A volte vedi....

 



E magari qualcuno a Vicenza, oggi alluvionata, avrà anche sfottuto il proprietario di questa casa che si è dotato di una porta stagna...

Finalmente!

 

Finalmente qualcuno che scrive non seguendo il servile codazzo slurp slurp di molti pennivendoli, evidenziando tra l'altro verità che mi potrebbero indurre, felice come sono, ad acquistare altri due abbonamenti del suo giornale, serio e, soprattutto, libero.
I nuovi sonnambuli
di Marco Travaglio
Dice Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue e badante di Joe Biden, che “dobbiamo muoverci velocemente” contro una fantomatica “minaccia di guerra” fabbricando nuove armi sempre più distruttive, “come è già stato fatto con i vaccini”. E nessun infermiere porta via questa squilibrata che paragona farmaci che hanno salvato tante vite umane a strumenti di morte che ne stermineranno altrettante. Intanto, a Roma, il nuovo Trio Lescano Mantovano-Belloni-Guerini lancia l’ennesimo allarme su una “campagna ibrida russa contro l’Italia” e non solo: “76 Paesi del mondo andranno al voto” e sono tutti “a rischio di interferenze” targate Putin, noto per truccare le elezioni dell’intero globo terracqueo, ma solo dove vince chi non dovrebbe. E telecomanda pure la protesta dei trattori. Ma anche lì non c’è traccia di personale sanitario che si prenda cura di questi acchiappafantasmi. Per capire la follia che annebbia le menti delle classi intellettuali e dirigenti europee basta unire i puntini degli ultimi due anni: più armiamo l’Ucraina e sanzioniamo la Russia, più la Russia avanza in Ucraina e l’Europa si dissangua, i ceti medi e bassi si impoveriscono, crollano i partiti bellicisti e crescono quelli pacifisti e i multipolari, ma purtroppo anche i fascisti e gli ultranazionalisti, votati da chi si sente ancor più solo e meno protetto dinanzi a regole e austerità asimmetriche valide per lui, ma non per i miliardi e le armi inviati a getto continuo a Kiev, che già fa concorrenza sleale sui cereali.
Nello splendido libro I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Cristopher Clark smonta la storia scritta dai vincitori che incolpa in esclusiva gli imperi di Germania e Austro-Ungheria per la Prima guerra mondiale e le conseguenti tragedie del comunismo, del fascismo e del nazismo: “Lo scoppio della guerra non è un giallo di Agatha Christie, alla fine del quale si scopre il colpevole con la pistola ancora fumante accanto a un cadavere. In questa storia… ciascun personaggio principale ne ha in mano una. I tedeschi non erano i soli imperialisti… in preda a ossessioni paranoiche. La crisi che portò alla guerra nel 1914 fu il frutto di una cultura politica condivisa” : destre nazionaliste, liberaldemocratici e socialisti rivoluzionari. Tutti “sonnambuli apparentemente vigili, ma incapaci di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo”. Oggi i sonnambuli vestono i panni degli “euroatlantisti” che ci trascinano spensieratamente verso la terza guerra mondiale, portano i voti con le orecchie ai fascisti e poi, appena escono i sondaggi o si aprono le urne, danno la colpa a Putin per non doversi guardare allo specchio.

L'Amaca

 

Una questione di donne
DI MICHELE SERRA
Il commento più stravagante alla sconfitta della destra in Sardegna è del ministro Lollobrigida, che fa notare, con fierezza, che “la prima donna presidente della Sardegna, così come la prima donna segretaria del Pd, hanno seguito l’esempio della prima donna presidente del Consiglio, che è Giorgia Meloni”. Come è evidente e come è noto, Todde e Schlein sarebbero ancora a casa a esercitarsi nel punto croce se non avessero colto al volo il varco aperto valorosamente da Giorgia, buttandocisi a capofitto e imitandola spudoratamente.
A sostegno del cognastro (cognato-ministro) va detto che la larga maggioranza dei commenti politici post-elettorali non brillano per acutezza o per profondità dell’analisi. Si tratta, in genere, di frasette estorte da qualche microfono e trasformate in ipse dixit, stante la famelica necessità mediatica di virgolettare anche le imprecazioni o gli sbadigli. Ma proprio questa costante minaccia di finire confezionati in qualche pastone, in qualche lancio d’agenzia, in qualche trafelato servizio di tigì, dovrebbe e potrebbe suggerire ai politici molta prudenza, o addirittura una sana astinenza. Va bene il bisogno di visibilità, ma spesso essere visibili, nonché udibili, può diventare imbarazzante.
Vero è che, se non aprissero bocca, poche ore dopo si leggerebbe sui più autorevoli siti e giornali che “X accusa il colpo e si è chiuso in un silenzio eloquente”, mentre magari X, allegrissimo, è a pesca con gli amici, con i quali chiacchiera di tutto, tranne di politica. Ma è un rischio da correre: almeno non ci si può rimproverare di avere collaborato con il carnefice buttando nel famoso tritacarne mediatico quattro parole a vanvera.

mercoledì 28 febbraio 2024

Idiozia sconfinata



Leggere queste notizie da una parte fa male al cuore, dall’altra infonde la consapevolezza che in molte strutture, come ad esempio il British Board of Film Classification, vegetino una pletora di sontuosi imbecilli. Innalzano a film per minori di 12 anni solo se accompagnati da genitori una dei film più belli di sempre, che personalmente ricordo di aver visto per tre domeniche consecutive, tra lo scoramento di mio padre, solo perché gli spazzacamini vengono definiti “ottentotti”, termine dispregiativo con cui i bianchi europei definivano i popoli nomadi dell’Africa meridionale. E allora? Siete a conoscenza voi imbelli albionici della quantità di immagini, di messaggi, di interazioni che roteano nella cervice di un undicenne? Avete mai visto i programmi a loro dedicati nella fascia pomeridiana, di una bassezza culturale imbarazzante? E gli spot per acquistare scarpe da 400 euro quelli non sono vergognosi, non dovrebbero essere calmierati? Fate pena idioti!

L'Amaca

 

È una questione di aritmetica
DI MICHELE SERRA
Todde non è Toninelli potrebbe essere lo slogan (un po’ sommario, come tutti gli slogan) che aiuta a non considerare i cinquestelle solo come una gigantesca “bolla” destinata a scoppiare. L’idea che quel mondo sia solo un magma improvvisato di populisti sempliciotti, con venature filo-russe e complottiste (aiuto, le scie chimiche!) ha buone pezze d’appoggio: ma è riduttiva, e dunque ingannevole.
Quel mondo — fino dal suo sorgere — è una specie di grande vasca di compensazione dei delusi di sinistra e di destra. Nonché il risultato di una rivoluzione anagrafica: trentenni contro la gerontocrazia italiana (andate a rivedere, se non ci credete, l’età media degli eletti “grillini” alle politiche del 2013). I flussi elettorali dicono che i voti grillini provenienti da destra sono rientrati ben presto a casa loro, catalizzati da Meloni. Rimangono, detto per sommi capi, quelli cosiddetti di sinistra.
La legittima diffidenza per Conte (che ha governato con Salvini) non è automaticamente applicabile al suo elettorato. Né a una parte, non piccola, del personale politico del movimento, che in dieci anni ha imparato a fare politica e conoscerne la complessità. Come costruire un’alternativa politica a questo governo di destra, forse di estrema destra, senza i cinquestelle, non è nemmeno una questione politica: è una banale questione aritmetica. La Sardegna questo ha detto.
Poi, ovviamente, ognuno la pensa a suo modo, ed è libero di immaginare che esistano altre strade. Capissimo quali, sarebbe di grande aiuto al dibattito.

Puntinismo e puttanieri

 Bugiardi, pazzi e criminali

di Marco Travaglio
In principio erano le armi a Kiev per sconfiggere la Russia e le sanzioni per mandarla in default. Poi le settantatré malattie di Putin per condurlo alla tomba. Poi il golpe di Prigozhin, o chi per esso, per rovesciarlo come lo zar. Poi la prima controffensiva ucraina, la seconda e la terza, una più irresistibile dell’altra. Poi l’Armata Rotta che ha finito gli uomini, le divise, le munizioni, i missili, i carri armati, le navi e tutto il resto, “combatte con le pale del 1869” e “le dita al posto delle baionette” e batte in ritirata. Ora che l’avanzata russa in quel che resta dell’Ucraina spazza via gli ultimi brandelli di balle dei media europei e soprattutto italiani, ne servono disperatamente di nuove. Ed ecco pronto il fornitore ufficiale, Zelensky, che annuncia liste di putiniani da zittire (si pensava fossero i pacifisti, poi si è saputo che sono russi da espellere: in pratica è furibondo perché i russi sono filo-russi) e ripete che Putin è pronto a invadere l’Europa. Nessuno sa con quali mezzi, uomini e soprattutto motivi, visto che fatica pure a prendersi l’intero Donbass e attaccò l’Ucraina proprio perché non era ancora entrata nella Nato e non rischiava la guerra atomica. Ma sono quisquilie: ci vuole un Recovery bis da centinaia di miliardi per la guerra alla Russia. Cioè: siccome è morto Navalny, facciamo morire altre decine di migliaia di ucraini. Macron si porta avanti col lavoro: “Inviare truppe di terra in Ucraina perché la Russia non vinca questa guerra”, anche se purtroppo “non c’è ancora consenso”. Che costui, spirito guida dei nostri centrini, fosse il politico più stupido d’Europa era noto: ora si sa che è anche il più folle. Con l’aria e i sondaggi che tirano, l’idea di mandare al macello migliaia di giovani europei in una guerra già persa per salvare la faccia tosta sua e di altri leader morenti gonfierà vieppiù i consensi della Le Pen e di tutte le destre dell’Ue. Così alle Europee del 7 giugno vedrà che bel consenso avrà la sua guerra in un continente definitivamente fascistizzato grazie a lui e a quelli come lui.
L’unica opzione che questi manigoldi escludono a priori è negoziare prima che la sconfitta di Kiev e Nato diventi disfatta, con un compromesso che salvi il salvabile (i pezzi di Ucraina ancora in piedi e gli ucraini ancora vivi). Quello che si stava facendo due anni fa in Turchia subito dopo l’invasione russa. Il 28 marzo 2022 un pericoloso putiniano dichiarò: “Lo status neutrale e non nucleare dell’Ucraina siamo pronti ad accettarlo: se ricordo bene, la Russia ha iniziato la guerra per ottenere questo. Poi servirà discutere e risolvere le questioni di Donbass e Crimea. Ma capisco che è impossibile portare la Russia a ritirarsi da tutti i territori occupati: questo porterebbe alla Terza guerra mondiale”. Il suo nome era Volodymyr Zelensky.

Aprite le porte please!



“Tu andrai in prigione, in prigione, in prigione; 
E che ti serva da lezione! (E.Bennato)

Adieu Macchiette!



E poi ci sono loro, le nostre macchiette! Il primo, reduce dall’esperienza del Riformista che ha avuto un seguito eccezionale, oramai sulla via d’estinzione - speriamo -; il secondo, arrivato trafelato dall’Ucraina che grazie alla sua presenza insostituibile ha ancora speranze di sovvertire una sorte apparentemente segnata, pur raggranellando percentuali da panda, continua ad essere soppesato come ago della bilancia centrista (di ‘sta fava). Ebbene i due comici han meditato a lungo su come presentarsi in Sardegna, per agevolare Sora Ducetta, trovando nel paleozoico Soru uno stimolo per affondare l’acerrimo nemico, al secolo la Persona per Bene Giuseppe Conte. Non ci sono riusciti, tra la ola di chi spera ancora in una nazione migliore! Adieu Macchiette!

Reportage


Gli occhi dell’arte per capire la Russia

Più che all’Ermitage, dove sono esposte le opere occidentali, a San Pietroburgo bisogna andare a vedere la raccolta russa, la più grande al mondo, dalle icone ortodosse fino alla post-avanguardia

di Paolo Nori

Dell’Ermitage dicono che sia il Louvre russo, a me non sembra, ma capisco il paragone, l’Ermitage è un grande museo, in un palazzo meraviglioso, nel centro della capitale culturale della Russia.
Io sono 33 anni, che vado in Russia; a Pietroburgo credo di essere stato una ventina di volte e, all’Ermitage, ci son entrato forse tre volte.
Al Museo Russo più di 20 volte. Tutte le volte che sono stato a Pietroburgo. Perché, mentre all’Ermitage c’è l’arte occidentale, al Museo Russo c’è l’arte russa, la più grande collezione al mondo di arte russa, dalle icone alla postavanguardia, e se l’Ermitage sembra il Louvre, il Museo Russo non sembra niente, il Museo Russo è solo il Museo Russo.
(…) Gli scrittori sono stati, per un paio di secoli, Otto e Novecento, i principali nemici del potere sovietico, temuti, sorvegliati, puniti, arrestati, perseguitati, torturati, uccisi e vietati. Non si potevano leggere; non si dovevano leggere. E i russi, di conseguenza, li leggevano: la seconda volta che sono andato in Russia la mia insegnante di russo mi ha chiesto se avevo letto un romanzo di Trifonov, La casa sul lungofiume (andavo ad abitare nella casa che dà il titolo al romanzo, dietro al Cremlino, dove ha abitato anche la figlia di Stalin), e quando io le ho risposto di no e le ho chiesto se lei l’aveva letto, lei mi ha riposto: “Per forza, l’ho letto, era proibito”. I libri proibiti erano i libri da leggere e i russi avevano inventato una pratica, si chiama samizdat: battevano a macchina i libri proibiti, con la carta carbone, e leggevano quelli, quelli erano i libri da leggere, e la censura sovietica non aveva, sulla letteratura, nessun potere, anzi, la censura poteva, in un certo senso, decretare un successo letterario, anche se sottobanco.
La cosa strana che succede adesso, in Russia, è che i libri degli scrittori che sono dichiaratamente contro il potere russo si trovano in tutte le librerie.
I libri di Vladimir Sorokin, Boris Akunin, Dmitrij Bykov l’anno scorso si trovavano senza problemi, nelle librerie russe (anche i classici ucraini, si trovavano). Quest’anno invece avevo sentito dire che i libri si trovavano, ma che per gli inoagenty, definizione poco chiara che è una abbreviazione di inostrannye agenty, cioè agenti stranieri, che dovrebbero essere quei russi che ricevono finanziamenti da entità straniere, e che quindi sono sospetti, avevo sentito che era uscita una legge che i librai russi, se vendevano un libro di un inoagent, lo potevano vendere, ma lo dovevano impacchettare dentro un sacchettino di cellofan non trasparente. Come i giornali porno in Italia qualche decennio fa, avevo pensato quando avevo sentito questa notizia.
La prima cosa che ho fatto, quando siamo stati in libreria, è stata chiedere un libro di un inoagent. Uno qualsiasi.
(…) In questa libreria eravamo stati anche l’estate precedente e avevamo visto, in vetrina, uno slogan sovietico, Miru mir, “Pace al mondo”. Ne era rimasta, in vetrina, solo una parte. Mir. “Pace”. Abbiamo chiesto come mai alla libraia, la libraia ci ha spiegato che a un certo momento hanno sparato alla vetrina, all’altezza della scritta. E che loro, i librai, hanno messo la notizia in Rete e che hanno aperto una sottoscrizione e che, in due ore, hanno raccolto il necessario per sostituire il vetro. Che veniva molta gente che non era mai stata in libreria e chiedeva come potevano aiutarli e loro gli rispondevano “Comprate dei libri”. E che avevano deciso di non rimettere la prima parte dello slogan, “come segno dei tempi che viviamo”, ci ha detto la libraia.
(…) Dopo, eravamo tornati in albergo, nella piazzetta davanti all’Hotel Rossi m’è suonato il telefono, era il Museo Russo. Una signora molto simpatica, non mi ricordo come si chiamava, che mi aveva chiesto che opere volevamo filmare e fotografare e come le volevamo filmare e fotografare. Le avevo risposto che ci sarebbe piaciuto filmarle e fotografarle da davanti, in modo che si vedessero, non di fianco o da dietro, da davanti. E che quali opere volevamo filmare e fotografare non lo sapevo, che avremmo deciso lì, poi, sul momento.
“Ma non le vorrete mica filmare tutte”, mi ha detto lei. “No”, le ho risposto io, “non le vorremo mica filmare tutte”. “Ah”, mi ha detto lei, “meno male. Allora senta”, mi ha detto poi dopo, “lei ci mandi una mail dove mi dice queste cose, come volete filmare e fotografare, cosa volete filmare e fotografare, e ci faccia sapere anche con che strumenti, che videocamere, che luci, che macchine fotografiche, e noi le faremo sapere, adesso domani è venerdì non facciamo in tempo, sabato e domenica noi non ci siamo, quando ripartite voi?”. “Mercoledì”. “Allora dobbiamo fare tutto lunedì, perché martedì il museo è chiuso, lei ci mandi questa mail, che noi intanto così ci mettiamo in moto”. “Grazie”, le ho detto io, e ho chiesto a Claudio e Alessandro e le ho mandato la mail con le cose che ci aveva chiesto.
Uno dei quadri che avrei voluto riprendere, e fotografare, dal davanti, è un quadro davanti al quale mi fermo tutte le volte che vado al Museo Russo. L’ha dipinto Aleksej Sundukov nel 1986 e si intitola “La coda”. Ritrae, da dietro, una fila di persone in coda non si capisce dove, il fondale arancione spento rimanda all’idea dell’Unione Sovietica negli anni nei quali il cartello che si vedeva più spesso, per le strade di Mosca e di Pietroburgo, era “Non funziona”.
Era un periodo in cui, se eri un occidentale, ti offrivano un orologio Raketa, l’ho comprato, un orologio Raketa che era probabilmente un’imitazione perché ha smesso di funzionare subito, era un periodo in cui nei negozi non si trovava niente, la vodka, la carta igienica, il pane e uno come me, che veniva dall’occidente, veniva considerato uno che veniva dal progresso, da un posto in cui le cose funzionavano, era un periodo in cui l’occidente era ammirato, in Unione Sovietica, e era il posto, l’occidente, dove era possibile pubblicare i romanzi che in Unione Sovietica non si pubblicavano, come La coda, il primo romanzo di Vladimir Sorokin, fatto solo di dialoghi di gente in coda, che cominciava con la battuta “Chi è l’ultimo?”.
Sono 150 pagine di dialoghi, alla fine si parla anche di Dino Zoff e della parata che ha fatto, sulla linea, alla fine della partita Italia-Brasile dei Mondiali spagnoli del 1982, un libro singolarissimo che ha rivelato il talento di Sorokin che ultimamente, nei suoi romanzi, come “La giornata di un opricnik”, che ho avuto il privilegio di presentare a Mantova, qualche anno fa, al Festivaletteratura, prevede per la Russia un futuro medievale, se ho capito bene.
Sorokin è stato anche l’oggetto, qualche anno fa, di una contestazione da parte di un gruppo di giovani sostenitori di Putin (idušcie vmeste, “quelli che camminano insieme”), che manifestavano davanti alle librerie contro la natura pornografica dei suoi libri e li bruciavano, i libri. La conseguenza di questi attacchi, all’epoca, fu che i libri di Sorokin tornarono in testa alle classifiche dei libri più venduti. Non c’è più il samizdat, ma la censura è sempre positiva, per un libro.

Donna felice

 

L’altra prima donna
di Marco Travaglio
Siccome la Sardegna è stata retrocessa all’età dei nuraghe da una classe dirigente indecente che si spera verrà spazzata via in giornata (memorabile la legge regionale che impone lo scrutinio entro e non oltre le ore 19, che a metà giornata la Regione dichiara “meramente indicativa”, per dire l’utilità di dare più poteri alle Regioni), scriviamo senza i dati definitivi delle Regionali. Ma alcune cose le sappiamo già.
1) La Meloni, dopo 16 mesi a Palazzo Chigi, è più popolare a Kiev che a Cagliari, grazie al malgoverno suo, del sindaco FdI di Cagliari, Truzzu, e del presidente regionale leghista, Solinas.
2) Alessandra Todde, perfetta incarnazione del populismo gentile e competente dei 5Stelle contiani, sembra aver vinto, ma anche se perdesse di un soffio avrebbe compiuto un miracolo: grazie al curriculum, allo stile fermo ma pacato, al fattore-novità e anche al fattore-donna, ha convinto prima i vertici e poi gli elettori del Pd a sostenerla ed è riuscita a raggiungere il candidato delle tre destre malgrado l’operazione-sabotaggio di Renato Soru. Se poi dovesse anche vincere, diventerebbe la prima presidente di Regione nella storia dei 5Stelle, la prima espressa dall’alleanza M5S-Pd e la Sardegna sarebbe la prima Regione strappata dai progressisti alla destra dal lontano 2015.
3) Il Terzo Polo, per una volta, arriva terzo, ma solo perché correvano in tre: il famoso Centro piace tanto alla gente che piace e ai giornaloni, ma non esiste nella realtà, sempreché si possa chiamare Centro l’ammucchiata di Soru con Calenda, Rifondazione e una lista filo-Hamas (l’Iv renziana non è neppure pervenuta) pur di far perdere i progressisti; e pare che non entrerà neppure in Consiglio regionale. Una prece.
4) L’unica formula vincente contro le destre è un’alleanza fra 5S, un Pd davvero rinnovato e i rossoverdi: quella che sostenne il Conte-2 fino in fondo. Astenersi centrini, perditempo e perdivoti da “campo largo” e “riformismo”.
5) Oltre al buon ricordo lasciato come premier, l’arma segreta di Conte è il fatto di essere il leader più sottovalutato del mondo.
6) Dopo le fumisterie e le ambiguità fin qui esibite sui temi più caldi per tenere insieme i vari Pd, la Schlein dimostra che quando compie una scelta netta la azzecca: quella di scaricare i Soru e gli Zedda, che han fatto il loro tempo (altro che terzo mandato) e puntare sulla più fresca Todde. Il che non vuol dire che ora Pd e M5S debbano andare insieme ovunque a qualunque costo: dipenderà dalla carica di novità dei candidati. Perché è sull’asse nuovo/vecchio, non destra/centro/sinistra né tantomeno moderatismo/estremismo o riformismo/populismo che gli italiani giudicano e votano. Ma, si sa, non c’è peggior sardo di chi non vuol sentire.

Festa e Cappellini

 

La populista senza popolo
DI STEFANO CAPPELLINI
Non c’è cosa peggiore, per una leader populista affezionata alla cantilena “io sono il popolo e voi non siete niente”, che sbattere il muso sul voto popolare.
A Giorgia Meloni è bastato meno di un anno e mezzo a Palazzo Chigi per provare in Sardegna la sgradevole esperienza e dimostrare, suo malgrado, che questa destra di governo è tutt’altro che invincibile: è minoranza nell’isola, dove i candidati delle opposizioni Alessandra Todde e Renato Soru valgono insieme il 54 per cento, e forse le Europee dimostreranno che lo è anche nel Paese. Ci prendiamo la libertà di dirlo anche se al momento in cui scriviamo non c’è ancora il verdetto ufficiale a favore di Todde, perché non è uno 0,1 per cento in più per Truzzu che può cambiare il senso di queste riflessioni.
È sufficiente grattare la vernice dorata dei proclami e della propaganda per scoprire che sotto resta poco. Il voto dei sardi non ha smentito solo il luogo comune dell’imbattibilità di Meloni, ma soprattutto la mitologia del suo legame con il Paese reale. Occorreva infatti uno speciale isolamento dalla realtà per imporre alla coalizione un candidato, il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, che è stato bocciato in misura particolare da chi lo conosceva meglio: i cagliaritani.
Abbagliata dall’idea di estendere i possedimenti territoriali del suo partito, la presidente del Consiglio ha finito per credere alla sua stessa narrazione. Pochi giorni fa è andata in Sardegna a benedire la corsa del suo candidato. Contributo della lista di FdI a Truzzu: 14 per cento. Abituata com’è a dividere il mondo in amici, pochi, e nemici, quasi tutti gli altri, la presidente del Consiglio tende a fidarsi solo della parola di chi la rassicura e la blinda dentro certezze impermeabili ai fatti e, come nel caso delle manganellate della polizia ai ragazzini, impermeabili pure alla decenza.
Sui fatti di Pisa non una parola degna di un premier, nemmeno dopo l’intervento di Sergio Mattarella, come del resto già era accaduto dopo i saluti romani ad Acca Larentia, al contrario, solo rilanci e falsificazioni affidate alle note trumpiane del partito («Disordini alimentati dalla sinistra»).
Difficile per Meloni, che per educazione sentimentale ha una qualche abitudine a vivere in dimensioni parallele — la destra missina si è autorappresentata per decenni come un manipolo di coraggiosi resistenti alla barbarie della democrazia — invertire la tendenza ritrovandosi tra i velluti e gli stucchi di Palazzo Chigi, che in generale non hanno mai aiutato nessuno a fare bagni di umiltà.
Non ne esce meglio il principale rivale interno di Meloni, Matteo Salvini. Se la responsabilità politica del disastro Truzzu è tutta della leader di Fratelli d’Italia, quel cheSalvini porta a casa per la Lega è un risultato modestissimo, sotto il 4 per cento. L’indebolimento di Meloni servirà a poco a Salvini, se questa è la forza elettorale della Lega. Complicato recuperare terreno sull’originale quando il destino ti ha precipitato nei panni della copia.
Per le forze di opposizione, e più ancora per quegli italiani che chiedono al centrosinistra serietà e concretezza per fermare questa destra, la vittoria sarda è un grande balsamo. Per Schlein era fondamentale portare a casa il primo vero successo elettorale della sua segreteria; persino Conte durante la campagna elettorale nell’isola ha dato segnali di interesse verso la costruzione di un’alternativa.
Di motivi per non sopravvalutare la portata di questo successo ce ne sono però molti. Il primo è che sul voto ha pesato il giudizio pessimo che i sardi hanno dato dei cinque anni di giunta Solinas e della maldestra operazione Truzzu con la quale Meloni pretendeva di cancellarli. In Abruzzo, tra pochi giorni, potrebbe essere un’altra storia.
Il secondo motivo è che in Sardegna Pd e M5S hanno passato cinque anni insieme all’opposizione e alla fine hanno costruito con credibilità un’alleanza intorno a Todde, grillina non tentata dalle filastrocche del né destra né sinistra. Tutto il contrario di quanto fin qui è avvenuto a livello nazionale, dove Conte ha lavorato più per distinguersi dal Pd e metterlo in difficoltà appena possibile. Le distanze tra dem e grillini sulla politica estera, e non solo, sono enormi.
Infine resta l’equivoco del “campo largo”: in Sardegna non lo era, mancava quel pezzo di opposizione che si è schierato con Soru e che per poco non ha consentito a Truzzu di farcela. Per il Pd non essere riuscito a sbrogliare il caso Soru è un anticipo delle difficoltà che incontrerà quando si tratterà di fare da perno per mettere in piedi un’alleanza nazionale. Quando, cioè, Matteo Renzi metterà veti su Conte e viceversa; quando sul programma bisognerà trovare sintesi difficili dopo anni di contrapposizioni; quando Carlo Calenda tornerà a non volersi alleare con Fratoianni e Bonelli dopoché sull’isola si è apparentato a Rifondazione comunista e agli indipendentisti di Liberu, che l’8 ottobre commentarono la strage di Hamas in Israele con un post titolato “se non hai niente da perdere o ti arrendi o resisti”.
Nell’estate del 2002 il Pd di Enrico Letta vinse un’importante tornata amministrativa. Sappiamo cosa successe poi a ottobre. Però la Sardegna ha dato un messaggio forte e chiaro: si può fare.

L'Amaca

 

Perché si scomoda la magistratura?
DI MICHELE SERRA
L’apertura di un fascicolo giudiziario sul generale Vannacci per “istigazione all’odio razziale” ha l’evidente demerito di far passare per martire della libertà d’espressione l’autore di una compilation di vecchi luoghi comuni che di provocatorio non hanno un bel nulla.
Vannacci parla all’eterna Italietta (oggi governativa) che chiamava «invertiti» gli omosessuali, pensa che le donne debbano fare la calza e che le migrazioni siano un attentato all’integrità della Nazione.
Sono concetti che sui giornali di destra vengono rimasticati da trent’anni. Fossi Vannacci, chiamerei a correo l’intero archivio di Libero e della Verità, mezzo palinsesto di Retequattro e l’intera produzione social del Salvini («nella piazza Rossa si sta bene perché non ci sono rom, non ci sono mendicanti, non ci sono rompiballe»: non è forse incitamento all’odio razziale e di classe?). Così che il faldone diventi trasportabile solo con dieci Tir e si proclami il non luogo a procedere per insufficienza delle strutture.
Il gioco è risaputo, ed è sempre lo stesso: i Vannacci (che di quella risma non è nemmeno il peggiore) dicono cose concepite apposta per far trasalire i benpensanti democratici. E i benpensanti democratici subito trasaliscono, come se fosse lecito pretendere che l’universo mondo si allinei a precetti che sono tanto virtuosi quanto non somministrabili per legge. Quello delle idee è un campo libero, e con l’eccezione delle vere e plateali istigazioni all’odio etnico (quelli che inneggiano ai forni crematori o brindano agli annegamenti in mare), in democrazia tutto il resto è soggetto a una sola legge, che è quella del confronto. Per esempio il commento della Lega («Avanti generale! Avanti insieme! Avanti Italia!») è così ridicolo che si condanna da solo, senza alcun bisogno di scomodare la magistratura.

Spiegazione

 

Strage Firenze: quattro morti per un ipermercato insensato
VENT’ANNI DI PROTESTE DEI CITTADINI - No al parco. Nel 2004 lo Stato vende l’ex Panificio Militare, il Comune non esercita il diritto di prelazione. È l’inizio della fine: un progetto di cementificazione privata
DI TOMASO MONTANARI
Mohamed El Farhane, Mohamed Toukabri, Taoufik Haidar, Luigi Coclite, Bouzekri Rahimi sono morti a Firenze in un cantiere Esselunga. I subappalti a catena, un precariato selvaggio, la violazione delle norme sulla sicurezza, la mancanza di controlli e la mancanza di formazione, il caporalato, lo sfruttamento bestiale di persone migranti che le nostre leggi riducono a clandestini ma senza il cui lavoro il sistema non si regge, l’assenza di una patente a punti che impedisca alle imprese omicide di lavorare: tutto questo e molto altro avrebbe potuto travolgerli ovunque. Resta il fatto che sono morti nel cantiere di un ipermercato in un quartiere di una città che non ne aveva bisogno. La storia di quel luogo è la stessa storia della distruzione della dignità e della sicurezza del lavoro, perché è la storia del sabotaggio del progetto della Costituzione: non più il pieno sviluppo della persona umana, ma un profitto privato che travolge l’utilità sociale e reca danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Lì sorgeva – siamo nella prima periferia nordoccidentale della città – il Panificio militare. Nel 2004 il primo, cruciale errore: quei 16.300 metri quadrati di proprietà demaniale vengono alienati a privati. Siamo nella fase finale del gigantesco processo di privatizzazione partito nel 1992 (governo Amato). Nel 1999 era stata creata l’Agenzia del Demanio (governo D’Alema), l’agenzia di collocamento che alienerà immobili pubblici per un controvalore di decine di miliardi di euro. L’apice si tocca, nel 2002, con la Patrimonio dello Stato S.p.A di Berlusconi e Tremonti, e nel 2014 lo Sblocca Italia di Matteo Renzi metterà una taglia sul patrimonio immobiliare pubblico, promettendo una quota degli utili ai Comuni che ne favoriranno la dismissione. Oggi il governo Meloni pianifica di vendere beni pubblici per un miliardo l’anno, per venti anni. Una terribile storia bipartisan: rinunciamo allo spazio pubblico, cioè a parchi, luoghi di incontro e di cultura per costruire luoghi di mercato che producono utile privato. Costruiamo un futuro in cui saremo solo consumatori, non persone. Anzi, in cui noi stessi, in corpo e anima, saremo la merce.
A Firenze, dunque, nel 2004 lo Stato vende l’ex Panificio Militare, e il Comune non esercita il diritto di prelazione. È l’inizio della fine: un progetto di cementificazione. Gli abitanti insorgono per farne un parco pubblico, e nel 2005 si riesce a bloccare la speculazione edilizia. Ma, nel 2011, Renzi sindaco annienta le previsioni urbanistiche “e apre la strada che porterà alla costruzione dell’ennesimo supermercato. Così, nel vuoto pianificatorio, vincono cementificazione e rendita” (scrive l’urbanista Ilaria Agostini): a 20 grandi spazi urbani di Firenze viene cambiata la destinazione d’uso, regalandoli al mercato. E non si può dimenticare che se quel pezzo di città fosse rimasto pubblico, qualunque cosa vi si fosse costruita, sarebbe successa molto difficilmente una strage del genere: per l’incredibile situazione normativa che, in tema di appalti, permette ai privati ciò che lo Stato non consente a se stesso. Perché, a dirla tutta, a causare stragi come questa sono imprenditori che usano la libertà che viene loro lasciata comportandosi padroni di tutto, anche della vita dei lavoratori. Sul sito del Comune di Firenze, la scheda sull’ex Panificio militare dice tuttora che “diventerà uno spazio vivibile per gli abitanti della zona”. Questa triste propaganda non nasconde il nesso tra il destino dei corpi individuali e fisici, il destino della democrazia e il destino dello spazio pubblico. Non è un caso che alcune delle più significative forme di resistenza e di proposta di un altro modello sociale siano sorte nelle lotte intorno al destino di parchi urbani.
Nel maggio del 2013, per esempio, il comune di Istanbul progettò di distruggere il parco Gezi – vicino a Piazza Taksim – per farvi appunto un nuovo centro commerciale. Le proteste che ne scaturirono, e che si diffusero poi in altre città della Turchia, furono forse l’ultimo grande gesto collettivo di democrazia in quel grande Paese. Un filo lega la possibilità di essere comunità nello spazio pubblico alla capacità di elaborare proposte politiche che superino la società di mercato in cui tutto è merce, e non c’è spazio né per un parco né per un lavoro sicuro né per i diritti dei migranti, schiavi del profitto privato e insieme ostaggi di una politica fondata sulla paura.
Per questo, come ha chiesto l’abate Bernardo di San Miniato, il cantiere Esselunga dovrebbe ora lasciare spazio solo a quel parco che i cittadini del quartiere chiedevano (e certo non basta il triste giardinetto che, nel progetto attuale, dovrebbe accompagnare il supermercato). Ora dovrebbe essere proprio Esselunga a capirlo, donando il terreno alla città. Ma se così non fosse, una amministrazione comunale degna di questo nome dovrebbe lottare per ogni mezzo per rendere di nuovo comune ciò che è stato privatizzato. Per restituirlo alla vita.

domenica 25 febbraio 2024

Libro contemporaneo



Fosse contemporaneo, Dostoevskij quel libro lo avrebbe intitolato “Volodymyr”… (spera ancora di battere la Russia e la ducetta con Ursula lo rimpingueranno ancora di armi. Armi. Armi)

Forza sardi!

 

Non c’è miglior sardo…
di Marco Travaglio
Oggi il popolo sardo ha una grande responsabilità, perché le Regionali in Sardegna potrebbero avere conseguenze politiche più importanti delle Europee in tutta Italia. Le Europee sono abbastanza scontate: la classifica dei partiti dovrebbe confermare quella delle Politiche, con qualche lieve spostamento in su o in giù (il M5S cresce e Conte è molto sopra la Schlein nei sondaggi, ma l’astensione al Sud rischia di penalizzarli più di altri partiti e rende improbabile un sorpasso repentino sul Pd). In Sardegna invece il centrodestra rischia molto di più. Gli elettori sardi hanno quattro opzioni.
1) Eleggere presidente il sindaco-sciagura di Cagliari Paolo Truzzu (FdI) e consacrare, ove mai ve ne fosse bisogno, il regno della Meloni sul centrodestra, blindandone la maggioranza per chissà quanto tempo.
2) Punire Truzzu per i disastri di Cagliari che minaccia di ripetere su scala regionale, ma senza tradire il centrodestra: cioè fare come suggeriscono sottobanco i leghisti, usando il voto disgiunto per una lista di destra e per Renato Soru come presidente (che così ruberebbe non solo a sinistra, ma anche a destra e Truzzu perderebbe, con grave scorno per la Meloni e grande gioia sia per Salvini sia per il centrosinistra).
3) Eleggere Soru presidente, premiando un dinosauro che aveva già governato la Sardegna, si era impegnato a farlo per un solo mandato, si era ricandidato per il secondo e aveva perso, aveva comprato l’Unità e l’aveva fatta fallire (ora è imputato per bancarotta fraudolenta per distrazione e dissipazione), si era fatto eleggere in Europa e ora fa ciò che rimproverava a Michela Murgia nel 2014 (“danneggia la sinistra, è di destra”), incapace com’è di accettare l’idea che il suo tempo è finito: fa concorrenza al centrosinistra (e al Pd della Schlein, dopo averla sostenuta alle primarie) con un’arlecchinesca coalizione Azione-Rifondazione senz’alcuna speranza di vincere, ma con molte speranze di far perdere il centrosinistra o, in alternativa, di essere decisivo se nessuna coalizione ottenesse il 40% e avesse bisogno di una ruotina di scorta.
4) Eleggere Alessandra Todde, ex manager Olidata, ex sottosegretaria 5Stelle, candidata non solo di Conte, ma anche di Pd, Sinistra-Verdi e una lista civica autonomista: cioè l’unica aspirante presidente che può battere le destre e, dal laboratorio sardo, lanciare il primo seme e battere il primo colpo di quel fronte progressista che ogni cittadino perbene spera di rivedere presto a Palazzo Chigi. Con l’opzione 1, in Italia non cambierebbe nulla. L’opzione 3 è pure fantascienza. Ma la 2 e soprattutto la 4 cambierebbero molte cose: il giorno della fine di questo governo da incubo sarebbe più vicina, o meno lontana.

L'Amaca

 

I ragazzi stiano a casa
DI MICHELE SERRA
Risparmio le ovvietà contro le brutalità poliziesche dei giorni scorsi. A parte i leghisti, che sono sempre in prima fila quando si tratta di esaltare i modi bruschi e la giustizia sommaria (la Lega resta pur sempre il partito del cappio in Parlamento e dei sindaci e deputati pistoleros), tutti o quasi sono d’accordo nel sostenere che la polizia, in una democrazia, deve cercare di darsi criteri democratici. I celerini di Scelba erano i figli di un’altra Italia: nei Cinquanta e nei Sessanta si sparava sui cortei degli operai e dei braccianti. Qualche passetto in avanti lo abbiamo fatto, teniamocelo stretto. Né vale, come alibi politico di chi alza le mani indossando una divisa, l’idea che i ragazzi in corteo siano “estremisti”, e gridino cose sconvenienti. Anche a me non garba che si inneggi ad Hamas, e molte delle cose (non tutte) che gridano quelli dei centri sociali mi sembrano scioccamente feroci.
Ma è raro, da che mondo è mondo, che i cortei siano azzimati, gli slogan equilibrati e i manifestanti non calpestino le aiuole. Specie se si è ragazzi, il tempo a disposizione per diventare conformisti è ancora tanto. Gestire l’emotività della piazza non è facile, ma è uno dei compiti fondamentali delle forze dell’ordine.
Sono anni che si sente dire: i giovani se ne fregano della politica, sono chiusi in casa a cincischiare con i social, non hanno più passioni e idee forti… Certo, se quando poi mettono il naso fuori li manganellano, non c’è molta speranza di invertire la tendenza; o meglio, significa che la vera speranza di molti adulti è che rimangano in casa e non si impiccino di cose che non li riguardano. Si iscrivano al liceo del Made in Italy (fiasco totale) e scrivano letterine patriottiche. Invece di fare politica facciano regime, e più nessuno si farà del male.

sabato 24 febbraio 2024

Al peggio…


“Fratelli d’Italia difende le regole democratiche di convivenza che si basano sul diritto di manifestare e il dovere di farlo pacificamente e nel rispetto della legge. La sinistra che spalleggia i violenti è la causa dei disordini ai quali abbiamo assistito”

Buona serata…

Già la scuola!

 

Un altro governo di incapaci va a sbattere sulla scuola
DI DANIELA RANIERI
Tutti i governi composti da incapaci vanno a sbattere sulla Scuola. È una legge, una delle poche rispettate in Italia, cui obbediscono scrupolosamente sia la destra sia la cosiddetta sinistra. Tutta l’imbecillità, la vanità, l’infantilismo e l’incultura dei governanti confluiscono nelle cosiddette riforme della Scuola, perché è uno degli ambiti della vita sociale in cui è possibile drenare fondi (come si fa nella Sanità pubblica senza problemi) e al contempo, ridicolmente, mettere del proprio dal punto di vista ideologico per creare la società di domani.
Il ministro del Made in Italy (comica intitolazione decisa dal governo patriottico e sovranista), Urso, e quello della cosiddetta Istruzione e del presunto Merito, Valditara, si sono inventati, insieme, il Liceo del Made in Italy, una specie di incubatrice della futura classe dirigente, anzi un “baluardo” per “valorizzare il talento italiano su scala internazionale” (Urso) e “valorizzare e promuovere le eccellenze italiane” (Valditara). Ben 92 nuovi istituti erano pronti ad accogliere i futuri ambasciatori del Parmigiano e della carne chianina, con un piano di studi simile a quello del Liceo delle Scienze umane, con un po’ più di Diritto e Economia, un po’ di Storia dell’Arte nel biennio e la riduzione delle ore per la seconda lingua straniera (vade retro!). Serviva, questo liceo? La risposta l’hanno data gli studenti, scegliendolo in 375 (su 468.750). È lo 0,08% del totale, col caso struggente di un (1) solo iscritto all’Istituto Munari di Crema, dove il preside voleva sorteggiare e deportare studenti dall’altro Liceo così da rimpinzare il pollaio di eccellenze (quanto zelo per compiacere i ministri), al che si sono ribellati i genitori. Povero Valditara: credeva che il nuovo liceo avrebbe “arricchito l’offerta della nostra scuola superiore, dando quelle risposte formative che il sistema Paese richiede”! A quanto pare il sistema Paese non richiede le risposte formative di Valditara, semmai servisse una prova che questi governanti non conoscono il mondo e il momento in cui viviamo: invece di fare un liceo di Geopolitica, si inventano l’equivalente della Scuola della guerra alla carne sintetica e alla farina di grilli di Lollobrigida.
A ben vedere, l’agire di Valditara è dentro un solco già tracciato e si basa sul losco equivoco per cui la scuola serve a immettere capitale umano nel “mondo del lavoro” (salari sotto la decenza, precarietà e sfruttamento), e non a formare cittadini consapevoli. Non a caso Valditara è stato relatore in Senato della riforma Gelmini (8 miliardi di tagli), un ministro che onorava Istruzione, Università e Ricerca asserendo l’esistenza di fantomatici tunnel per neutrini scavati tra l’Abruzzo e Ginevra. È il solco dell’“Alternanza scuola-lavoro” di Renzi, che ora si chiama “Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento” e sarebbe meglio chiamare “Alternanza scuola-schiavismo con probabile esito di morte”, visto che a causa di essa sono già morti 18 studenti e 300 mila si sono infortunati.
Tutto sotto le insegne dell’altra impostura che Meloni ha importato dal mondo di Renzi: il “merito”, trastullo preferito delle élite neo-liberiste per legittimare la disuguaglianza, la cattiva coscienza del darwinismo sociale di destra e pseudo-sinistra. Basta guardare il video di presentazione del liceo fallito: un po’ Open to meraviglia, un po’ brochure di albergo di lusso per americani creduloni, tutto “valorizzazione e promozione delle eccellenze italiane”, “tradizione e innovazione”, “scenari che han contribuito allo sviluppo del Made in Italy”… Fuffa, che infatti ha convinto solo 375 studenti. Semmai non fosse ancora chiaro che l’egemonia culturale non si impone dall’alto e, se non sei Giovanni Gentile, è meglio che togli le mani dalla Scuola perché ti fai male.
(La didattica del governo di destra: se gli studenti manifestano contro il massacro a Gaza, li fa manganellare dalla polizia).

La Porta e la Lingua

 

L’Equivicino
di Marco Travaglio
Ventun anni fa, al posto di Meloni e Salvini, litigavano Bossi e Fini perché quest’ultimo voleva dare il voto agli immigrati. Bruno Vespa invitò Fini a Porta a Porta, ma non Bossi, che protestò ma fu invitato due settimane dopo, quando ormai la polemica era evaporata. E La Padania domandò maliziosa: perché Vespa ha rinunciato a uno scontro fra i due ministri che gli avrebbe procurato, una volta tanto, un picco di ascolti? Lo sventurato rispose: “Non volevo compromettere la stabilità del governo”. Come se fosse un problema suo. Nel 1972, al posto di Bernstein e Woodward imbeccati da Gola Profonda sul Watergate, Vespa si sarebbe mangiato le carte per non compromettere la stabilità di Nixon. Ma è fatto così: crede che il giornalista sia una via di mezzo fra il manutentore e l’estintore. Che le uniche fonti attendibili siano quelle ufficiali (infatti nel 1969 annunciò alla Nazione che “il colpevole della strage di piazza Fontana è Pietro Valpreda”, poi totalmente scagionato; e nel 1980, subito dopo la strage di Bologna, ipotizzò un’esplosione delle cucine di un ristorante vicino alla stazione). E che l’imparzialità sia leccare tutti i potenti, di destra e di sinistra, con lo stesso trasporto. Come disse Gian Antonio Stella, “si crede equidistante, invece è equivicino”. Marcelle Padovani del Nouvel Observateur confessò di non trovare le parole per spiegare ai francesi cosa sia Porta a Porta. E il Financial Times, dopo la sceneggiata del Contratto con gli Italiani di B., scrisse inorridito: “In alcuni Paesi i politici in tv subiscono un giornalismo ‘da mastini’, interviste sospettose e indagatorie poco rispettose, che alla lunga corrodono la fiducia dell’elettorato nei leader eletti. Ma lo show Porta a Porta va decisamente in un’altra direzione. Praticamente è uno spot elettorale di 90 minuti su un canale della tv di Stato”.
Ogni tanto qualcuno di centrosinistra si lamenta per i servizietti di Vespa al centrodestra e ne viene regolarmente zittito: ma li faccio anche a voi, che venite più spesso degli altri (memorabile il record tuttora ineguagliato di Bertinotti). Infatti fu l’Ulivo a portare da una a quattro le sue serate settimanali. Ora Pd e 5S protestano per il doppio soffietto alla Meloni dell’altroieri (prima a Cinque Minuti e poi a Porta a Porta): sia per l’assenza di domande vere (una novità), sia perché le balle dell’insetto hanno financo superato quelle della premier (“Il sito Politico la indica come il leader più influente d’Europa”: falso, il primo è il polacco Tusk, mentre la Meloni prevale in una sottocategoria e viene definita il “camaleonte politico per eccellenza”). Proteste sacrosante, se non fosse che Elly Schlein si accinge a duettare con la Meloni proprio chez Vespa. Ma smettere di andarci?

L'Amaca

 

Imbavagliare i morti
di Michele Serra
Per definire ripugnante il sequestro di Stato del cadavere di Navalny non serve scomodare l’etica, basterebbe l’ordinario rispetto del dolore dei familiari, comprensibile anche dal più bieco degli sbirri.
La sola giustificazione logica di un simile, sadico oltraggio è che i carcerieri di Navalny vogliano impedire che un’autopsia stabilisca le cause della morte. Imbavagliare i vivi, imbavagliare anche i morti. In termini criminologici: occultamento di cadavere.
Ammesso che sia interessante saperlo, non sono un difensore a priori di quel coacervo, in realtà molto vago e difforme, che chiamiamo Occidente. Ne considero i limiti e le ipocrisie. La crapula consumista, la perdita di senso. L’imperialismo economico. Per la serie: ognuno guardi alle sue piaghe, e tra le sue pieghe.
Ma una porcheria del genere, donne alle porte di una galera per chiedere di riavere, almeno da morto, il loro figlio e marito, e la porta non si apre, dà la misura dell’oltranza disumana di un regime che può piacere solo ai perversi, o ai servi, o ai fascisti, o agli stalinisti, o a chi non si è mai posto nemmeno mezza domanda (non sulla politica: sulla vita) e non si è mai dato nemmeno mezza risposta.
Nelle nostre vecchie e marce democrazie, davanti a quel carcere ci sarebbero centinaia di telecamere, e migliaia di persone a gridare “aprite!”, e un Parlamento in fiamme che discute e litiga.
Noi siamo pieni di misteri e di soprusi, anche di bombe e di mafia, di bugie e di sangue: non abbiamo mai saputo come rimediare ai nostri orrori ma almeno possiamo saperli, e possiamo dirli. Chi tifa per Putin tifa per una vita muta.

Scintilla



Ho avuto l’onore e la fortuna d’assaggiarlo a casa di amici ieri sera, introvabile, indescrivibile, potente, torbato, prima che s’estinguesse m’ha arroccato la grotta in favella, sublimando papille ed olfatto, pretendendo, esigendo tabacco per scoccare scintille di tripudio, tra la ola dei sensi e la torcida neuronica appagante l’inevitabile sforzo gastrico ed epatico. Lunga vita al whiskey regale di casati come questo!



La politica mestierante

 


Assistiamo impotenti all'ennesima commedia all'italiana, il regno della politica come mestiere, feudo di chi, dal consigliere comunale alle più alte cariche, altera incommensurabilmente l'idea filosofica della Politica, l'intrinseco servizio alla comunità che ne scaturirebbe se fosse normodotato il pensiero che il dedicarsi agli altri, qualsiasi colore s'indossi, non sia per sempre. Ed invece apriti cielo! Paleozoici energumeni sbraitanti alla luna, in cerca di una riconferma che manleverebbe loro dal ricercare il solito ed usuale anfratto in qualche partecipata per il dolce scazzeggio attendente la smagliante pensione.

Due mandati, dieci anni. Sono sufficienti per far politica al riparo dai pericoli sparsi ovunque, degeneranti la propria dignità? Si, bastano ed avanzano, come il Movimento 5 Stelle da sempre attua al suo interno, tra la derisione generale dei mestieranti. 

Un presidente di regione dispone di tempo congruo per materializzare i suoi progetti nei due mandati? Altroché! 

E allora? Fermo restando che, personalmente, agogno la scadenza del doppio mandato totiano in Liguria come una liberazione, è eclatante la ritrosia del Cazzaro in merito al termine del governatorato veneto di Zaia, che lo trasformerà in un suo avversario della poltrona di segretario della Lega. 

Ed infine Bonaccini: Bonaccini prova per qualche istante a fare il politico con parvenza di sinistra! Prova a staccarti dai tuoi colleghi pachidermi che nella politica vedono solo un mestiere, molto ben remunerato. Provaci e vedrai che comprenderai di esserti anche tu trasformato, in peggio. 

Nota per il grande pensatore leghista  Calderoli che ha minacciato di estendere il limite dei due mandati ai parlamentari: ma ben venga questa novità, che trasformerebbe l'intero parlamento in un opificio di idee e miniera di iniziative, mentre ora, pensando a Fassino, Casini ed egli stesso, appare come un coacervo di pensionati imbolsiti, storditi dal bisso ed incapaci di comprendere una vita lontana dalla ribalta. 

    

Sbadiglio bloccato



Sbadigliando mi ricordo che l’appisolante partita con i francesi si giocherà alle 18:45. Entro in casa con noncuranza in lieve ritardo, accendo la tv e vedo dei rossoneri esultare: evvvai! Invece erano le renne. Rimango seduto col piumino con fronte già imperlata, presagendo un funesto baratro già vissuto. Jovic per fortuna m’attenua la palpitazione, per poco. Osservo la difesa pioliana trangugiando inutilmente Maalox. Il 2-2 non mi manleva dall’essermi rotto i coglioni del portoghese ridente a ‘stokazzo, che spero se ne vada al più presto. Domenica contro la Dea ho deciso: mi faccio una flebo di… “Sedatavooo”! Pioli Out! Leao Out! Ed infine panterina afflosciata in porta: svegliati Mike e torna in te!

Attorno al fulcro

 

Fate con comodo
di Marco Travaglio
Da due anni, da quando Putin ha invaso l’Ucraina, riceviamo accuse di putinismo da chi fino al 2022 era putiniano. E attendiamo con ansia che questi paraculi ci indichino una sola riga pubblicata dal Fatto in 15 anni a favore di Putin: attesa vana, visto che a Putin e alle sue cheerleader abbiamo riservato sempre e soltanto feroci critiche. Siccome abbiamo tanti difetti, ma non l’incoerenza e l’ipocrisia, non abbiamo atteso l’Ucraina per capire che Putin è un guerrafondaio (cioè un perfetto allievo della Nato, che scatena massacri in giro per il mondo senza neppure chiamarli guerre): ci bastavano la Cecenia (1999), la Georgia (2008), la Crimea (2014) e la Siria (2015). E non abbiamo atteso la morte di Navalny per capire che chiunque si opponga a Putin finisce male: Anna Politkovskaja, per tacer degli altri, fu uccisa nel 2006.
Dov’erano intanto i politici (non solo Salvini: quasi tutti) e i giornalisti che oggi si ammantano di antiputinismo? Pochissimi dicevano ciò che dicono oggi. Moltissimi scrivevano l’opposto, o si trinceravano dietro la realpolitik. E intendiamoci: ci sono rapporti istituzionali e commerciali che vanno mantenuti con tutti i regimi, anche i peggiori, come del resto continuiamo a fare con tiranni perfino peggiori di Putin (basti pensare da quali canaglie compriamo gas e petrolio da quando non li compriamo più da Putin contro i nostri interessi). Ma qui parliamo degli amorosi sensi per l’autocrate russo che travalicano la doverosa diplomazia. Mattarella distribuì cavalierati e onorificenze a 30 boiardi putiniani. B. faceva bisbocce con “l’amico Volodia”, “uomo di pace” e “dono di Dio” (tra gli applausi dei forzisti, inclusi quelli vivi). Il premier Letta affiancò Putin alle Olimpiadi di Sochi 2014 mentre gli altri leader occidentali disertarono contro le persecuzioni ai gay. Renzi (con Calenda) autorizzò la vendita di “Lince” Iveco dopo l’embargo militare post-Crimea e aumentavano la dipendenza dal gas russo, fece pappa e ciccia con Putin in vari vertici, si batté contro le sanzioni e finì in bellezza nel Cda di una società di car sharing partecipata da una banca di Stato russa. Di Maio inviò il fido Di Stefano al congresso di Russia Unita, con cui Salvini firmò un accordo di partnership mai disdetto. Meloni, nel libro del 2001, esaltò la Russia che “difende l’identità cristiana e combatte il fondamentalismo islamico”. Giornale, Libero e Foglio leccavano B. che leccava Putin, e viceversa. Repubblica ospitò per sei anni la propaganda putiniana a pagamento nell’inserto Russia Today. Poi, con calma, intuirono tutti chi è Putin. Quindi adesso potrebbero persino capire che i regimi che arrestano e perseguitano Assange non sono democrazie. Ma con comodo: fra una ventina d’anni.

L'Amaca

 

Poveri Pupi senza via di fuga
DI MICHELE SERRA
Lo so, ci sono problemi ben più gravi, nel mondo. Ma nonostante questo, o forse proprio per questo, la domanda del giorno, per me, è la seguente: riusciremo a evitare che un’eventuale separazione Ferragni-Fedez occupi, sui media di ogni ordine e grado, lo stesso spazio occupato dalla separazione Totti-Ilary? La risposta è no, non ci riusciremo.
Ci diranno tutto, ora per ora, essendo quelle due persone (anche per loro scelta) personaggi di spicco dell’immenso Teatrino dei Pupi che i media vecchi e nuovi gestiscono in comproprietà. Chi sono i burattinai? Ma siamo noi, che diamine, con i nostri clic. Prima li facciamo vincere, poi li facciamo perdere, prima li facciamo diventare ricchi e famosi, poi sciagurati e colpevoli (ci sono più inchieste sui pandori di Ferragni che sul cartello di Medellín).
Che siano persone in carne e ossa è un dubbio che raramente ci coglie, e la sola giustificazione è che forse quel dubbio non è venuto nemmeno a loro, nel momento in cui si sono consegnati, mani e piedi, alla legge dei clic.
Forse perché uno dei due l’ho conosciuto, e non mi ha fatto una cattiva impressione, mi dispiace vederlo in balia del suo stesso gioco. Per inguaribile ottimismo, quando vedo la preda braccata dai cani spero sempre che gli resti una via di fuga. Solo che “via di fuga” significa fuga.
Vuol dire andarsene, sparire nel profondo della macchia, o perlomeno provarci. Ci sono ancora margini di sparizione, in questo mondo atrocemente esposto? E sparire dove, poi?
Esiste ancora un altrove dal quale farsi inghiottire, o si è per sempre prigionieri dello stesso palcoscenico sul quale prima piovevano applausi e quattrini, oggi fischi e richieste di rimborsi?