Aya non deve morire a Gaza: Tajani la faccia venire in Italia
LA GIOVANE IN TRAPPOLA NELLA STRISCIA - La Farnesina batta un colpo. Come università per stranieri di Siena l’abbiamo invitata come “visiting scholar”: ma la chiusura di Rafah lo impedisce
DI TOMASO MONTANARI
I lettori del Fatto quotidiano conoscono Aya Ashour. Ne conoscono la scrittura e il coraggio, la capacità di raccontare e la voglia di vivere, nonostante tutto: e il tutto è che da ottobre è imprigionata a Gaza con la sua famiglia, e che ogni giorno rischia la vita. Proprio venerdì scorso, ha raccontato di essersi trovata in mezzo a un fuoco incrociato di droni e carri armati, tra corpi che cadevano e proiettili ovunque: è viva per miracolo. Aya ha 23 anni, e si è laureata in diritto internazionale (titolo della tesi: “Il ruolo delle donne nella sicurezza e nella pace, secondo la Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza: la Palestina come caso di studio”) pochi giorni prima che Israele iniziasse la sua guerra di sterminio. Da quando ne aveva 17, si è impegnata a difendere i diritti umani, soprattutto quelli dei bambini e delle donne, anche come educatrice in materia di diritto internazionale umanitario, violenza di genere e diritti dei bambini e delle bambine.
Ciò che finora non era noto, è che l’Università per Stranieri di Siena (della quale chi scrive è rettore) ha invitato ufficialmente, diversi mesi fa, Aya Ashour come visiting scholar, perché possa continuare a studiare con noi, a Siena, ciò che le sta a cuore: che oggi è soprattutto il trauma profondissimo del suo popolo. Aya potrebbe studiare in pace, qua in Italia: noi, i nostri studenti e le nostre studentesse, potremmo imparare da lei, ascoltando ciò che ha visto, sentito, studiato in Palestina. È per questo che esistono le università: per costruire contatti, conoscenza, esperienza comune al di là di guerre, nazioni, fili spinati. Abbiamo inviato ad Aya il denaro necessario per il viaggio, e abbiamo chiesto alle autorità consolari italiane in Israele di prepararle il visto: ma la risposta è stata che chi si trova imprigionato a Gaza deve uscire da solo, e solo dopo (a questo punto al Cairo) può chiedere il visto. Ora – dopo mesi di attesa, in una situazione che, per quanto orribile da subito, peggiora continuamente, e visto che si infittiscono le occasioni nelle quali Aya può morire – chiedo pubblicamente al Ministero degli Affari Esteri Italiani di intervenire: se le università italiane, nella loro autonomia protetta dalla Costituzione, invitano ufficialmente qualcuno, dovrebbe esserci un impegno istituzionale perché questi inviti possano concretizzarsi. Ci sono altri casi identici, in questo momento: e il fatto che non parliamo di cittadini italiani, ma di ospiti delle nostre università, non dovrebbe fare la differenza. Anche perché la differenza può essere tra la vita e la morte.
Leggendo i messaggi di Aya su whatsapp, leggendone i post su Instagram e gli articoli sul Fatto è impossibile non riflettere su una atroce banalità: siamo vicinissimi. Geograficamente, ma ancor più esistenzialmente. Studi, lingua veicolare, social media, musica, immaginario sono gli stessi. Ma Aya rischia di essere uccisa, ogni giorno. Ed è prigioniera in una specie di campo di concentramento, dal quale non può uscire. E non per qualcosa che abbia fatto: ma per quello che è. Perché è nata palestinese: per il suo sangue, per la sua identità. Per la sua razza, qualcuno avrebbe detto e ancora oggi direbbe. Ora, io diffido dei paragoni tra realtà storiche imparagonabili, e ancor più della strumentalità con la quale la Shoah viene invocata da molte parti, quasi sempre a sproposito e in modo pressoché sacrilego. Ma per quanto mi sforzi, non riesco a trovare molti altri paragoni nella storia moderna, almeno su questi punti: la persecuzione di un popolo in quanto tale, una incombente volontà di annullamento etnico, la reclusione in una trappola mortale dalla quale non si può fuggire. Oggi l’Occidente appare impotente, paralizzato sia dalla difesa di quel che crede essere il suo interesse, sia dalla volontà di stare dalla parte di Israele e dunque (con un’equazione fallace) degli ebrei.
Per questo, il secondo appello di queste mie righe, è ai vertici ufficiali dell’ebraismo italiano: anche se questo paragone vi indigna, non potete non vedere che la vita di una ragazza di 23 anni completamente innocente è minacciata solo per la sua identità. E questo vale per quasi tutti gli oltre due milioni di palestinesi imprigionati a Gaza: come è possibile che uno Stato che si dice ‘ebraico’ possa oggi fare questo? L’ebraismo della diaspora è stato uno dei lieviti più preziosi della cultura occidentale: la sua infinita intelligenza, la sua cultura e il suo senso critico hanno fatto da contraltare a fanatismi cristiani, nazionalismi sanguinari, ottusità identitarie. Oggi che è lo Stato di Israele ad essersi ammalto di questi mali terribili, la cura deve venire dal mondo ebraico. Una volta Carlo Ginzburg disse che per sua madre Natalia “essere ebrea voleva dire solidarietà con le vittime, solidarietà con l’ingiustizia, solidarietà non con i vincitori ma con le vittime”. Pensare, anche solo per un attimo, di essere al posto di Aya: forse è questa la chiave.
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