lunedì 26 febbraio 2024

Spiegazione

 

Strage Firenze: quattro morti per un ipermercato insensato
VENT’ANNI DI PROTESTE DEI CITTADINI - No al parco. Nel 2004 lo Stato vende l’ex Panificio Militare, il Comune non esercita il diritto di prelazione. È l’inizio della fine: un progetto di cementificazione privata
DI TOMASO MONTANARI
Mohamed El Farhane, Mohamed Toukabri, Taoufik Haidar, Luigi Coclite, Bouzekri Rahimi sono morti a Firenze in un cantiere Esselunga. I subappalti a catena, un precariato selvaggio, la violazione delle norme sulla sicurezza, la mancanza di controlli e la mancanza di formazione, il caporalato, lo sfruttamento bestiale di persone migranti che le nostre leggi riducono a clandestini ma senza il cui lavoro il sistema non si regge, l’assenza di una patente a punti che impedisca alle imprese omicide di lavorare: tutto questo e molto altro avrebbe potuto travolgerli ovunque. Resta il fatto che sono morti nel cantiere di un ipermercato in un quartiere di una città che non ne aveva bisogno. La storia di quel luogo è la stessa storia della distruzione della dignità e della sicurezza del lavoro, perché è la storia del sabotaggio del progetto della Costituzione: non più il pieno sviluppo della persona umana, ma un profitto privato che travolge l’utilità sociale e reca danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Lì sorgeva – siamo nella prima periferia nordoccidentale della città – il Panificio militare. Nel 2004 il primo, cruciale errore: quei 16.300 metri quadrati di proprietà demaniale vengono alienati a privati. Siamo nella fase finale del gigantesco processo di privatizzazione partito nel 1992 (governo Amato). Nel 1999 era stata creata l’Agenzia del Demanio (governo D’Alema), l’agenzia di collocamento che alienerà immobili pubblici per un controvalore di decine di miliardi di euro. L’apice si tocca, nel 2002, con la Patrimonio dello Stato S.p.A di Berlusconi e Tremonti, e nel 2014 lo Sblocca Italia di Matteo Renzi metterà una taglia sul patrimonio immobiliare pubblico, promettendo una quota degli utili ai Comuni che ne favoriranno la dismissione. Oggi il governo Meloni pianifica di vendere beni pubblici per un miliardo l’anno, per venti anni. Una terribile storia bipartisan: rinunciamo allo spazio pubblico, cioè a parchi, luoghi di incontro e di cultura per costruire luoghi di mercato che producono utile privato. Costruiamo un futuro in cui saremo solo consumatori, non persone. Anzi, in cui noi stessi, in corpo e anima, saremo la merce.
A Firenze, dunque, nel 2004 lo Stato vende l’ex Panificio Militare, e il Comune non esercita il diritto di prelazione. È l’inizio della fine: un progetto di cementificazione. Gli abitanti insorgono per farne un parco pubblico, e nel 2005 si riesce a bloccare la speculazione edilizia. Ma, nel 2011, Renzi sindaco annienta le previsioni urbanistiche “e apre la strada che porterà alla costruzione dell’ennesimo supermercato. Così, nel vuoto pianificatorio, vincono cementificazione e rendita” (scrive l’urbanista Ilaria Agostini): a 20 grandi spazi urbani di Firenze viene cambiata la destinazione d’uso, regalandoli al mercato. E non si può dimenticare che se quel pezzo di città fosse rimasto pubblico, qualunque cosa vi si fosse costruita, sarebbe successa molto difficilmente una strage del genere: per l’incredibile situazione normativa che, in tema di appalti, permette ai privati ciò che lo Stato non consente a se stesso. Perché, a dirla tutta, a causare stragi come questa sono imprenditori che usano la libertà che viene loro lasciata comportandosi padroni di tutto, anche della vita dei lavoratori. Sul sito del Comune di Firenze, la scheda sull’ex Panificio militare dice tuttora che “diventerà uno spazio vivibile per gli abitanti della zona”. Questa triste propaganda non nasconde il nesso tra il destino dei corpi individuali e fisici, il destino della democrazia e il destino dello spazio pubblico. Non è un caso che alcune delle più significative forme di resistenza e di proposta di un altro modello sociale siano sorte nelle lotte intorno al destino di parchi urbani.
Nel maggio del 2013, per esempio, il comune di Istanbul progettò di distruggere il parco Gezi – vicino a Piazza Taksim – per farvi appunto un nuovo centro commerciale. Le proteste che ne scaturirono, e che si diffusero poi in altre città della Turchia, furono forse l’ultimo grande gesto collettivo di democrazia in quel grande Paese. Un filo lega la possibilità di essere comunità nello spazio pubblico alla capacità di elaborare proposte politiche che superino la società di mercato in cui tutto è merce, e non c’è spazio né per un parco né per un lavoro sicuro né per i diritti dei migranti, schiavi del profitto privato e insieme ostaggi di una politica fondata sulla paura.
Per questo, come ha chiesto l’abate Bernardo di San Miniato, il cantiere Esselunga dovrebbe ora lasciare spazio solo a quel parco che i cittadini del quartiere chiedevano (e certo non basta il triste giardinetto che, nel progetto attuale, dovrebbe accompagnare il supermercato). Ora dovrebbe essere proprio Esselunga a capirlo, donando il terreno alla città. Ma se così non fosse, una amministrazione comunale degna di questo nome dovrebbe lottare per ogni mezzo per rendere di nuovo comune ciò che è stato privatizzato. Per restituirlo alla vita.

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