martedì 27 febbraio 2024

Reportage


Gli occhi dell’arte per capire la Russia

Più che all’Ermitage, dove sono esposte le opere occidentali, a San Pietroburgo bisogna andare a vedere la raccolta russa, la più grande al mondo, dalle icone ortodosse fino alla post-avanguardia

di Paolo Nori

Dell’Ermitage dicono che sia il Louvre russo, a me non sembra, ma capisco il paragone, l’Ermitage è un grande museo, in un palazzo meraviglioso, nel centro della capitale culturale della Russia.
Io sono 33 anni, che vado in Russia; a Pietroburgo credo di essere stato una ventina di volte e, all’Ermitage, ci son entrato forse tre volte.
Al Museo Russo più di 20 volte. Tutte le volte che sono stato a Pietroburgo. Perché, mentre all’Ermitage c’è l’arte occidentale, al Museo Russo c’è l’arte russa, la più grande collezione al mondo di arte russa, dalle icone alla postavanguardia, e se l’Ermitage sembra il Louvre, il Museo Russo non sembra niente, il Museo Russo è solo il Museo Russo.
(…) Gli scrittori sono stati, per un paio di secoli, Otto e Novecento, i principali nemici del potere sovietico, temuti, sorvegliati, puniti, arrestati, perseguitati, torturati, uccisi e vietati. Non si potevano leggere; non si dovevano leggere. E i russi, di conseguenza, li leggevano: la seconda volta che sono andato in Russia la mia insegnante di russo mi ha chiesto se avevo letto un romanzo di Trifonov, La casa sul lungofiume (andavo ad abitare nella casa che dà il titolo al romanzo, dietro al Cremlino, dove ha abitato anche la figlia di Stalin), e quando io le ho risposto di no e le ho chiesto se lei l’aveva letto, lei mi ha riposto: “Per forza, l’ho letto, era proibito”. I libri proibiti erano i libri da leggere e i russi avevano inventato una pratica, si chiama samizdat: battevano a macchina i libri proibiti, con la carta carbone, e leggevano quelli, quelli erano i libri da leggere, e la censura sovietica non aveva, sulla letteratura, nessun potere, anzi, la censura poteva, in un certo senso, decretare un successo letterario, anche se sottobanco.
La cosa strana che succede adesso, in Russia, è che i libri degli scrittori che sono dichiaratamente contro il potere russo si trovano in tutte le librerie.
I libri di Vladimir Sorokin, Boris Akunin, Dmitrij Bykov l’anno scorso si trovavano senza problemi, nelle librerie russe (anche i classici ucraini, si trovavano). Quest’anno invece avevo sentito dire che i libri si trovavano, ma che per gli inoagenty, definizione poco chiara che è una abbreviazione di inostrannye agenty, cioè agenti stranieri, che dovrebbero essere quei russi che ricevono finanziamenti da entità straniere, e che quindi sono sospetti, avevo sentito che era uscita una legge che i librai russi, se vendevano un libro di un inoagent, lo potevano vendere, ma lo dovevano impacchettare dentro un sacchettino di cellofan non trasparente. Come i giornali porno in Italia qualche decennio fa, avevo pensato quando avevo sentito questa notizia.
La prima cosa che ho fatto, quando siamo stati in libreria, è stata chiedere un libro di un inoagent. Uno qualsiasi.
(…) In questa libreria eravamo stati anche l’estate precedente e avevamo visto, in vetrina, uno slogan sovietico, Miru mir, “Pace al mondo”. Ne era rimasta, in vetrina, solo una parte. Mir. “Pace”. Abbiamo chiesto come mai alla libraia, la libraia ci ha spiegato che a un certo momento hanno sparato alla vetrina, all’altezza della scritta. E che loro, i librai, hanno messo la notizia in Rete e che hanno aperto una sottoscrizione e che, in due ore, hanno raccolto il necessario per sostituire il vetro. Che veniva molta gente che non era mai stata in libreria e chiedeva come potevano aiutarli e loro gli rispondevano “Comprate dei libri”. E che avevano deciso di non rimettere la prima parte dello slogan, “come segno dei tempi che viviamo”, ci ha detto la libraia.
(…) Dopo, eravamo tornati in albergo, nella piazzetta davanti all’Hotel Rossi m’è suonato il telefono, era il Museo Russo. Una signora molto simpatica, non mi ricordo come si chiamava, che mi aveva chiesto che opere volevamo filmare e fotografare e come le volevamo filmare e fotografare. Le avevo risposto che ci sarebbe piaciuto filmarle e fotografarle da davanti, in modo che si vedessero, non di fianco o da dietro, da davanti. E che quali opere volevamo filmare e fotografare non lo sapevo, che avremmo deciso lì, poi, sul momento.
“Ma non le vorrete mica filmare tutte”, mi ha detto lei. “No”, le ho risposto io, “non le vorremo mica filmare tutte”. “Ah”, mi ha detto lei, “meno male. Allora senta”, mi ha detto poi dopo, “lei ci mandi una mail dove mi dice queste cose, come volete filmare e fotografare, cosa volete filmare e fotografare, e ci faccia sapere anche con che strumenti, che videocamere, che luci, che macchine fotografiche, e noi le faremo sapere, adesso domani è venerdì non facciamo in tempo, sabato e domenica noi non ci siamo, quando ripartite voi?”. “Mercoledì”. “Allora dobbiamo fare tutto lunedì, perché martedì il museo è chiuso, lei ci mandi questa mail, che noi intanto così ci mettiamo in moto”. “Grazie”, le ho detto io, e ho chiesto a Claudio e Alessandro e le ho mandato la mail con le cose che ci aveva chiesto.
Uno dei quadri che avrei voluto riprendere, e fotografare, dal davanti, è un quadro davanti al quale mi fermo tutte le volte che vado al Museo Russo. L’ha dipinto Aleksej Sundukov nel 1986 e si intitola “La coda”. Ritrae, da dietro, una fila di persone in coda non si capisce dove, il fondale arancione spento rimanda all’idea dell’Unione Sovietica negli anni nei quali il cartello che si vedeva più spesso, per le strade di Mosca e di Pietroburgo, era “Non funziona”.
Era un periodo in cui, se eri un occidentale, ti offrivano un orologio Raketa, l’ho comprato, un orologio Raketa che era probabilmente un’imitazione perché ha smesso di funzionare subito, era un periodo in cui nei negozi non si trovava niente, la vodka, la carta igienica, il pane e uno come me, che veniva dall’occidente, veniva considerato uno che veniva dal progresso, da un posto in cui le cose funzionavano, era un periodo in cui l’occidente era ammirato, in Unione Sovietica, e era il posto, l’occidente, dove era possibile pubblicare i romanzi che in Unione Sovietica non si pubblicavano, come La coda, il primo romanzo di Vladimir Sorokin, fatto solo di dialoghi di gente in coda, che cominciava con la battuta “Chi è l’ultimo?”.
Sono 150 pagine di dialoghi, alla fine si parla anche di Dino Zoff e della parata che ha fatto, sulla linea, alla fine della partita Italia-Brasile dei Mondiali spagnoli del 1982, un libro singolarissimo che ha rivelato il talento di Sorokin che ultimamente, nei suoi romanzi, come “La giornata di un opricnik”, che ho avuto il privilegio di presentare a Mantova, qualche anno fa, al Festivaletteratura, prevede per la Russia un futuro medievale, se ho capito bene.
Sorokin è stato anche l’oggetto, qualche anno fa, di una contestazione da parte di un gruppo di giovani sostenitori di Putin (idušcie vmeste, “quelli che camminano insieme”), che manifestavano davanti alle librerie contro la natura pornografica dei suoi libri e li bruciavano, i libri. La conseguenza di questi attacchi, all’epoca, fu che i libri di Sorokin tornarono in testa alle classifiche dei libri più venduti. Non c’è più il samizdat, ma la censura è sempre positiva, per un libro.

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