione.
Dei bambini palestinesi scampati alla colossale rappresaglia di Netanyahu, quanti diventeranno “terroristi”?

giovedì 29 agosto 2024

Paragoni



Al suo confronto Vannacci è Umberto Eco, Gasparri Parmenide, e Donzelli Gramsci.

Il refrein ignobile


Da domani, inizeranno le Paralimpiadi 2024 a Parigi.
E comincerete a vedere post, in caso di medaglie d'oro, d'argento o di bronzo, della signora in foto, orgogliosa dei risultati degli atleti italiani.

Bene. Sappiate che con l'attuale Legge di Bilancio per il 2024, sono stati congelati 350 milioni di euro del Fondo per le politiche in favore delle persone con disabilità, senza nessuna reale garanzia di recupero di tali cifre per il 2024. 

E nella manovra non solo non si ripristinano i 350 milioni del 2023 (restano le quote per 2024 e 2025), ma non viene rifinanziato neanche il fondo per l’inclusione delle persone con disabilità, dal valore di 50 milioni di euro.

Totale? 400 milioni di euro.

Il maxi taglio del governo meloni, le cui forze politiche principali (Lega e Fratelli d’Italia in primis) in campagna elettorale avevano, tra le varie cose, promesso di incrementare le risorse e offrire una maggiore attenzione concreta per le persone non autosufficienti, penalizzerà ingiustamente intere fasce di popolazione già in condizioni delicatissime (più di 3 milioni).

Perché recuperare 100 miliardi l'anno, non milioni di euro, soltanto dall'evasione, è troppo scomodo. O tassare con una patrimoniale gli amici ricchi, le banche, le multinazionali straniere che fanno profitti a iosa, non è possibile.

Votateli. Sì sì, e rivotateli.

Loro sanno governare. E stanno dalla parte del popolo e soprattutto dei più deboli.

Lollo e Lollo

 

C’è Lollo e Lollo
di Marco Travaglio
Col petto gonfio di orgoglio nazionale possiamo finalmente affermare che l’Italia fa scuola in Europa. No, non parliamo della lotta alla corruzione, ai conflitti d’interessi e al lobbismo: il Gruppo Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (Greco) ci ha appena bacchettati perché non facciamo abbastanza o torniamo indietro, dopo averci spesso lodati per inchieste tipo Mani Pulite e leggi come la Spazzacorrotti. Parliamo del familismo amorale, che dopo i fulgidi esempi italioti ha finalmente infranto il tetto di cristallo a Bruxelles. Ieri la presidente del Parlamento europeo, la popolare maltese Roberta Metsola, ha nominato capo di gabinetto il cognato Matthew Tabone. Ci aveva già provato nel 2022, ma le critiche e il caso Qatar l’avevano indotta a soprassedere. Ora invece piazza il marito della sorella con un modesto stipendio-base che va dai 17.227 ai 19.491 euro al mese (esclusi bonus, benefit, lavatura e stiratura). E nessuno della sua maggioranza Ppe-Pse-Liberali ha nulla da obiettare. Neppure i suoi fan del Pd, che giustamente bersagliano da due anni la Meloni per la sorella a FdI e il cognato ministro. Il Lollobrigida della Meloni è uno scandalo, il Lollobrigida della Metsola va benissimo.
A proposito: ma nell’alato dibattito pidino su Renzi, oltre a blaterare sui veti di questo e quel cattivone, qualcuno ricorda il lobbismo renziano e i soldi alla fondazione Open per cui Renzi, Boschi&C. sono imputati? A qualcuno interessano ancora i petrodollari insanguinati di Bin Salman e gli affari con altri sinceri democratici in giro per il mondo? E quando il Consiglio d’Europa raccomanda all’Italia “misure più decise contro la corruzione e i conflitti di interessi dei titolari di cariche politiche”, ma anche contro “regali, contatti con terzi, attività esterne, contratti con autorità statali, gestione delle informazioni confidenziali e restrizioni post-incarico” che “potrebbero influenzare l’esercizio obiettivo e imparziale delle funzioni ufficiali”, i dem pensano che parli solo del centrodestra, o anche dell’unico parlamentare d’Europa che prende ufficialmente e orgogliosamente soldi da uno Stato estero? Ora si spera che la Meloni, per farla pagare ai renziani dopo la campagna d’estate e scrollarsi di dosso la famiglia B., non decida di riesumare la legge Conte contro i conflitti d’interessi, che la sua stessa maggioranza affossò il 20 marzo scorso alla Camera buttando la palla in tribuna per due anni (il Pd tuonò per bocca di Simona Bonafè: “Schiacciano le prerogative delle opposizioni e sviliscono il ruolo del Parlamento”). Sennò avremmo il paradosso perfetto: la destra dei conflitti d’interessi che li combatte e il Pd nemico dei conflitti d’interessi che se ne mette in casa uno grosso come una casa.

L'Amaca

 

Eccesso di indignazione
DI MICHELE SERRA
Non ho mezzo dubbio sulla piena legittimità etica, e la palese utilità pratica, dell’affido o dell’adozione dei minori in famiglie “non tradizionali” (definizione vecchia come il pregiudizio che la sostiene). Ma so che ci sono persone contrarie: circostanza che in un Paese come il nostro, in storico ritardo (giuridico e politico) sul fronte dei diritti della persona, è tutt’altro che sorprendente. Semmai: è scontata.
Queste persone contrarie al cambiamento, come accadde ai tempi della battaglia per il divorzio e l’aborto legale, vanno affrontate come avversari politici. Non come bestemmiatori o come portatori di scandalo. Quando parlano (il caso più recente è quello di Patrizia Biagi, area Vannacci) è sbagliato cadere dalle nuvole o indignarsi oltre il lecito: sono i reazionari, in democrazia hanno voce e diritti politici alla pari del più virtuoso degli illuminati, bisognerebbe smetterla di parlarne con sgomento, di svenire per il raccapriccio ogni volta che dicono la loro. Non solo esistono, ma sono anche al governo, con milioni di voti che alimentano la loro corsa.
I progressisti (tali considero i fautori dell’allargamento dei diritti) devono correggere un loro difetto: l’eccesso di indignazione, che è indice di fragilità. La strada delle riforme, da che mondo è mondo, è in salita. Deve fare i conti con il conformismo — che certo non è un vizio di minoranza — e con la paura delle novità. La Biagi è tutt’altro che una provocatrice: è una conformista. E ha il diritto di esserlo. Noi, di dirglielo, ma senza sgranare gli occhi per l’incredulità. Dice le stesse cose che, da secoli, dice la gente che confida nel passato e diffida del futuro.

E noi differenziamo!


Africa e Indonesia, dallo scalo ligure le rotte incriminate

La città della Lanterna. Snodo dell’80% di traffici illeciti: da qui le industrie del Nord inviano all’estero

Da “il Fatto Quotidiano”

Una frontiera invisibile, da cui secondo i rapporti passa l’80% dei traffici illeciti di rifiuti: il porto di Genova è l’hub fondamentale attraverso cui transitano tutti i rifiuti delle industrie del Nord destinati a essere smaltiti all’estero. I rifiuti, laddove possibile, dovrebbero essere conferiti vicino al luogo di produzione. La convenzione di Basilea vieta l’esportazione verso i Paesi più esposti ai traffici clandestini, ma queste imposizioni vengono spesso aggirate con triangolazioni. Nei fatti, nonostante le crescenti restrizioni (la Cina dal 2010 non accetta più la nostra plastica) il business delle ecomafie, e dell’esportazione illegale, è un settore che non conosce crisi. E su cui guadagnano tutti gli attori coinvolti nella filiera: da chi smaltisce a chi trasporta.
Di questo flusso, conosciamo sostanzialmente solo ciò che l’Agenzia delle Dogane riesce a intercettare, prima che di quei rifiuti, appena passati i confini, non si perda definitivamente traccia: i controlli a campione, aiutati da sistemi centralizzati di intelligence, riguardano appena il 2% dei transiti. Nei soli primi sei mesi del 2024 l’ufficio delle Dogane di Genova ha bloccato 233 tonnellate di rifiuti, 8 spedizioni illecite dirette in Nordafrica.
Sono due le principali rotte ricostruite dagli esperti: la prima porta al Nordafrica e a vari Paesi del Centrafrica, e riguarda principalmente rifiuti elettronici, rottami di auto o moto, e tutta una serie di materiali che vanno dagli pneumatici agli estintori; la seconda, più sofisticata, è la rotta dei rifiuti speciali e con residui plastici, che porta soprattutto verso Turchia e Pakistan, e o più spesso in Paesi del Sudest Asiatico, come l’Indonesia.
La beffa, in questo caso, è che aggirando le normative di settore, ciò che viene portato all’estero in modo illecito, va a fare numero sulla percentuale di rifiuti che l’Italia dichiara di trattare e riciclare.
Il traffico verso i Paesi africani, spiegano gli esperti del settore, ha forme più rudimentali: ciò che si vede, spesso, è solo l’ultimo anello della catena. Di solito a finire nelle maglie delle Direzioni distrettuali antimafia, competenti in tema di traffici illeciti di rifiuti, sono soggetti stranieri, che operano individualmente e spesso camuffano i rifiuti come masserizie: abiti od oggetti usati, che passano la frontiera come merce, invece che come rifiuto; al terminal di Genova-Pra’ arrivano in container già sigillati, caricati e trattenuti illegalmente in magazzini del Norditalia. In Tunisia, Algeria, Marocco e Libia finisce soprattutto il ciclo dei veicoli e dei rottami ferrosi, che in molti casi dovrebbero essere smaltiti e non esportati. In Centrafrica – Camerun, Burkina Faso, Nigeria e soprattutto Ghana – finiscono in modo più sovente in rifiuti elettronici (Raee).
Il caso più eclatante è quello di Agbogbloshie, mega discarica abusiva a cielo aperto alle porte di Accra, capitale del Ghana: un sito esteso per oltre trenta ettari, su cui si stima siano stati depositati illegalmente 16 mila tonnellate di rifiuti elettronici. Un inferno a cielo aperto, dove spesso i resti della nostra parte di mondo vengono bruciati per recuperare materiali rari, liberando nell’aria o nelle acque diossine e altre sostanze inquinanti.
Un inferno a cielo aperto in mano alla malavita organizzata, conosciuto col nome sinistro di Sodoma e Gomorra. Secondo le Nazioni Unite nel 2022 sono state prodotte nel mondo 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, l’82% in più del 2010; e il tasso di produzione dei rifiuti cresce 4 volte in più del riciclo. Nel 2022 l’Europa è stata la regione mondiale che ha generato il maggior numero di rifiuti elettronici (17,6 kg pro capite), pur avendo il più alto tasso documentato di raccolta e riciclaggio (7,5 kg pro capite, 42,8%). Solo l’Italia nel 2022 ha prodotto 1.122 tonnellate di rifiuti elettronici. Secondo il rapporto Ecomafie di Legambiente, nel 2023 i reati ambientali sono aumentati del 15,6%, per un totale di 35.487 illeciti penali, 97,2 reati al giorno, e un fatturato di 8,8 miliardi.

Finalmente dall'Australia

 

Disconnettersi si può Anzi, si deve
Al di fuori dell’orario di lavoro si è autorizzati a non rispondere a nessuno. A partire dal capo ufficio. In Australia adesso è legge ma riusciremo anche noi a resistere al richiamo di telefonino e pc?
DI STEFANO MASSINI
Chiama pure, tanto io non ti rispondo. Insisti, quanto vuoi, ma ti ignoro. Da oggi in Australia è legge: al di fuori dell’orario di lavoro, si è autorizzati a non rispondere al cellulare se a chiamarti è un collega o il capoufficio.
L’hanno già ribattezzato “diritto alla disconnessione”, riconosciuto negli ultimi anni a più latitudini, e si può dire che segni l’inizio di un epilogo, se non la chiusura definitiva di un’epoca, quella che potremmo definire “della reperibilità”, destinata a modificare drasticamente il perimetro del lavoro e della vita personale. Si dice che molta della confusione emotiva in cui ci dibattiamo prenda forma dalla commistione fra la dimensione produttiva e quella affettiva, e dunque dall’estensione smisurata della prima sulla seconda, soprattutto per quelle professioni in cui non sussiste il rito minimamente delimitante del badge o del vetusto fantozziano cartellino.
Ma quando era iniziata l’epoca del 24/24h? Riavvolgiamo il nastro. Mezzo secolo fa, alla metà degli anni Settanta, già si percepivano i vagiti della tecnologia cellulare, ancora riservata a nababbi e a plutocrati, le cui guerre da lupi dell’alta finanza già reclamavano una Santa Barbara di cercapersone e di telefoni mobili sulla limousine, alimentati da batterie pesanti come mattoni e collegati a antenne mastodontiche degne del radiotelescopio di Arecibo. Incredibilmente, esisteva dunque al mondo una genìa di semidèi che poteva telefonare dall’abitacolo o addirittura a piede libero, mentre i comuni mortali facevano la fila fuori dalle cabine Sip e perfino gli eroi di Matrix erano costretti a correre come forsennati alla cornetta di un telefono pubblico per riconfigurarsi sulla nave di Morpheus. Sarà anche stato un fenomeno elitario, un vanto pressoché solo d’immagine (la qualità del segnale era pessima oltre che in molti casi assente), ma eravamo agli albori di una trasformazione che si sarebbe rivelata rapidissima, portando l’Occidente ad affiancare alle armi di distruzione di massa quelle di comunicazione di massa, dall’impatto non meno devastante.
Tant’è, negli anni ’80 il primo cellulare propriamente detto aveva già visto la luce in Giappone, e con apposita tracolla consentiva chiamate in movimento a iper-professionisti assetati d’ubiquità, il cui esempio tuttavia si rivelò contagioso spingendo Nokia e Motorola a investire ogni risorsa nella miniera d’oro del “mobile phone”.
Ed eccoci al boom: alla metà degli anni ’90 il trillo del cellulare è diventato la soundtrack urbana del pianeta, e termini come GSM, 2G, SMS sono entrati nel lessicod’uso comune. È lì che, impercettibilmente, complice il crollo del prezzo della connessione e degli apparecchi stessi, si colloca il passaggio dall’ambito originariamente professionale a quello relazionale senza limiti, riconfigurando il cellulare come strumento talmente essenziale da riscoprirsi identitario, nucleo vitale dell’individuomultitasking di fine ‘900 che ora accede al terzo millennio salutando l’homo sapiens e rinascendo homo connexus, armato di un terminale che è veicolo e sede unica di tutto, dalle riunioni lavorative alle emergenze familiari, dagli scontri coi colleghi alle confidenze fra amici, dagli auguri di Natale alle trattative immobiliari, e ancora effusioni, liti, briefing, diverbi e nei giorni drammatici del Covid perfino estremi commiati.
Abbiamo celebrato insomma, in pochi anni, l’apoteosi della comunicazione cellulare, assurta a liturgia necessaria e vitale, plenipotenziata, da cui solo adesso, con la decisione australiana, cominciamo forse a regredire con un minimo di paletti. Perché in effetti l’originaria ebbrezza di quella “libertà di comunicare” si era mano a mano contratta in un ansiogeno dovere di rispondere, sempre e comunque, come in un immenso call center che non conosce requie se non quella del blackout. Come il Bartleby di Melville cominceremo a dire che «ho preferenza di non risponderti»? Dopo il diritto di interpellare, fonderemo il diritto di non replicare?
In realtà la Generazione Z ha già azzerato da tempo la logorrea mobile tanto cara ai loro genitori, se è vero il sondaggio pubblicato mesi fa dalThe Times secondo il quale una larghissima fetta di under 35 evita categoricamente di rispondere alle chiamate, riversandosi solo sulla messaggistica. Ma non sono solo loro. Perché in fondo così come Efesto, dio della tecnica, teneva le redini di tutto l’Olimpo, così la tecnica siè impadronita di ogni umana funzione, convincendoci di poter affidare agli smartphone il supremo incarico di conservare la nostra memoria, cristallizzata in un archivio bulimico di selfie e di scatti compulsivi.
Temo che in ciò si sia delineato un ulteriore cerchio, quello che ha preteso di assoggettare al controllo del supporto non solo la nostra memoria fotografica e iconografica, ma altresì quella di ogni scambio verbale e dialogico, motivo per cui abbiamo lentamente iniziato a rifiutare le conversazioni telefoniche a favore di scambi scritti, magari su whatsapp, alternati ai fatidici vocali, come cantavano i Thegiornalisti. Una versione 2.0 di verba volant, scripta manent , laddove ci illudiamo di sigillare a futura consultabilità tutto quello che abbiamo detto o sussurrato o dichiarato, in qualunque sede e con qualunque interlocutore. Vale per la Generazione Z e vale per noi, come pretesa di edificare in un software il nostro monumentum , continuamente visitabile sullo screen. Davvero un potere immenso, quello che gli abbiamo demandato. Non dice la leggenda che i Golem si ribellarono a chi li aveva creati per servirsene, e fu dura battaglia riportarli nei ranghi? Io non so se un giorno, per salvarci, finiremo per obbligare gli utenti a spegnere i cellulari per almeno 8 ore. È fantascienza, ma quel giorno forse diremo che la consapevolezza iniziò con il diritto alla disconnessione, con quel “puoi non rispondere” che cambiò la Storia.

Affondato!

 

Comitato Vittime Renzi
di Marco Travaglio
Da due giorni stavamo in pensiero: erano già 48 ore che nessun giornalone intervistava Renzi. Ma ieri il Corriere ha colmato la lacuna con l’apposita Meli. La notizia (si fa per dire) dell’intervista (si fa per dire) è che il pover’uomo s’offre al centrosinistra come un mendicante da marciapiede con la scimmietta col cappello in bocca. Solo che nessuno lo vuole (cioè la Schlein e alcuni combattenti e reduci del renzismo). Lui però risponde con una battutona: “Servono voti, non veti”, che sarebbe anche carina se non l’avesse già fatta in tutte le altre 67 interviste agostane. La Meli è affranta: “Conte mette il veto su Iv”. Ma il problema non sono i 5S, Avs e Calenda: è la base del Pd che non vuol vederlo neppure in cartolina. Gli iscritti al CVR (Comitato Vittime Renzi) sono legione, ma i più incazzati sono gli elettori e i militanti dem, da quando si videro scippare il partito da un finto rottamatore e vero restauratore che li trascinò dal 40,8% del 2014 (quando gl’italiani non lo conoscevano) al flop del referendum del ’16 (iniziavano a farsi un’idea) al 18,8 del 2018 (lo conoscevano) alla scissione del 2019. Il resto della presunta intervista è il delirio ombelicale di un mitomane che crede di contare ancora qualcosa: “Siamo decisivi nei collegi marginali dove il risultato si gioca sull’1-2%” (ma lui può farne perdere il triplo). “La Meloni ha capito il valore della nostra mossa (non dice quale, ndr): non a caso ha passato agosto a farci (noi chi? ndr) attaccare dai suoi” (sembra che la premier abbia fatto testamento). “In politica estera Conte è imbarazzante” (pare che non prenda soldi da Bin Salman, non sia amico del genero di Trump e non faccia affari con oligarchi russi e spioni israeliani).
Siccome non c’è un solo punto comune fra lui e il centrosinistra, infatti Iv vota spesso con la destra o si astiene (Ucraina, Israele, premierato, Rdc, salario minimo, Superbonus, Ponte, Jobs Act, giustizia, bavagli, immunità, conflitti d’interessi, Toti, Santanchè), spiegare perché i bersagli dei suoi insulti dovrebbero riabbracciarlo è arduo pure per lui. E oplà: “La Convention di Chicago è il modello per superare le divisioni”, perché i dem “lavorano nella stessa direzione per far vincere la Harris”. Cioè: in America il Partito democratico si allea col Partito democratico per far vincere la candidata del Partito democratico, ergo in Italia il Pd deve allearsi con uno che prima l’ha affondato, poi ha fondato un altro partito per dargli il colpo di grazia. Ora purtroppo toccherà attendere almeno altre 24 ore per leggere la prossima intervista, dal titolo: “Servono voti, non veti”. Sottotitolo: “A.A.A. Offresi postulante tuttofare disponibile per alleanze, battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, feste di laurea, addii a celibato/nubilato. Prezzi modici”.

L'Amaca

 

Libera volpe in libero pollaio
DI MICHELE SERRA
La questione della responsabilità delle piattaforme sui contenuti che veicolano è complicata. Si oscilla tra il pericolo di censura politica e il pericolo, opposto, di dare libera circolazione, e una impunità di fatto, a orrori di vario calibro (dalla pedopornografia al complottismo paranoico a quel vero e proprio avvelenamento dei pozzi che sono le fake news).
Colpisce, in questo difficile dibattito, che a prendere la parti del giovane padrone di Telegram, il miliardario russo Durov, sia soprattutto l’estrema destra. Colpisce e in un certo senso aiuta a orientarsi: se Musk, Putin, Trump e l’ossesso Tucker Carlson gridano allo scandalo per l’arresto, in Francia, di Durov, questo significa che il concetto di “libertà”, declinato alla loro maniera, comporta la prevalenza del forte sul debole e dello svelto di mano (e di digitazione) ai danni delle persone pensierose e rispettose. Libera volpe in libero pollaio: l’aforisma è attribuito a Che Guevara, si riferiva all’economia capitalista, è ancora più efficace e preciso se lo applichiamo alla rete. Ai tipi come Durov importa un fico delle conseguenze delle loro azioni, del loro successo e, in ultima analisi, della loro prepotenza. Non è colpa loro — pensano — se gli uomini si fanno gabbare, ingannare, irreggimentare dalle lingue biforcute che hanno trovato nella rete la loro Nuova Frontiera. O forse, più banalmente: le fake news e il complottismo sono la sola vera comunicazione mainstream della nuova destra mondiale. Senza i social, Trump non avrebbe mai vinto le elezioni. Per questo amano Telegram, la più sregolata delle piattaforme, e per questo odiano ogni regola, di qualunque natura. Libera volpe in libero pollaio.

Ottimi motivi

 

Dieci buoni motivi per cui è da idioti allearsi con Renzi
di Andrea Scanzi
È semplicemente sconcertante che il centrosinistra (o presunto tale) parli ancora (seriamente!) di un’ipotesi di alleanza con Matteo Renzi. I soliti tromboni e gli ancor più soliti camerieri sdraiati dell’informazione sono ripartiti con le insopportabili nenie su campo larghissimo, riformismo, renzismo e altre malattie più o meno politicamente mortali. Nella realtà, e ci arriverebbe anche un Cappellini qualsiasi (no, forse Cappellini no), anche solo pensare di allearsi con Renzi è da idioti. Per almeno dieci motivi.
1. Renzi non ha voti (cacicchi tipo Pittella a parte), come dimostra ogni elezione che Dio manda in terra, quindi non si capisce cosa aggiungerebbe e a cosa servirebbe unirsi a un partito (si fa per dire) più morto e sepolto degli antichi Fenici.
2. Raffaella Paita, da sempre una delle renziane peggiori (chiedo scusa per la ridondanza), si è piccata assai di fronte alla definizione dei renziani visti come “utili idioti”. Per una volta la diversamente vincente Paita ha ragione. Sia perché mai mi permetterei di definirli “idioti”, sia – soprattutto – perché i renziani non sono “utili” (se non forse alla cura della stipsi). Bensì sommamente “inutili” (a livello di aritmetica elettorale) e ancor più dannosi (a livello di ecosistema mondiale).
3. Come ha riassunto di recente Calenda, che Renzi lo conosce bene e da cui si è fatto inspiegabilmente prendere per i fondelli come un ciuccio dopo aver spergiurato che mai e poi mai si sarebbe alleato con lui, Renzi è totalmente inaffidabile. Se gli facesse comodo, si legherebbe pure a Casa Pound (che del resto ha meno colpe di Bin Salman). Renzi è il classico pesce piccolo (nel talento) convinto di essere intelligente e figo (ahahahah) perché ogni giorno mente a qualcuno. Fidarsi politicamente di lui è, con rispetto parlando, da deficienti.
4. Non solo Renzi non porta voti, ma li toglie pure. Esistono milioni di elettori che, se Renzi farà parte del campo larghissimo (aka Armata Brancaleone), continueranno ad astenersi con ancor più gusto, oppure smetteranno di votare M5S, Avs e Pd.
5. Tra quei milioni di elettori ci sarei – per quel che vale – anch’io. Costretto a forza tra scegliere Renzi e Meloni, oppure tra Boschi e Donzelli, opterei per una detartrasi col lanciafiamme. Senza anestesia.
6. L’idea di inseguire (ancora!) quel che resta di Renzi è figlia di quei “renziani mai morti” che non esistono nel mondo reale, ma pullulano nel Pd e in certe redazioni. È gente politicamente miope, oppure cinicamente interessata, oppure ideologicamente perversa. In tutti e tre i casi, è gente che – sempre con rispetto parlando – ha fracassato ampiamente la uallera. E dovrebbe solo chiedere scusa per tutto quello che ha detto e scritto dal 2013 a oggi.
7. Renzi ha distrutto alleanze. Sfasciato governi. Celebrato figuri improponibili. Mentito sistematicamente. Si è fatto beffe di ogni buonsenso, coerenza e decoro etico-politico. Cosa diavolo deve combinare per rendervi edotti della sua reale natura? Bombardarvi casa? Rubarvi la password del wi-fi? Regalarvi l’opera omnia di Renga? Basta!
8. L’unico campo largo possibile è quello alla sarda, con Calenda e Renzi lontani. Anzi lontanissimi. Soprattutto Renzi, che è un Re Mida al contrario: tutto quel che tocca implode. Per non dir peggio.
9. Se facessero una gara sul politico più detestato d’Italia, Renzi vincerebbe a mani basse (facendo pure il record del mondo di antipatia). Schlein: ci sei o ci fai? Inseguire Renzi per vincere è come telefonare a Hannibal Lecter per avere consigli su come diventare vegani.
10. Renzi è un leader politicamente trapassato almeno dal 2016. Quindi un’alleanza con lui non è neanche più “politica” ma esoterismo, o comunque qualcosa che attiene più al metafisico che al reale. La facciamo finita o no?

Girando attorno

 

Libertà vigilata
di Marco Travaglio
Siamo talmente mal messi che ci tocca difendere Povia. Invitato a presiedere la giuria di un talent a Nichelino e a esibirsi in un concerto, s’è visto annullare tutto dal sindaco per “la sua posizione sui diritti civili e la sua contrarietà ai vaccini, diverse dalla mia amministrazione”. Ma, sia chiaro, “non è una questione politica”. E invece è proprio una, anzi “la” questione politica. Tantopiù che quello è il 40° concerto che annullano al cantante. Se fosse per le sue qualità artistiche (secondo noi scarse, malgrado il primo posto a Sanremo 2006), nulla quaestio: se un cantante non ti piace, non lo inviti e morta lì. Ma se lo inviti e poi lo rimandi a casa per ciò che dice o pensa, si chiama censura. Che in una democrazia liberale non ha cittadinanza, altrimenti la democrazia liberale smette di essere tale. Noi siamo vaccinati e vaccinisti (senza obblighi, però) e sosteniamo i diritti civili: ma fra questi c’è la libertà di espressione, di dissenso e pure di scempiaggine, purché non si torca un capello ad alcuno. E un cantante si giudica da come canta, non da ciò che pensa. Ma da quando esportiamo la democrazia, in casa ce ne resta sempre meno.
Tutti fremono di sdegno per un elenco di “agenti sionisti” da boicottare pubblicata sul web da un sedicente “Nuovo Pci”: giusto, non si fanno liste di proscrizione. Il guaio è che molti degli indignati speciali, e persino dei personaggi citati, dal 2022 compilano liste di proscrizione di “agenti putiniani” che non sono né agenti né putiniani, ma hanno il grave torto di non pensarla come loro sulla guerra russo-ucraina. Poi c’è l’arresto, nella patria dei Lumi e della Liberté, del fondatore della app Telegram, Pavel Durov, imprenditore russo con vari passaporti. Può darsi che sia il nuovo Barbablù, ma se l’accusa è che le chat del suo social network sono utilizzate, grazie alla loro particolare segretezza, da organizzazioni criminali, oltreché da milioni di russi, di occidentali e persino da Zelensky, il suo arresto ci ripugna. E ci fanno scompisciare i giornaloni furiosi con “l’internazionale sovranista” dei Musk e dei Salvini che difendono Durov, ovviamente per conto di Putin. Durov fuggì proprio dalla Russia, che nel 2018 voleva bloccargli Telegram. Solo che allora l’Occidente protestò e Amnesty urlò: “Giù le mani dalla libertà di espressione”. Ora invece tutti tacciono quando il commissario macroniano Ue Thierry Breton minaccia di bandire X perché Musk è trumpiano e non fa come Zuckerberg, che mette le censure e le fake news di Facebook, Messenger, Instagram e WhatsApp al servizio dell’altra banda: quella “democratica” dei Biden e delle Harris, i “buoni” che possono fare come o peggio dei “cattivi” in ragione della loro innata bontà. Più combattiamo la Russia e più le somigliamo.

L'Amaca


In memoria di un uomo allegro
DI MICHELE SERRA
Alla fine di agosto del 2024, vent’anni fa, una banda di islamisti, di quelli che sgozzano, rapiva e poi uccideva, in Iraq, Enzo Baldoni, giornalista freelance (scriveva per quella irripetibile rivista che fu il Diario di Enrico Deaglio). Pubblicitario, traduttore, viaggiatore, Baldoni è stato un uomo intelligente, spiritoso e molto civile, nel senso profondo del termine: rispettava gli uomini e il mondo. Incivile — specularmente — fu lo schifoso dileggio al quale, da morto, venne sottoposto dal giornale Libero, per mano di Vittorio Feltri e Renato Farina. Questo mestiere può essere anche abominevole, se sono abominevoli le intenzioni che lo armano.
Se volete sapere meglio chi fu Baldoni, vi consiglio il lungo ricordo di Giacomo Papi sul Post .Milano, che fu la sua città di elezione, potrebbe fare qualcosa di più per non dimenticare la figura di questo globetrotter irrequieto, inerme e sorridente. Ci sono persone che è impossibile domare per la loro arroganza, e persone che è impossibile domare per la loro mitezza, e allegria. Di fronte all’incendio del mondo c’è chi versa fuoco e chi cerca di spegnerlo, e Baldoni era tra i secondi. Il fatto che gli attizzatori siano in maggioranza non toglie nulla alla ragione della minoranza soccombente. Dalla parte del torto sono i conformisti, non i pensierosi.

Pochi mesi prima di morire, Baldoni aveva scritto a un amico: “Non sono un Rambo o uno sconsiderato. Metto sempre le cinture in auto, portavo il casco sul cinquantino anche quando non era obbligatorio e prendo sempre tutte le precauzioni necessarie. Ho solo imparato che chi ha paura della morte ha paura della vita. E a me la vita piace parecchio”. 

Lectio

 

Io sono la via la verità, la vita E il desiderio
Nel nuovo saggio Massimo Recalcati racconta il debito profondo della psicoanalisi verso le Scritture E qui spiega come Gesù ha saputo unire la legge e l’amore
DI MASSIMO RECALCATI
Uno fuori di sé, un falsario, un truffatore, un demone a capo di altri demoni, un delirante, un narcisista, un falso profeta, un esaltato, un beone e un mangione, un frequentatore di prostitute e di ladri, un malfattore, un impostore. È questo il ritratto di Gesù che possiamo ricavare dal giudizio dei suoi nemici: scribi, dottori della Legge, sacerdoti del tempio. Gli uomini religiosi non sanno, infatti, cosa significa spendere tutta la propria vita nell’amore, non sanno cosa significa desiderare e amare la vita.
Il loro risentimento li avvelena, la loro impotenza li intossica, la loro tristezza li inaridisce. Essi non hanno possibilità di pensare all’evento dell’impossibile che irrompe e sovverte l’ordine già stabilito dell’esistenza ricostituendolo come nuovo. La loro ipocrisia cinica non permette di aver fede nel miracolo del desiderio. Piuttosto li impegna in un’opera permanente di diffamazione e di demolizione di chi invece incarna l’impossibile che diviene possibile. «Cosa c’è in un nome?» si chiedeva Stephen Dedalus, uno dei due protagonisti dell’ Ulisse di James Joyce. In quello di Gesù c’è il segreto che lo contrassegna. Nella lingua ebraica, Yeshua significa, infatti, il Dio che salva. La sua parola ha la forza di un magnete irresistibile, trasporta, smuove, erotizza, causa il desiderio, assomiglia a un fuoco sempre acceso, salva mostrando che la verità non è già tutta scritta nella Legge, ma attende di farsi ogni volta vera nella dimensione incarnata della testimonianza. Sono gli atti che Gesù compie a rendere possibile la salvezza su questa terra.
Senza questa testimonianza di cura per chi è nella sofferenza e nella tristezza, nella povertà e nell’abbandono, nella tribolazione e nella disperazione, ma anche per chi si trova nell’ipocrisia e nell’avidità, nella conservazione ottusa dei propri beni e nel rifiuto dell’amore, il destino che egli porta nel suo nome non si sarebbe realizzato. Per questo il suo primo e decisivo passo consiste nel risignificare il rapporto tra la Legge e la vita. Se, infatti, la Legge tende a estirpare il desiderio dalla vita, essa si inaridisce, si svuota, si indurisce, resta senza cuore, diviene una norma repressiva che non agisce più al servizio della vita, ma al servizio della morte. Nello stabilire una nuova alleanza tra la vita del desiderio e la Legge Gesù non rinnega la Legge di Mosè ma la eredita pienamente, ovvero, come scrive Matteo, la conduce al suo pieno «compimento» (Mt 5,17). Gesù è un giudeo, la sua predicazione risulterebbe incomprensibile se non si considerassero le sue radici ebraiche e la sua profonda conoscenza della Torah. È il movimento che impegna ogni erede degno di questo nome. Lo ricorda Freud al termine della sua opera, citando Goethe: «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero».
L’eredità non è un’acquisizione passiva di rendite, ma un salto nel vuoto, un movimento in avanti, una ripresa, uno slancio verso l’avvenire. La Legge per essere ereditata nella sua sostanza deve essere riconquistata. È questa la cifra più propria del magistero di Gesù: nessuna cancellazione del debito simbolico, nessun rigetto della sua provenienza, nessun rifiuto della Legge. Non per nulla nella Legge di Mosè il comandamento neotestamentario più decisivo, quello dell’«amore per il prossimo », si trova già scritto (Lv 19,34). È, infatti, proprio a partire dalla centralità di questo principio che Gesù rilegge la Bibbia: ama il tuo prossimo, lo straniero, in quanto «anche voi foste stranieri in Egitto» (Es 23,9; Lv 19,34).
Ma che cosa significa allora portare a compimento la Legge se la Legge mosaica era già in se stessa esaustiva della verità della Legge? La riconquista dell’eredità di questa Legge avviene in Gesù attraverso l’affermazione inaudita dell’eccedenza della Legge del desiderio. È la tesi centrale di questo libro: la Legge non può limitarsi a interdire il desiderio perché il vero volto della Legge coincide proprio con quello del desiderio. È questo a impegnare Gesù sino alla fine dei suoi giorni: testimoniare che la Legge non è avversa al desiderio, non è il suo antagonista spietato, non è il suo censore severo, perché la Legge è, in realtà, il nome più proprio del desiderio, è il nome più proprio della vita viva, della vita sovrabbondante di vita.
Per questo il desiderio elevato alla dignità della Legge trova la sua massima espressione nella radicalizzazione operata da Gesù dell’amore per il prossimo che rompe ogni rappresentazione narcisistico- speculare dell’amore per divenire — al suo colmo più sconcertante — «amore per il nemico».
Formulando la tesi che il magistero di Gesù introduce l’idea che il desiderio sia Legge, evoco, in realtà, un grande tema freudiano, ripreso con forza da Lacan, le cui radici affondano nel logos biblico, ovvero quello del rapporto costituente tra Legge e desiderio. Il compimento cristiano della Legge consiste nel liberare la vita dalla Legge non opponendo più la Legge alla vita, ma iscrivendo la Legge nel cuore stesso della vita. La Legge viene riscoperta come espressione di una vocazione che sa dare forma nuova alla vita convertendo, come direbbe Lacan, la forza della pulsione nell’ordine etico del desiderio. Mentre ogni religione della Legge è nemica del desiderio — religione viene da religio che significa richiudere, recintare la potenza (dynamis ) affermativa del desiderio — la parola di Gesù libera il desiderio da ogni preoccupazione securitaria. In questo senso l’evento della resurrezione assume il valore della forza indistruttibile della Legge dell’amore e del perdono che riconsegna la vita alla vita sottraendola per sempre alla maledizione della morte.
Ogni volta che questa nuova Legge interrompe l’esercizio fustigatore della Legge c’è, infatti, resurrezione: la morte non può essere l’ultima parola sul senso della vita così come la Legge del castigo e del sacrificio non può essere l’ultima parola sul senso della Legge.

Oltre il limite



Questa notizia, verificata, rischia di sbaragliare tutto nel mondo dei Coglioni: ad Agrigento a fine agosto ci sarà un concerto del Volo i cui diritti sono stati acquistati da Canale 5 che lo trasmetterà a Natale. È stato chiesto a chi assisterà allo spettacolo di indossare il cappotto per esigenze televisive. Auguro una temperatura minima di 45 gradi, così vi vedremo a dicembre madidi di sudore, boccheggianti e storditi. Consigli per gli acquisti!

Professore!



Professore, l’ho sempre stimata. Ma questa uscita imbarazzante appare ai miei occhi come un’enorme cazzata, scusi il francesismo. Trump è un eccelso idiota, un dittatore psicolabile, un riccastro pericoloso, un pericolo per l’intero pianeta. Kamala viceversa non conterà nulla, perché sappiamo benissimo che il presidente USA è in mano ai finanziatori, leggasi multinazionali bellicistiche. Ma almeno ha un QI accettabile. La saluto.

Grazie!



Ci voleva una battuta epica per sollevare questo lunedì di rientro. Grazie Etruriana, grazie per farmi scompisciare oltremodo! Fantastica!

Aya

 

Aya non deve morire a Gaza: Tajani la faccia venire in Italia
LA GIOVANE IN TRAPPOLA NELLA STRISCIA - La Farnesina batta un colpo. Come università per stranieri di Siena l’abbiamo invitata come “visiting scholar”: ma la chiusura di Rafah lo impedisce
DI TOMASO MONTANARI
I lettori del Fatto quotidiano conoscono Aya Ashour. Ne conoscono la scrittura e il coraggio, la capacità di raccontare e la voglia di vivere, nonostante tutto: e il tutto è che da ottobre è imprigionata a Gaza con la sua famiglia, e che ogni giorno rischia la vita. Proprio venerdì scorso, ha raccontato di essersi trovata in mezzo a un fuoco incrociato di droni e carri armati, tra corpi che cadevano e proiettili ovunque: è viva per miracolo. Aya ha 23 anni, e si è laureata in diritto internazionale (titolo della tesi: “Il ruolo delle donne nella sicurezza e nella pace, secondo la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza: la Palestina come caso di studio”) pochi giorni prima che Israele iniziasse la sua guerra di sterminio. Da quando ne aveva 17, si è impegnata a difendere i diritti umani, soprattutto quelli dei bambini e delle donne, anche come educatrice in materia di diritto internazionale umanitario, violenza di genere e diritti dei bambini e delle bambine.
Ciò che finora non era noto, è che l’Università per Stranieri di Siena (della quale chi scrive è rettore) ha invitato ufficialmente, diversi mesi fa, Aya Ashour come visiting scholar, perché possa continuare a studiare con noi, a Siena, ciò che le sta a cuore: che oggi è soprattutto il trauma profondissimo del suo popolo. Aya potrebbe studiare in pace, qua in Italia: noi, i nostri studenti e le nostre studentesse, potremmo imparare da lei, ascoltando ciò che ha visto, sentito, studiato in Palestina. È per questo che esistono le università: per costruire contatti, conoscenza, esperienza comune al di là di guerre, nazioni, fili spinati. Abbiamo inviato ad Aya il denaro necessario per il viaggio, e abbiamo chiesto alle autorità consolari italiane in Israele di prepararle il visto: ma la risposta è stata che chi si trova imprigionato a Gaza deve uscire da solo, e solo dopo (a questo punto al Cairo) può chiedere il visto. Ora – dopo mesi di attesa, in una situazione che, per quanto orribile da subito, peggiora continuamente, e visto che si infittiscono le occasioni nelle quali Aya può morire – chiedo pubblicamente al Ministero degli Affari Esteri Italiani di intervenire: se le università italiane, nella loro autonomia protetta dalla Costituzione, invitano ufficialmente qualcuno, dovrebbe esserci un impegno istituzionale perché questi inviti possano concretizzarsi. Ci sono altri casi identici, in questo momento: e il fatto che non parliamo di cittadini italiani, ma di ospiti delle nostre università, non dovrebbe fare la differenza. Anche perché la differenza può essere tra la vita e la morte.
Leggendo i messaggi di Aya su whatsapp, leggendone i post su Instagram e gli articoli sul Fatto è impossibile non riflettere su una atroce banalità: siamo vicinissimi. Geograficamente, ma ancor più esistenzialmente. Studi, lingua veicolare, social media, musica, immaginario sono gli stessi. Ma Aya rischia di essere uccisa, ogni giorno. Ed è prigioniera in una specie di campo di concentramento, dal quale non può uscire. E non per qualcosa che abbia fatto: ma per quello che è. Perché è nata palestinese: per il suo sangue, per la sua identità. Per la sua razza, qualcuno avrebbe detto e ancora oggi direbbe. Ora, io diffido dei paragoni tra realtà storiche imparagonabili, e ancor più della strumentalità con la quale la Shoah viene invocata da molte parti, quasi sempre a sproposito e in modo pressoché sacrilego. Ma per quanto mi sforzi, non riesco a trovare molti altri paragoni nella storia moderna, almeno su questi punti: la persecuzione di un popolo in quanto tale, una incombente volontà di annullamento etnico, la reclusione in una trappola mortale dalla quale non si può fuggire. Oggi l’Occidente appare impotente, paralizzato sia dalla difesa di quel che crede essere il suo interesse, sia dalla volontà di stare dalla parte di Israele e dunque (con un’equazione fallace) degli ebrei.
Per questo, il secondo appello di queste mie righe, è ai vertici ufficiali dell’ebraismo italiano: anche se questo paragone vi indigna, non potete non vedere che la vita di una ragazza di 23 anni completamente innocente è minacciata solo per la sua identità. E questo vale per quasi tutti gli oltre due milioni di palestinesi imprigionati a Gaza: come è possibile che uno Stato che si dice ‘ebraico’ possa oggi fare questo? L’ebraismo della diaspora è stato uno dei lieviti più preziosi della cultura occidentale: la sua infinita intelligenza, la sua cultura e il suo senso critico hanno fatto da contraltare a fanatismi cristiani, nazionalismi sanguinari, ottusità identitarie. Oggi che è lo Stato di Israele ad essersi ammalto di questi mali terribili, la cura deve venire dal mondo ebraico. Una volta Carlo Ginzburg disse che per sua madre Natalia “essere ebrea voleva dire solidarietà con le vittime, solidarietà con l’ingiustizia, solidarietà non con i vincitori ma con le vittime”. Pensare, anche solo per un attimo, di essere al posto di Aya: forse è questa la chiave.