mercoledì 31 luglio 2024

Onfray in punta di fioretto

 

L'inaugurazione
"Francia mai così divisa in due Macron è ai titoli di coda"

Intervista de La Stampa a Michel Onfray

PARIGI

«La lotta di classe non è mai stata così visibile come durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi». È la constatazione che il filosofo francese Michel Onfray fa parlando del tanto discusso evento che ha dato il via ai Giochi. La manifestazione di una divisione sociale interna al Paese emersa con prepotenza durante lo show.

Onfray, come vede queste Olimpiadi?

«Contrariamente a quello che è emerso dalle ultime consultazioni elettorali in Francia, il potere macroniano ha voluto una cerimonia woke. Un'occasione per il presidente di mostrare a tutto il pianeta la leadership della Francia in questo campo. In un primo tempo con il disprezzo mostrato per la religione cristiana con una parodia Lgbtq+ dell'Ultima Cena; in un secondo tempo con la celebrazione del Terrore attraverso la decapitazione di Maria Antonietta durante la Rivoluzione francese. Un doppio messaggio: il primo consiste nel dire che bisogna farla finita con il mondo giudeo-cristiano, mentre il secondo afferma che è una buona idea avere il governo che cosparge il Paese di sangue con il Terrore».

Quindi lei pensa che lo spirito di Pierre de Coubertin, il fondatore delle Olimpiadi moderne, non sia più presente?

«Assolutamente no. È addirittura il contrario. L'olimpismo voluto da De Coubertin vuole riunire i popoli attraverso la competizione. Oggi invece i popoli vengono messi in tensione tra di loro con lo sport. Il divieto di partecipazione imposto alla delegazione russa insieme alla presenza di una delegazione palestinese, un Paese che non ha preso le distanze dall'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, mostra che le adesioni e le espulsioni avvengono in base all'ideologia del Paese ospitante».

La Francia e i francesi come stanno vivendo questo evento?

«Il Paese è nettamente diviso in due. Da un lato i beneficiari della violenza liberale e del sistema maastrichtiano che hanno considerato magnifica questa parata farsesca. Dall'altro la Francia profonda, rurale e provinciale. Quella della vittime del sistema, che hanno assistito a delle festività degne degli spettacoli della Roma decadente, che sono costate una fortuna. La sfilata Lgbtq+ è stata il grande momento di questa frattura. Lo spettacolo è stato adorato dalla Francia cosmopolita, ricca, laureata, ben pagata e privilegiata che celebra l'abolizione dei privilegi, a patto che siano quelli del 1789 e non i propri. Gli altri hanno guardato lo sperpero di soldi pubblici e le sontuose spese per delle feste decadenti organizzate in onore di quelli che li disprezzano».

Lei sta parlando della cerimonia di apertura.

«È stata una baracconata vanagloriosa del sistema che dà un'immagine di sé basata su una parata oscena e sprezzante, sullo spettacolo arrogante e insolente, sul conformismo più piatto nel nome dell'anticonformismo e del kitsch. Il tutto totalmente sovvenzionato con fondi pubblici. È l'affermazione del fatto che Disneyland è diventato l'orizzonte insuperabile della Storia».

Pensa che Macron potrebbe approfittare di una buona riuscita dei Giochi per migliorare la sua immagine?

«No. È apparso più odioso che mai imponendo le sue fantasie e i suoi capricci personali nel più totale disprezzo del popolo francese. Quest'uomo non può amare la Francia, e ancor meno i francesi, perché ama solo sé stesso. La cerimonia di apertura dei Giochi olimpici è stata pensata da lui come un autoritratto. È un grande specchio narcisistico che ha esibito in mondovisione con i miliardi del contribuente prelevati dalle casse di un Paese in fallimento. È un atteggiamento degno di Nerone».

Oggi il paesaggio politico francese è frammentato in tre blocchi irriconciliabili. Come farà Macron a formare un esecutivo?

«Non potrà farlo. Anche perché il presidente sottovaluta, come ogni narciso preoccupato solo della sua immagine riflessa nello specchio, l'odio che un elevato numero di persone gli consacra nel Paese, guidato con la bacchetta e un continuo sorriso sarcastico sulle labbra, sebbene sia arrivato ormai al termine. La molle classe politica, che ha mostrato tutta l'abiezione antidemocratica di cui è capace per ottenere dei piatti di lenticchie all'Assemblea nazionale, aspetta solo una cosa: farlo cadere per sostituirlo. Se ne fregano della Francia e dei francesi. Lanciando una granata tra le gambe della politica, secondo la sua espressione impiegata per definire la dissoluzione, Macron si è mutilato da solo: ha perso le sue gambe e le sue braccia. Così è difficile continuare a rimanere en marche!»

Questa frammentazione è il riflesso delle fratture sociali esistenti in Francia?

«Certamente. Il Paese ha cominciato ad andare a male dal Trattato di Maastricht del 1992, che l'ha sottoposto alla tirannia dei mercati. Non si può umiliare un popolo senza che la sua collera un giorno trabocchi». 

Grande Alessandro!

 


Pop corn per Renzi. Assaltò le praterie del Centro, ma era una piccola radura

di Alessandro Robecchi 

Il camion di pop corn – un Tir con rimorchio – ha scaricato davanti a casa, e ora sono sul divano a gustarmi, più che le Olimpiadi, gli esercizi a corpo libero, contorsioni, giravolte, piroette, torsioni e salti, del fu Terzo Polo, una squadra presa a schiaffoni da tutti – elettori in primis – il cui capitano ancora pensa a una medaglia. È vero, avete ragione, le notizie sono altre, eppure bisogna avere rispetto per il dramma shakespeariano che si trasforma in un film con Lino Banfi.

Dunque riassumo per chi era su Saturno. Il condottiero Renzi diede l’assalto alle praterie del Centro, un luogo inabitato ma immenso (secondo lui), dove lo aspettavano trionfi inauditi e, solo da scartare, il regalo inestimabile di diventare il perno della politica italiana, l’ago della bilancia, una cosa che significa “comandare con pochissimi voti”. Di tutto questo raffinatissimo disegno si è avverata una cosa sola: i pochissimi voti. Erano i tempi in cui i suoi tifosi (Renzi ancora mantiene un’irriducibile “bestiolina” social che annuisce e applaude a prescindere) insultavano chiunque dubitasse dell’esistenza di quelle praterie, e lui stesso si lasciava un po’ andare: “Noi vogliamo fare ai dem quello che Macron ha fatto ai socialisti. Vogliamo assorbirne il consenso per allargare al centro e alla destra moderata”. Tipo la Pro Patria che punta alla Champions League.

Dopo la scoppola – tutta attribuita dai tifosi a Calenda, altro fenomeno interessante per gli psichiatri – il condottiero ha notato che le praterie del centro erano una piccola radura paludosa, con la parte abitabile già occupata dal povero Tajani, e ha fatto inversione a U, tornando a presentarsi come una risorsa imprescindibile della sinistra, tirando fuori una di quelle formulette da seconda media che sa lui: “Servono voti, non veti”. Dimenticando così ancora una volta la realtà: che i veti li ha sempre messi lui, e che i voti non ce li ha.

Ora viene il bello. Confidando nella fedeltà cieca del suo gregge, che lui tratta come Lemmings disposti a buttarsi dalla scogliera, ha fatto e deciso tutto da solo, generando qualche malumore. Un certo Marattin, che aveva preso per vere le dichiarazioni del capo su un passo indietro, punta i piedi, altre notevoli intelligenze del Terzo Polo (lato calenderos), come Carfagna e Gelmini, fanno anticamera a Forza Italia sperando di essere riammesse, e la base si agita. Migliaia di balilla e renzinettes, educati per anni a scrivere “Gonde” invece di Conte, a trattare la Schlein come se fosse un piccolo Stalin che punta al comunismo (ahah), a insultare e deridere la sinistra, si ritrovano a ritrattare mestamente, a cancellare vecchi tweet, a esercitare il culto della personalità con l’inespugnabile ragionamento che “Se lo dice Matteo è giusto”. Altri, per la prima volta, vedono la luce e si chiedono se vedersi imporre giravolte simili con uno schiocco di dita e una foto su un campo di pallone non sia per caso un po’ troppo persino per loro che finora hanno creduto a tutto.

In più, arrivano i sondaggisti riuniti, a dire che Renzi avrà sì e no il suo 2 per cento, ma in compenso, se alleato al centrosinistra, farebbe male al Pd, perché lì ci sono elettori che prenotano a Viserbella durante le elezioni al solo sentire il nome di Renzi. Lui non se ne cura, o finge di, rilancia interviste nostalgiche di quando era uomo di potere, le telefonate con Obama, con Biden, come un gelataio in pensione che racconta ai nipoti di quelle volta che vendette un cono a Frank Sinatra.

Uguali uguali!





Esattamente le stesse mosse che feci il 23 aprile 2003, allorché Pippo segnò il 3-2 al 91’ contro l’Aijax per portarci in semifinale di Champions. Uguali, uguali! Incredibile!

Non siamo perfetti!



Russel e la sua band sono stati molto bravi ieri sera in piazza Europa alla Spezia. Vocalist all’altezza e il premio Oscar dominatore del palco, con molta birra. Unico neo…

 

Le censure sulla censura
di Marco Travaglio
La libertà d’informazione è affare troppo serio per lasciarla ai politici e ai giornalisti italiani. Che infatti la usano per tutt’altri scopi – difendere o attaccare il governo Meloni – tirandosi addosso tre diversi report sul tema senza distinguerli e scordandosi il punto di partenza, che precede di parecchio l’avvento dei Melones: l’informazione fa schifo da decenni. E lo faceva ancor di più ai tempi di Draghi e di Renzi (B. è fuori concorso), quando l’intera Rai e tutti i giornaloni erano turbogovernativi, le conferenze stampa dei premier erano messe cantate modello Corea del Nord che si concludevano con le standing ovation e ciononostante nessuno protestava: anzi, proprio per questo. La premier dice che la Relazione annuale della Commissione europea sullo Stato di diritto è stata travisata e strumentalizzata. Vero: critica alcune schiforme della giustizia del suo governo, ma sul premierato e la libertà d’informazione si limita ad affiancare alle posizioni governative quelle di “portatori di interessi” contrari (associazioni di categoria, osservatori, ong). Raccomanda l’indipendenza della Rai dai partiti, impedita dalla legge Renzi, e una riforma anti-querele temerarie, non certo nate con questo governo. Piuttosto minimalista e deludente, il report è pure viziato da sospetti di ricatto: doveva uscire il 3 luglio, ma fu rinviato perché Ursula stava trattando i voti FdI con Giorgia; poi non li ha avuti e oplà, il prezioso incunabolo è saltato fuori. La stessa puzza di estorsione si avvertì con le procedure d’infrazione aperte tre anni fa contro Ungheria e Polonia per violazioni dello Stato di diritto: poi Varsavia fu perdonata senza cambiare nulla perché obbediva alla Nato e dunque a Ursula sulle armi a Kiev, Orbán invece no perché disobbediva.
La Meloni aggiunge che “la Commissione europea riporta accenti critici di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: Domani, Fatto Quotidiano e Repubblica”. E questo è falso. I tre quotidiani sono citati, con i nomi dei giornalisti consultati, da un altro report sulla libertà d’informazione: quello di un consorzio privato, Media Freedom Rapid Response, che la premier confonde o finge di confondere con quello di Bruxelles per degradare le critiche europee come attacchi della stampa ostile. C’è poi un terzo rapporto, quello dell’osservatorio Centre for media pluralism and freedom, che va giù duro sui bavagli Cartabia, Nordio e Costa, la Rai governativa e i conflitti d’interessi di Mediaset, Angelucci e Gedi. Ma Rep è riuscita a parlarne citando i finti martiri di TeleMeloni e censurando proprio il passaggio sul loro editore impuro. C’è una bella differenza anche tra i “portatori d’interessi”: noi del Fatto portiamo solo l’interesse dei lettori a essere informati.

L'Amaca

 Il non-Ponte sullo Stretto

DI MICHELE SERRA
La vicenda del Ponte sullo Stretto (del quale si parla dagli anni Cinquanta del secolo scorso) si ammanta di mistero; con sfumature di surrealtà.
In sostanza, e scusandomi se qualche dettaglio tecnico-amministrativo mi fosse sfuggito, la Camera ha approvato uno di quei decreti-cotechino che tritano in un unico insaccato i materiali più disparati: in questo caso si va dal sostegno all’orchestra sinfonica di Bari, alla gestione amministrativa della Laguna di Venezia, alla riforma del finanziamento delle imprese italiane in Africa, allo scorporo delle Grandi Opere in più fasi. Quest’ultimo punto, confuso nelmishmash, significa che i lavori per il Ponte possono partire anche in assenza di un progetto esecutivo definitivamente approvato.
In sostanza, la Camera ha detto: il Ponte si deve fare perché si deve fare. Come verrà fatto, con quali iter, quali autorizzazioni, quale progetto definitivo, lo si stabilirà strada facendo. Nel frattempo si può procedere agli espropri, stanziare quattrini e soprattutto annunciare al Paese che la prima pietra (la stessa posata simbolicamente da Berlusconi nel 2002?) è saldamente al suo posto. Dalla seconda in poi si procederà per volontà politica.
Bene inteso, la volontà politica è importante.
Ma in questo caso si sostituisce agli ingegneri, ai tecnici, ai periti, agli amministratori locali, e anche ai piloni, ai cavi d’acciaio, alle imbullonature, ai binari e all’asfalto. Costruisce il Ponte come un gioco di potere, come uno schiaffo ai critici e agli scettici. Il progetto Ponte è operativo a prescindere. Anche se non c’è e addirittura se non ci sarà mai. Così come Humpty Dumpty spiega ad Alice perché festeggiare il non compleanno, il governo spiega agli italiani come festeggiare il non Ponte. E come sempre, chi si accontenta gode.

Incontro



All’inizio voleva scatenare l’inferno. Poi abbiamo optato per una fricassea…

martedì 30 luglio 2024

Evvai!!



Sempre bello, qualunque sia lo sport! E ora un bel bagnetto tra i talponi della Senna, cugini!

Oh Giuseppe!



IL TEMPO È GALANTUOMO

di Giuseppe Conte 

Ricordate quando Giorgia Meloni - sostenuta da un ardimentoso manipolo di ministri, esponenti di partito e commentatori varii - si scagliò contro il Memorandum d’intesa con la Cina approvato dal Governo Conte I?

Ebbene, oggi Giorgia Meloni è in Cina a bussare al Presidente Xi Jinping implorando Pechino di investire in Italia, per rilanciare un partenariato strategico ed egualitario e riequilibrare la bilancia commerciale tra i nostri due Paesi.
Guarda caso tutti questi obiettivi erano puntualmente contemplati nel Memorandum del 2019.

La differenza è che noi siamo stati attaccati e vituperati per quell’Accordo, che per la prima volta ha introdotto concetti come “parità di condizioni”, “sostenibilità ambientale e finanziaria” che nessuno dei tanti Paesi (anche europei) che avevano sottoscritto l’accordo prima di noi era riuscito a ottenere.

I giornali compiacenti col Governo oggi titolano con enfasi: “Giorgia ricuce lo strappo della Via della Seta”. O ancora: “Meloni apre la via cinese”. Quanta ipocrisia. Ma chi ha procurato lo strappo con la Cina? Chi aveva chiuso la via cinese? Sempre lei: Giorgia Meloni.

Oppressa da cieco fanatismo ideologico e dall’ansia di compiacere Washington, Meloni, sul finire del 2023, aveva compromesso bruscamente le relazioni commerciali con la Cina, cestinando l’imponente lavoro svolto dal mio primo Governo. Un lavoro portato avanti con la schiena dritta, senza mettere in discussione la nostra tradizionale collocazione atlantista, facendo attenzione a potenziare la disciplina di golden power per assicurarci una migliore tutela dei nostri asset strategici.

Oggi Giorgia Meloni corre ai ripari. La coerenza, lo sappiamo, non è il suo forte. Ma, soprattutto in campo internazionale, basta un nonnulla per distruggere la credibilità che il nostro Paese ha conquistato con il lavoro di anni. Siamo sicuri che, con tutte queste giravolte, Giorgia Meloni riesca a tutelare efficacemente i nostri interessi nazionali?

Cri Cri!

 

Un Grillo al bivio
di Marco Travaglio
C’è ben poco di politico nella polemica epistolare fra Grillo e Conte. La lettera del garante, come tutto in lui, è un fatto caratteriale, psicologico, umorale. Chi lo conosce sapeva benissimo che, in vista degli Stati generali per il rilancio del M5S, avrebbe battuto un colpo. Non perché voglia o tema qualcosa di diverso da Conte, dagli eletti e dagli elettori. Ma per dire che c’è sempre, anche se, da buon ciclotimico, alterna da una vita le discese ardite e le risalite. Sa benissimo che la democrazia diretta non esiste, ma l’alternativa non sono i caminetti fra “gruppi ristretti”, ed è paradossale che debba ricordarglielo Conte, grillino dell’ultima ora. L’alternativa è la democrazia partecipativa: il leader (Grillo e Casaleggio agli inizi, il direttorio a cinque, Di Maio e ora Conte) consulta la base, ne riceve gli input, poi dice la sua e la mette ai voti. Ma anche nel ruolo di garante (a vita: clausola che, escluse le monarchie, esiste solo alla Corte Suprema Usa), la sua parola non vale uno: pesa molto più di quella altrui. E influirà eccome agli Stati generali del 4 ottobre, nel 15° compleanno del M5S. Il bivio di Grillo è tra l’accompagnare quel passaggio decisivo fra il rilancio e l’estinzione con la magnanimità e la generosità del padre nobile, o l’insistere con la postura malmostosa. Quella di chi snobba i suoi ex “ragazzi meravigliosi”; sottovaluta gli sforzi titanici che han fatto e i prezzi altissimi che han pagato per piantare quasi tutte le bandiere del M5S nei 31 mesi dei governi Conte-1 e Conte-2, vilipesi e combattuti dai poteri marci; preferisce loro i presunti “grillini” Draghi e Cingolani; li liquida col gretto totem dei due mandati; e ora tratta Conte da mezzo usurpatore. Come se non l’avesse chiamato lui a lavorare gratis un anno e mezzo per resuscitare i 5S che lui aveva suicidato conficcandoli nel governo Draghi e costringendoli a ingoiarne tutti i rospi.
Nell’ultimo spettacolo, Grillo pareva pacificato, autoironico, autocritico: raccontava che Draghi l’aveva subornato con furbe blandizie e false promesse, e la sua disarmante sincerità portava il pubblico a perdonargli di esserci cascato. Ora sembra tornato alla fase dei malumori, senza neppure un progetto alternativo. Lo sa pure lui che, senza Conte, il M5S sparirebbe. Però va rifondato, tantopiù ora che i suoi cavalli di battaglia tornano di moda e la ruota della storia, nel falso bipolarismo delle lobby finanziarie e belliciste, riprende a girare verso quella voglia di cambiamento che il M5S è il più attrezzato a soddisfare. Sta a lui decidere se guadagnarsi i 300 mila euro l’anno di “consulenza per la comunicazione” partecipando col suo talento, o rintanarsi in casa a distillare letterine, battutine, regolette e rancorucci. Per fare il salto, basta un pizzico di generosità.

L'Amaca


Sabotare per sabotare
DI MICHELE SERRA
I sabotaggi in Francia (anti-olimpici? anti-francesi? anti e basta?) sono un mistero psichico ben prima che politico.
L’attribuzione a imprecisati “ambienti di estrema sinistra” (in Italia siamo più avvezzi alla definizione “anarco-insurrezionalisti”) è verosimile, ma dice davvero poco sulle intenzioni, gli scopi, le speranze di persone che cercano con ogni mezzo di inceppare i meccanismi del presente, ma senza saperci dire nulla di comprensibile e di interessante sulla loro idea di futuro.
Mettiamo, per paradosso, che le Olimpiadi vengano sospese perché la Francia è in ginocchio a causa della rottura violenta dei suoi sistemi informatici, della sua rete ferroviaria e di altro ancora. E poi? Per contraccolpo, inizia la Rivoluzione? Il popolo in armi depone Macron e ghigliottina le medaglie d’oro? C’è un programma?
Un’idea di futuro? La tattica della distruzione comprende anche una strategia della rinascita?
Sarebbe interessante saperlo. In mancanza di notizie certe, vale il sospetto deprimente che un certo numero di persone, per fortuna molto ristretto, viva con entusiasmo la distruzione e la catastrofe, l’interruzione della vita degli altri (miliardi di persone, non tutti membri del Comitato Olimpico, le Olimpiadi le seguono volentieri), e non sappia spiegare nemmeno a se stesso perché. Sabotare, recidere, bloccare, impedire, tagliare, oscurare. Vietare al presente di esistere: non è un mezzo, è il fine. Il fine è la distruzione. Ed è talmente impegnativo, distruggere, che mancano le energie per pensare, anche vagamente, a cosa fare delle macerie.

Non importa far nascere Domani, importa ammazzare Oggi. 

lunedì 29 luglio 2024

Sapete mica se…



Scusate, sapete per caso se in giro c’è una Sagra della Balla, un Festival della Panzana, un Palio della Frottola? Lo chiedo perché guardando queste due frescacce mi è venuto un dubbio in merito. Va a finire che mi son perso qualcosa. Grazie!

Ancora non ci credo!


Tim ora affitta la rete per 2 miliardi l’anno Kkr ci farà bei soldi

Il governo ha dato l’ok alla cessione al fondo Usa, che (dicono i documenti ufficiali) farà profitti stellari tagliando su lavoro e investimenti: il 50% dei ricavi verrà dall’ex monopolista

di Carlo Di Foggia 

La vendita della rete Tim è una vicenda assurda ma tutto avviene alla luce del sole e forse per questo nessuno si ribella. I numeri mostrano che il governo Meloni ha fatto un enorme regalo al fondo Usa Kkr. Metterli in fila illumina anche il modo con cui si vendono a questi giganti pezzi di industria, un pessimo segnale in vista delle privatizzazioni da 20 miliardi che il ministro Giancarlo Giorgetti ha promesso ai mercati, cioè ai “fratelli” di Kkr.
Il primo luglio Tim e il gigante Usa da 400 miliardi di asset gestiti hanno siglato il contratto di vendita dopo mesi di negoziati. Agli americani passa la rete telefonica e di connessione in rame e fibra per un prezzo di 18,8 miliardi tra esborso diretto e debito accollato. Lo Stato – tramite il Tesoro – entra nella partita spendendo due miliardi per il 20% del capitale della nuova società della rete: “Netco”. Nell’operazione entrano anche il fondo infrastrutturale italiano F2i che avrà il 10%, mentre il fondo sovrano di Abu Dhabi Adia e il Canada Pension Plan avranno quote rispettivamente del 20% e del 17,5%. Senza la rete, alla vecchia Tim resterà la parte servizi, “SerVco”, il cui secondo azionista (dietro i francesi di Vivendi) è sempre lo Stato, con Cassa depositi e prestiti (9,8%), che in questa storia ci perde due volte: venendo escluso dalla partita della rete e rimanendo azionista di una società che da inizio anno, cioè da quando il governo ha autorizzato la vendita della rete, ha visto il suo valore in Borsa calare del 24%.
Per i vertici di Tim l’operazione era una via obbligata per salvare la società, abbattendo il debito da oltre 20 miliardi che zavorra il gruppo, eredità delle mitiche scalate a debito dei privati (che peraltro sono storicamente il piatto forte di Kkr). Il punto d’arrivo dell’oscena privatizzazione degli anni Novanta.
Nelle scorse settimane sono stati depositati documenti rilevanti, tra cui la stima della rete primaria che Tim ha conferito in Fibercop, la controllata che deteneva già la rete secondaria (quella che dalle dorsali porta la connessione fino agli armadi di strada o agli appartamenti), dove Kkr era già entrata con il 37,5% due anni fa e che adesso diventerà “Netco” con l’uscita dell’ex monopolista.
Il report (anticipato da Mf) lo ha firmato Alberto Dello Strologo dell’università Roma Tre, che ha avuto modo di guardare i numeri del Master service agreement, il contratto tra Tim e Netco che regolamenterà i servizi che la prima offrirà alla seconda, ormai priva della rete. I numeri sono notevoli. Tim si impegna a versare a Netco 2 miliardi di euro per l’accesso alla rete già nel 2024 e poi ogni anno in media fino al 2029; nel 2030 si sale a 2,1 miliardi fino ad arrivare a 2,5 miliardi alla fine dei 15 anni di contratto, nel 2039. In otto anni Tim verserà a Netco una cifra (anche se lorda) simile a quella che Kkr e soci le hanno versato per la rete. Tim vale però solo metà dei ricavi di Netco, l’altra metà (sempre 2 miliardi l’anno) arriverà dagli altri operatori. La cosa bizzarra è che la relazione ricorda che Tim vale il 39% del mercato nazionale della rete fissa (dati Agcom), eppure varrà il 50% dei ricavi di Netco. Ancora più bizzarro è che i dati più aggiornati dicono che la quota di mercato è già scesa al 37%. Tim sta pagando troppo Netco? Di sicuro la redditività della nuova società della rete è impressionate.
I profitti lordi di Netco si assesteranno a due miliardi l’anno di media fino al 2027, poi iniziano a salire ancora per terminare a 2,7 miliardi nel 2039. Su una media di 4-4,5 miliardi di ricavi, si passa da un margine del 46% a uno del 55% nel 2027, al 61% del 2039, quando cioè su ogni euro incassato, 60 centesimi saranno profitti. Come si ottiene un risultato così? La relazione spiega che i numeri sui ricavi sono, sostanzialmente, “prudenziali”. Non sono i ricavi a esplodere, ma i costi a venire compressi: Netco promette di ridurre del 20% quelli del lavoro (quindi i 20mila addetti che si porta da Tim) attraverso, dice la relazione, prepensionamenti, esternalizzazioni e altro; promette di fare altrettanto con quelli generali; si ridurranno del 44% anche i costi che invece Netco pagherà a Tim per alcuni servizi (da 177 milioni nel 2024 a 99 nel 2039). A far esplodere la redditività è anche la riduzione degli investimenti: fino al 2027 valgono circa 1,9 miliardi l’anno, in buona parte per cablare in fibra la rete secondaria coi piani finanziati dal Pnrr. I fondi europei valgono 1,6 miliardi dal 2024 al 2027, alla fine del piano. Non è un caso che dal 2028 gli investimenti si riducano a 1,1 miliardi per poi dimezzarsi dal 2030 a 500 milioni e dispari, un po’ perché la rete in fibra sarà realizzata e un po’ perché la fibra ha costi di manutenzione molto più bassi. I flussi di cassa così esplodono dai -7 milioni del 2024 ai 2,4 miliardi del 2039.
I numeri, come detto, sono conservativi, anche perché al momento Kkr non ha motivo di essere più ottimista del dovuto. La redditività, però, potrebbe salire ancora: ad esempio se il mercato, come pure stima la relazione del perito, dovesse salire o l’Agcom acconsentire a un aumento delle tariffe o se Netco dovesse riuscire a ridurre ancora di più i costi. Con questi numeri non è chiaro perché vendere la rete, se non per l’estrema difficoltà di Tim: l’azienda ha replicato che nel conto va considerato l’impatto positivo sui costi del personale, sui minori investimenti e sul minor costo debito. È vero però che sarà proprio la riduzione dei costi a garantire a Kkr l’esplosione dei margini. Che invece i risparmi su debito&C. riescano a compensare i profitti a cui Tim rinuncia insieme alla rete è tutto da vedere. Il mercato, per ora, ci crede poco.
Come ha fatto Kkr a convincere il governo? Grazie ai buoni uffici di Vittorio Grilli, ex direttore generale e ministro del Tesoro con Mario Monti. Nel 2013, appena uscito dal dicastero è stato assoldato come plenipotenziario italiano da Jp Morgan, consulente di Kkr. A pesare sono gli ottimi legami con il capo di gabinetto di Giorgia Meloni, Gaetano Caputi, conosciuto al Tesoro. L’ultima operazione incassata è l’accordo tra Eni e Kkr per cedere il 20-25% di Enilive, la controllata per la bioraffinazione e la mobilità elettrica. Qui Jp Morgan fa da advisor al colosso petrolifero statale, che così incassa una notevole valutazione di Enilive di 12 miliardi. L’ingresso di questi fondi, d’altronde, è una manna per i manager, che possono fa schizzare le valutazioni, anche se l’affare è soprattutto dei colossi. Nel 2021 l’ad di Tim, Luigi Gubitosi, alla disperata ricerca di cassa cedette il 37% di Fibercop a Kkr, a cui garantì un ritorno del 12% sull’investimento (blindato da una clausola “put” a carico di Tim): di fatto era come comprare un bond garantito. Con l’acquisto della rete Tim, Kkr è riuscita a far iper-valutare Fibercop, quintuplicando l’investimento e riducendo dunque l’esborso cash per acquistare la rete. Fra qualche anno rivenderà con plusvalenza. Capolavoro.

domenica 28 luglio 2024

Spudoratamente



Forse perché ancora i giornalisti non portano il fez?

Domandina



Quale vi scandalizza di più?

Help!



C’è qualcuno là fuori? Se ci siete mi potreste portare via che non ce la faccio più a star qui? Grazie!

Spiegazione

 

Tana liberi Toti
di Marco Travaglio
Tajani, vicepremier: “I giudici hanno costretto Toti a dimettersi per riavere la libertà”. Salvini, altro vicepremier: “Sovvertono il voto popolare usando inchieste e arresti”. FdI: “Democrazia ferita”. Crosetto: “Giustizia sconfitta e debolezza rattristante della politica”. Calenda: “Toti è stato ricattato con misure cautelai a pioggia (sic, ndr): se non ti dimetti non esci. Indegno di uno Stato di diritto”. Iv: “Toti sarà rimesso in libertà solo dopo averne determinato, coercitivamente, le dimissioni. Si è dimesso perché i pm non permettono che si dica innocente”. Radicali: “Pagina nerissima per la democrazia, indegna di un paese civile”. Giornale: “Toti, vincono i ricattatori. Le toghe sovvertono il voto”. Unità: “Piemmerato: alle procure il potere di sciogliere i consigli regionali. Caporetto della politica”. Foglio: “Arresto di scambio”, “vergogna, ricatto”. Riformista: “Politica l’è morta. Un golpe giudiziario che seppellisce il garantismo. Non vinci alle urne? Ci pensano le toghe”, “Toti come Moro (sic, ndr): una lettera contro la classe dirigente e politica”.
Quattro passi nel delirio della presunta politica e della cosiddetta informazione per dire l’ignoranza sesquipedale di chi parla di giustizia senza sapere ciò che dice (o sapendolo benissimo, che è pure peggio). Si parte da un presupposto falso: che i politici, in quanto eletti, siano più uguali degli altri in base a un fantomatico “primato della politica” (che non esiste in nessuno Stato di diritto: l’unico primato è quello della legge). Quindi i loro reati sarebbero meno reati e a loro si applicherebbero un Codice penale e uno procedurale diversi. Siccome però questi codici speciali non esistono, e per giunta nei tribunali c’è scritto “La legge è uguale per tutti”, pm e giudici applicano i Codici esistenti. E valutano le esigenze cautelari per i politici come per i cittadini comuni: il rischio di reiterazione di reati della stessa specie dipende dalla possibilità concreta che l’indagato, lasciato in libertà, continui a delinquere. Se, come Toti, è accusato di farsi corrompere e finanziare illegalmente (reati che può commettere solo un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio), è ovvio che quel pericolo scompaia solo se smette di ricoprire cariche pubbliche; o, in alternativa, se denuncia tutti quelli che l’hanno corrotto o finanziato illegalmente, rompendo il vincolo di omertà e rendendosi inaffidabile nell’ambiente criminale. Lo spiegava già Borrelli per Mani Pulite: “Non li arrestiamo per farli parlare, li scarceriamo dopo che hanno parlato”. Toti, legittimamente, si proclama innocente, dunque non denuncia nessuno. Poteva benissimo continuare a governare dai domiciliari (in Italia s’è visto persino di peggio).
Ma, finché restava presidente della Liguria, poteva reiterare i reati. Anche perché – come ha notato il Tribunale del Riesame – non ha ancora capito, o finge di non capire, che chiedere e incassare soldi (registrati o meno) da imprenditori che ricevono concessioni, licenze, autorizzazioni, varianti urbanistiche, appalti (dovuti o meno) dalla propria giunta è un reato. Infatti, nella sua letterina in stampatello da scuola elementare, Toti invoca “regole chiare e giuste per la convivenza tra giustizia e politica”. Come se non fossero già chiarissime. Come se la giustizia dovesse convivere con la politica, anziché scoprirne e sanzionarne i reati.
Perciò Toti si è dimesso da presidente della Regione: per non essere più un pubblico ufficiale e annullare, o almeno attenuare, il pericolo di reiterazione dei reati e sperare nella revoca degli arresti domiciliari. Che però è tutt’altro che automatica. Se un politico conosce il mondo delle mazzette e lo copre, si garantisce armi di ricatto verso tutti gli altri che il suo silenzio ha salvato dai guai, o da guai peggiori. Anche se si dimette: il suo potere ricattatorio prescinde dalle cariche formali. Dipende da ciò che sa, non da ciò che fa. Quanti politici dimissionari per indagini, arresti e condanne, sono diventati mediatori d’affari e malaffari, costruendosi una seconda vita proprio su ciò che sanno e non rivelano? E poi, alla base delle misure cautelari, non c’è solo il rischio di reiterazione dei reati: a parte quello di fuga (improbabile nel caso di Toti), c’è pure quello di inquinamento delle prove, cioè di subornazione dei testimoni e dei correi, che cresce con l’avvicinarsi del processo, dove l’imputato può comprarsi il silenzio dei complici in cambio del proprio: una mano (sporca) lava l’altra. Perciò non solo in Italia, ma in tutto il mondo, esiste la custodia cautelare: per arrivare al processo senza che spariscano le prove, o i testimoni, o gli imputati. E non ha nulla di ricattatorio. Il prete arrestato per molestie gay in seminario, se vuole attenuare le esigenze cautelari, si spreta o si barrica in un eremo o passa a un oratorio femminile. Il maestro catturato per pedofilia abbandona l’insegnamento e vi torna solo dopo la sentenza definitiva (se è di assoluzione). Il chirurgo beccato a scannare o sfigurare i pazienti si depenna dall’Ordine dei medici per non poter più esercitare la professione. Il giudice in cella per sentenze vendute lascia la toga. E l’avvocato in galera per sentenze comprate si dimette dall’Albo forense. Dove sarebbe il ricatto o lo scandalo se un pubblico amministratore arrestato per reati contro la PA abbandona la PA per non rischiare di ripetere reati contro la PA? Parafrasando Borrelli: non lo arrestano per farlo dimettere, lo scarcerano (forse) dopo che si è dimesso.

L'Amaca

 

Un reality al quale non siamo iscritti
DI MICHELE SERRA
Ma come è possibile che il colloquio di un carcerato con i genitori, privo di qualunque rilevanza giudiziaria, finisca sui giornali? Sono io che non capisco più come funziona il mondo dei media (ipotesi da non escludere) o è il mondo dei media ad avere perduto ogni scrupolo, e un clic in più vale qualunque intrusione?
Filippo Turetta ha commesso un delitto atroce del quale si conosce ogni dettaglio, ogni risvolto psicologico, ogni colpo inferto a Giulia Cecchettin. Se ne è parlato per mesi, e soprattutto grazie alla sorella e al padre della vittima se ne è parlato con limpidezza e lucidità: come di un delitto a suo modo “politico”, non un fattaccio da sbattere in prima pagina per pura morbosità. Ne è seguita una grande e speriamo utile ricaduta nel dibattito intorno ai generi, i maschi fragili e violenti, le femmine stanche di pagarne il prezzo.
Non esiste ulteriore necessità di prova, non esiste dubbio, tutto è tragicamente chiaro, il movente, l’esecuzione, il furibondo accanimento. Perché rendere pubblico, mesi dopo il delitto, quello che dicono all’assassino il padre e la madre visitandolo in carcere, una prevedibile, pietosa, ordinaria, inevitabilmente ipocrita forma di soccorso che i genitori cercano di offrire al figlio assassino? Non ho idea di cosa direi a un figlio in galera, probabilmente le solite strazianti balle che gli servirebbero a conservare un lumicino di fiducia nel futuro; certo considererei una odiosa violenza che qualcuno (esclusi gli inquirenti) leggesse nero su bianco le mie parole. C’è ancora qualcosa che, per rispetto umano, può rimanere privata, o siamo destinati a vivere come i concorrenti di un gigantesco reality al quale non ci siamo mai iscritti?

Democrazia stellata

 

Troppo democratici
di Marco Travaglio
Per capire cosa intendano per “democrazia” gli Stati Uniti, basta il costo della campagna elettorale: 14 miliardi di dollari, il Pil del Nicaragua, o del Mozambico, o della Namibia, o della Palestina. Ma pure il discorso d’addio di Joe Biden, che rivendica “la promessa di essere sempre onesto e di dirvi la verità”. Poi però non spiega mai perché rinuncia a una candidatura decisa non da lui, ma dall’87% gli elettori alle primarie tra gennaio e giugno. Tant’è che il 23 aprile annunciò la ricandidatura, malgrado tutti sapessero (il WP l’aveva scritto già il 12 settembre) che non era in condizione neppure di ultimare il mandato, figurarsi di governare altri quattro anni. Tre settimane fa ribadiva: “Gli elettori dem hanno votato e mi hanno scelto come candidato”. Una malattia improvvisa? Non risulta. Una settimana fa diceva: “Mi ritiro solo se me lo chiede il medico”, che però non gliel’ha chiesto. Infatti, nel discorso del ritiro, s’è detto certo che “i miei risultati, la mia leadership nel mondo, la mia visione del futuro meritassero un secondo mandato”. Poi, con un salto logico incompatibile col presidente onesto e sincero, ha aggiunto che “niente, neppure l’ambizione personale, può ostacolare la salvezza della democrazia”. Ergo – chissà perché – “passo la torcia a una nuova generazione”: cioè alla “nostra grande vicepresidente Kamala Harris”, mai votata alle primarie né ancora investita dalla Convention, ma indispensabile per non perdere le milionate già sganciate dai finanziatori al ticket Biden-Harris, che deve restare in corsa almeno al 50% per mantenerle.
Che un rimbambito non sappia di esserlo (specialmente se gli alleati gli obbediscono come se fosse lucido), ci sta: altrimenti non sarebbe rimbambito. Infatti non ci pensa neppure a sloggiare subito, come dovrebbe fare chi confonde Zelensky con Putin e se stesso con la Harris(“Sono il primo vicepresidente donna”). E sostiene restando serio che “per la prima volta in questo secolo gli Usa non sono in guerra in nessuna parte del mondo”. Ma c’è un limite anche alle bugie: tutti sanno che, oltre all’ambizione e alla sete di potere sua, della moglie e dello staff che comanda al posto suo, e alla paura per il figlio-mariuolo Hunter senza più il padre-padrino alla Casa Bianca, il primo motivo della sua cocciuta resistenza era la scarsa stima per la Harris. Biden l’ha nascosta per quattro anni come un impiastro e ora dice: “Il bello dell’America è che non governano re o dittatori, ma il popolo” con la sua “libertà di voto e di scelta”. Ma il popolo aveva scelto lui e ora si ritrova la sua vice scelta da lui, dall’intrallazzona Nancy Pelosi e dalle Dynasty Clinton e Obama. Se questi sono i difensori della democrazia minacciata da Trump, povera democrazia.

L'Amaca

 

Il fascismo è roba per vecchi
DI MICHELE SERRA
Il post dell’anziano colonnello dell’Aeronautica, magrolino e livido, in uniforme nazista, con la minacciosa didascalia “sinistrorsi vi aspetto”, mette una irrimediabile malinconia. Non viene neanche voglia di pigliarlo per i fondelli, anche se Mel Brooks lo avrebbe sicuramente scritturato come comparsa del suo irresistibile Springtime for Hitler .
Si allargano le braccia, si riflette sulla prolungata sofferenza che questo signore, dipendente pubblico, deve avere provato spendendo una vita intera al servizio di una Repubblica che disprezza e di una Costituzione che spergiura, e ci si affaccia, avendone voglia, sul pozzo di frustrazione che può averlo spinto a travestirsi da cattivo — a quell’età, poi — per ingannare il tempo.
Sono gli effetti collaterali dell’ascesa al governo dell’estrema destra. Non direttamente imputabili a Meloni, per carità, ma insomma, da quando a Palazzo Chigi ci sono quelli di Colle Oppio è tutto un fiorire di saluti romani, un batter di tacchi di aspiranti gerarchi, nei social il nero spicca e per le strade di Roma i plotoni di ultras fascisti ambocurve (Roma e Lazio) che cantano Faccetta Nera sono ormai paesaggio capitolino, come le fontane e le carrozzelle.
Perché questo corteo in maschera si levi di torno, basta aspettare: i ventenni, nell’intero Occidente, sono in larga maggioranza di sinistra, mentre i capi ultras, così come i luogotenenti di Meloni, sono millennials ormai stempiati e con pancetta incipiente.
Il fascismo è roba per vecchi. Nell’attesa, sarebbe confortante sapere che anche i pensionati nazi hanno una moglie, o un amico, o una figlia, che li soccorra nella maniera più semplice e pietosa: «Papà, ma perché, alla tua età, ti rendi ridicolo in pubblico?».

Cantiere di Repubblica

 

Mancano i medici, i pronto soccorso sono in affanno, gli infermieri fanno turni massacranti e le tecnologie sono da rinnovare Ecco come e perché il sistema sanitario sta andando in tilt

di Michele Bocci

Q uando non trovano un posto per fare la risonanza in tempi accettabili, quando aspettano troppo a lungo di entrare al pronto soccorso o non riescono a reperire qualcuno che assista un proprio caro a casa. Quando devono pagare per operarsi prima, quando fanno mille chilometri per curarsi o sono ricoverati in ospedali vecchi e scomodi. Sono molte, sempre di più, le occasioni nelle quali gli italiani vivono direttamente la crisi del sistema sanitario pubblico. Il glorioso strumento di democrazia, che dice ancora la sua a livello internazionale e vanta eccellenze di altissima specialità, scricchiola e sbuffa per la fatica. Carenze di personale, difficoltà organizzative, tecnologie da rinnovare: il timore è che sia arrivato il momento della crisi definitiva, dalla quale non si tornerà più indietro. I problemi sono diversi ma ce n’è uno che per certi aspetti li genera tutti, o comunque una buona parte: la carenza di risorse. 

Ci vogliono soldi per migliorare l’assistenza, estenderla, recuperare gli espulsi dal sistema. Poi, certo, è anche necessario spendere bene il denaro già a disposizione, ridurre gli sprechi, organizzarsi meglio, ma intanto partire da risorse più corpose sarebbe di aiuto.

Sono anni che il sistema italiano è sottofinanziato ma ora i numeri stanno diventando preoccupanti. La sanità è pagata prevalentemente dal Fondo sanitario nazionale, che viene suddiviso ogni anno tra le Regioni basandosi su una serie di parametri, prima di tutto la popolazione, ma anche l’età degli abitanti. Osservare solo il Fondo però non basta. Il suo valore tende infatti a salire anno dopo anno, per fronteggiare, ad esempio, l’aumento dei prezzi dei fornitori legato all’inflazione ma anche quello degli stipendi. Così, anche a livello internazionale, ci si basa sul peso percentuale della spesa sanitaria rispetto al Pil.
n Italia il rapporto spesa-Pil è basso e tenderà a scendere nei prossimi anni, a detta dello stesso governo. Nell’ultimo Def, il Documento di economia e finanza, il Mef lo ha fissato al 6,4% per quest’anno, al 6,3% per il 2025 e il 2026 e infine al 6,2% per il 2027. Il Fondo sanitario intanto cresce da 138 miliardi di euro quest’anno a 147 nel 2027, ma appunto questo dato da solo, di solito citato da Giorgia Meloni per sottolineare che il suo governo ha investito di più degli altri, non è veritiero perché l’aumento è “mangiato” dall’incremento dei prezzi. Basta vedere cosa succede alla spesa farmaceutica, che è in continua crescita. Nel 2023 è salita del 6,5% rispetto al 2022, con un aumento assoluto di 1,4 miliardi.

In passato il rapporto Spesa-Pil ha raramente superato il 7%, salvo negli anni del Covid, quando c’erano spese extra legate alla pandemia. Prima, si andava comunque meglio di oggi. Il confronto internazionale, poi, è impietoso. Nel 2022, quando da noi il rapporto Spesa sanitaria pubblica-Pil era del 6,7%, la Germania era al 10,9%, la Francia al 10,3%, il Regno Unito al 9,3%, i Paesi Bassi all’8.6%, la Spagna al 7,3%. Sotto l’Italia, e della media dei Paesi Ocse che era del 7,1%, il Portogallo (6,7%) e la Grecia (5,1%).
Perché l’Italia non investe di più nella sanità? Per Renato Balduzzi, ministro della Salute durante il governo Monti, «c’è uno sbilanciamento della spesa pensionistica che non ha paragoni, nonostante le misure adottate a suo tempo dal nostro governo e dopo malamente modificate. Poi, c’è il perdurare di uno stock di evasione fiscale, anche questo sconosciuto alla gran parte degli altri Paesi. Infine, anche quando si sarebbe potuta espandere la spesa, spesso non c’è stata volontà, scelta che si può leggere in più modi. Ad esempio, si sottofinanzia il pubblico per privilegiare modelli diversi, oppure perché in un quadro di regionalismo differenziato saranno le Regioni a mettere mano al portafogli». Beatrice Lorenzin (oggi nel Pd) è la ministra alla Salute rimasta in carica più a lungo nella storia repubblicana, cinque anni: «Si èsmesso di investire nella Seconda Repubblica - dice - Si è puntato prima sulla riorganizzazione, cioè su efficienza e programmazione, e aveva senso. Con la riforma del Titolo V del 2001 c’è stata la devoluzione delle competenze sulla sanità alle Regioni ma non avevano una infrastruttura di dirigenza adeguata e sono finite commissariate. In epoca di vincoli di Maastricht l’unica spesa veramente certificata sulla quale fare tagli era quella sanitaria, così si è iniziato a spremere. Ora bisogna tornare indietro.Fare sacrifici in altri settoriper finanziare la sanità».

Il personale che manca
In Italia mancherebbero circa 20 mila medici (su 136 mila) e 65 mila infermieri (su circa 400 mila). Il problema, con i camici bianchi, interessa soprattutto alcune specialità, come il pronto soccorso, la chirurgia generale, la radioterapia e comunque le discipline prevalentemente svolte all’interno del servizio pubblico. Si è sbagliato a programmare i posti nelle scuole di specializzazione, perché non si è tenuto conto delle esigenze del sistema sanitario. Èben nota la situazione dei pronto soccorso, che quasi ovunque hanno seri problemi di organico e sono in difficoltà a rispondere alla massa di pazienti che si presentano ognigiorno. Le figure che hanno grande mercato privato, come chirurghi plastici, oculisti o ginecologi, invece non sono in sofferenza.
I fenomeni che mettono in crisi le Asl sono due. Da un lato in tanti escono dagli ospedali prima della pensione perché si spostano nel privato o all’estero, dall’altro ci sono problemi in entrata, di reclutamento dei giovani. Certe scuole di specializzazione non riescono ad assegnare tutte le borse di studio bandite. Talvolta si fermano sotto la metà. «Solo nel 2023 sono stati 3 mila i medici tra i 43 e i 55 anni che hanno lasciato il lavoro prima del tempo – spiega Pierino Di Silverio, segretario del sindacato degli ospedalieri con più iscritti, Anaao – Se ne sono andati per i carichi di lavoro, per la mancanza di sicurezza, per l’impossibilità di fare carriera». Poi ci sono posti dove i giovani non vogliono lavorare. «Èil caso dei pronto soccorso – dice sempre il sindacalista – Bisognerebbe contrattualizzare gli specializzandi per alzargli gli stipendi, fermi a 1.500 euro al mese, e dare loro diritti che adesso non hanno ». Da tempo il ministero alla Salute parla di aumenti di stipendio, per adesso riconosciuto solo a chi lavora nell’emergenza. «Non basta di certo – attacca Di Silverio - I medici italiani guadagnano molto meno dei colleghi europei. Per attrarre professionisti bisogna pagarli bene, intanto detassare una parte dello stipendio. Il governo deve smettere di proporre tariffe più alte per gli straordinari, come nel recente decreto sulle liste di attesa, perché va premiato il lavoro ordinario. Bisogna fare assunzioni e dare a tutti paghe più alte». Anche i medici di famiglia vivono una situazione difficile, perché i pensionati sono più numerosi degli iscritti ai tirocini.
Le carenze più critiche riguardano gli infermieri. Secondo la Corte dei conti ne mancano 65 mila. «Ma la situazione è destinata a diventare più grave con i prossimi pensionamenti: dal 2023 al 2033 saranno 113.000, ai quali si aggiungeranno uscite per altri motivi». A parlare è Barbara Mangiacavalli, presidente di Fnopi, la Federazione degli Ordini degli infermieri: «Le carenze nascono dal blocco delle assunzioni, ma anche dalla mancanza di attrattività della professione. Oggi un infermiere trova subito lavoro, ma poi resta bloccato per 30 anni senza crescita di carriera . È prioritario intervenire sull’incremento della base contrattuale e serve lavorare per migliorare il percorso universitario ». Mangiacavalli dice che «l’impegno degli infermieri è spesso ai limite anche della tolleranza fisica conseguenza del ricorso agli straordinari». Bisognerebbe puntare sempre di più sull’assistenza territoriale. «Senza infermieri non c’è futuro».

Ospedali e attrezzature vecchie
Non è solo una questione di persone ma anche di spazi. L’Italia deve rinnovare il suo parco ospedali. Le strutture sanitarie sono vecchie. Solo il 18% dei luoghi di cura ha meno di 34 anni. Sono ben più numerosi gli ospedali tirati su prima della fine della Seconda guerra mondiale, cioè fino al 1945. Sul totale nazionale sono il 27%. Proprio sulle strutture c’è stato alcuni mesi fa uno scontro tra Regioni e governo. Il Piano nazionale complementare (Pnc) al Pnrr prevedeva infatti lo stanziamento di 1,2 miliardi di euro per interventi la messa in sicurezza antincendio e antisismica degli ospedali. Soldi in molti casi già impegnati dalle amministrazioni locali. Il ministro al Pnrr Raffaele Fitto ha fatto sapere che quel denaro non è più disponibile e ha invitato le Regioni a reperire le risorse nel cosiddetto “Articolo 20”, un fondo per interventi su immobili sanitari. «Sono tagli», hanno denunciato le Regioni, sostenendo che nel fondo non c’è abbastanza denaro e di non aver ancora ricevuto le istruzioni su come utilizzare il denaro dell’“Articolo 20”.
Ma ad essere vecchie, in Italia, sono anche le apparecchiature sanitarie. Si tratta di un problema sia per la qualità degli esami svolti sia per la rapidità. Per Confindustria dispositivi medici, nel nostro Paese ci sono quasi 37 mila apparecchi di diagnostica per immagini non più in linea con lo stato dell’arte della tecnologia esistente: «Il 92% dei mammografi convenzionali, il 96% delle Tac, con meno di 16 slice, il 91% dei sistemi radiografici fissi convenzionali, l’80,8% delle unità mobili radiografiche convenzionali, il 30,5% delle risonanze magnetiche chiuse, da 1-1,5 tesla, hanno più di 10 anni». I soldi per rinnovare i macchinari, 1,1 miliardi, li ha messi il Pnrr. Molte Regioni sono avanti con gli ordini e le istallazioni, l’obiettivo è avere nel 2026 almeno 3.100 nuove grandi apparecchiature operative.
Liste di attesa e privatoIl sistema sanitario nazionale, da dopo il Covid, lavora meno. Nei primi sei mesi del 2023 ha fatto, dice Agenas, l’agenzia sanitaria delle Regioni, 29 milioni di visite e 34 milioni di esami (esclusi quelli di laboratorio). Nello stesso periodo del 2019, i due dati sono stati 33 milioni e 36,5. Già così si comprende che le liste di attesa non possono che essersi allungate. A fronte di una offerta che è calata, infatti, la domanda non è certo scesa (non ci sarebbe motivo epidemiologico), e così in certi casi i cittadini aspettano mesi e mesi. E qui c’è il grande bivio. Chi può permetterselo paga e va nel privato, chi non può aspetta. Che la prima ipotesi sia sempre più utilizzata lo dice Istat, che ha calcolato come addirittura il 50% delle visite specialistiche vengano ormai fatte a pagamento. Un dato enorme. In realtà c’è anche una terza via: andare al pronto soccorso, dove tutti sono curati gratis (o quasi, in certe Regioni c’è un ticket per i casi meno gravi).

Sempre Istat, nel suo Rapporto sul benessere equo e sostenibile ( Bes)calcola che il 4,2% dei cittadini nel 2023 ha rinunciato alle cure per motivi economici. Si tratta di 2,5 milioni di persone, dato cresciuto rispetto al 2022. Poi ci sono quelli che pagano. Il valore della spesa “out of pocket” è cresciuto negli anni, di pari passo con il venir meno della risposta del servizio pubblico, ma anche con l’aumento del fondo sanitario nazionale. Per Istat la spesa diretta delle famiglie nel 2012 era di 34,4 miliardi di euro. Nel 2022 è arrivata a quota 41,5 miliardi. La crescita è stata in 11 anni di oltre il 20%. Oltre 20 miliardi vengono spesi per visite specialistiche, servizi dentistici, servizi di diagnostica e per servizi paramedici. Altri 15 sono serviti a comprare farmaci, apparecchiature medicali e altro. «Il livello di spesa sanitaria in Italia è più contenuto degli altri paesi Ue, sia in termini di prodotto sia guardando in termini di parità del potere d’acquisto», ha da poco ribadito la Corte dei Conti: «La spesa privata sta crescendo in modo consistente, con una rilevante, forte differenza della capacità di spesa tra fasce più agiate e quelle più in difficoltà della popolazione. C’è dunque bisogno di mantenere un livello di spesa pubblica elevato per rispondere al declino che si prefigura». Per affrontare le liste di attesa, il governo ha presentato un dl con alcune misure subito prima delle elezioni Europee. Ma nel provvedimento, un misto di misure già previste e di indicazioni poi modificate dallo stesso esecutivo, praticamente non ci sono soldi.

Il nodo appropriatezza
Quando si parla di attese non si può tacere un altro problema che compete l’organizzazione: l’inappropriatezza, cioè il consumo di prestazioni inutili. Per certi esami, come le risonanze, si stima che gli accertamenti che non servono siano addirittura il 40% del totale di quelli prescritti. «L’importante è fare attenzione a non additare solo il medico come colpevole », spiega Nicola Montano, ordinario di medicina interna al Policlinico di Milano e presidente eletto della Simi, la Società italiana di medicina interna. «Tutto dipende dal sistema, non nasce da errori di un singolo attore. Per ridurla dobbiamo mettere chi prescrive in grado di lavorare con tranquillità. Oggi abbiamo una carenza di medici di medicina generale, quindi questi colleghi hanno un carico di lavoro importante, spesso sono molto giovani, e hanno una tendenza alla medicina difensiva ». Cioè, a prescrivere per paura di sbagliare.
Spesso sono gli stessi cittadini a chiedere più prescrizioni del necessario e se non le ottengono si rivolgono al privato. «Abbiamo da tempo un forte consumismo sanitario – dice Montano – che nasce da una iper medicalizzazione della società. I progressi delle scienze mediche sono stati così tanti chepraticamente tutti sono considerati malati. Nel frattempo però non facciamo prevenzione. Non insegniamo ai bambini a mangiare, alle giovani madri l’importanza dell’attività fisica o del sonno. Ma i fattori ambientali pesano per il 60% sullo sviluppo di una malattia».

Autonomia differenziata
Per il governo, o almeno per una parte, l’autonomia differenziata migliorerebbe anche la situazione della sanità. Il settore rappresenta un buon punto di osservazioneper valutare la nuova disciplina. Dal 2001 infatti la modifica del Titolo V della Costituzione ha assegnato gran parte delle competenze legate all’assistenza dei cittadini alle Regioni. Il sistema non ha funzionato molto bene, visto che le realtà deboli, prevalentemente nel Centro-Sud, sono rimaste in difficoltà e quelle con un’assistenza di livello medio-alto, salvo alcuni casi eclatanti, si sono confermate. Per questo in molti temono che l’autonomia differenziata rinforzerà alcuni di coloro che sono già forti e farà sprofondare chi è debole. Già oggi l’aspettativa di vita nel meridione è inferiore rispetto al settentrione (86,5 anni per le donne in Trentino-Alto Adige, 83,6 in Campania). Uno dei rischi è quello dello spostamento di professionisti e di conseguenza anche di pazienti verso le Regioni che lavorano di più e meglio. Con l’autonomia differenziata le Regioni potrebbero fare i loro contratti ai professionisti della sanità e ovviamente chi è più ricco offrirà paghe migliori, spingendo i camici bianchi e gli infermieri a spostarsi. Su questo da tempo lanciano l’allarme sindacati degli ospedalieri, che parlano del rischio di mobilità professionale. E il timore è anche che, in un Paese dove già oggi tantissimi viaggiano per curarsi (nel 2022, 140 mila malati da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania si sono ricoverati altrove e ben 62 mila sono andati in Lombardia), questi spostamenti diventino ancora più numerosi. E il sistema sanitario nazionale crolli.

venerdì 26 luglio 2024

Okkio!



I pesticidi nelle minerali, solo 4 non li hanno

Analisi del “salvagente” su 18 marche. In testa Evian, panna e S. Benedetto. Limiti rispettati

di Marco Franchi 

I pesticidi sono ormai ovunque. Se l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) li ha rinvenuti anche nelle acque sotterranee italiane, non c’è da sorprenderci che alcuni di loro si ritrovino anche nelle sorgenti di diverse acque minerali che gli italiani portano a tavola sempre più spesso (la stima è di 252 litri l’anno a testa, ma il dato è in continua crescita).
Il Salvagente in edicola da oggi ne ha testate 18 (Panna, Levissima, Sant’Anna, Rocchetta, Saguaro, Ferrarelle, San Benedetto, Lete, Eva, Uliveto, Vitasnella, Brioblu, Fiuggi, Guizza, San Pellegrino, Fonte Essenziale, Lauretana ed Evian) tra le marche più conosciute: solo 4 non hanno residui di pesticidi.
Il dato in sè non deve allarmare: le norme stabiliscono in 0,1 microgrammi al litro per singolo pesticida e in 0,5 totali, il limite da non superare e tutte e 18 risultano sotto questo limite. Con una avvertenza, quando in alcune acque ci sono 3 diversi principi attivi (tra cui interferenti endocrini tossici per la fertilità come il Propiconazole Cypermerthrins o che possono diventare cancerogeni come il Biphenyl), qualche domanda va posta. La classifica, stilata dal Salvagente sulla qualità delle minerali che finiscono in tavola, ha come parametro principale la presenza di pesticidi (che ha pesato per il 40 per cento sul voto finale), ma hanno avuto un peso anche le misurazioni su minerali, nitrati e sostenibilità.
La classifica vede in testa Panna Naturale, Evian naturale in vetro e San Benedetto Ecogreen Naturale. Molto buone anche Fiuggi naturale in vetro, Brioblu leggermente frizzante, Levissima naturale, Vitasnella naturale e Fonte essenziale naturale. Buone Ferrarelle effervescente naturale, Eva naturale, Saguaro (Lidl) naturale, Lete effervescente naturale, Lauretana naturale e Sant’anna naturale. Giudizio assai critico su Uliveto naturale, Guizza naturale, Rocchetta naturale e San Pellegrino frizzante.
Oltre al dato del mercato però, il mensile dei consumatori approfondisce anche il come sia possibile che anche le acque di fonte (quelle che teoricamente dovrebbero essere protette da contaminazioni), possano risultare contaminate anche ad altezze incredibili (Levissima, apprendiamo, imbottiglia a 3400 metri d’altezza). La presenza di campi molto irrorati e non troppo distanti potrebbe esserne una causa, certo. Ma la questione potrebbe essere un “campanello d’allarme che segnala qualche buco”, come dice al giornale Silvano Monarca, già professore ordinario di Igiene e medicina preventiva all’università di Perugia, esperto di acque minerali.
La sorpresa maggiore resta però quella dei controlli, che funzionano così. Le varie Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale) competenti di ciascuna regione trasmettono ai rispettivi concessionari gli elenchi degli antiparassitari da ricercare (quelli che si stimano essere maggiormente presenti nei luoghi di estrazione). Così le aziende ricercano soltanto quelli.
Nei test effettuati in laboratorio per il Salvagente, però, risultano dei residui di pesticidi diversi da quelli che l’Arpa aveva indicato di ricercare ad alcune marche. L’evidenza scientifica ci dice dunque che i pesticidi sono molto più volatili di quello che si pensi. La normativa andrebbe rivista.

Non capisce



Non ha colpe perché non comprende, non sa, gli è sconosciuto il valore della maglia, per lui la maglia è un oggetto da vendere. Che ne sa l’americano della storia del club, della Famiglia nata, vissuta, meravigliosamente espansa, traguardante sogni e trofei immensi, portatrice di glorie sportive difficilmente eguagliabili? Che ne sa l’americano della tradizione, dell’affetto, dell’appartenenza? Nulla, non capisce né capirà mai. Per lui Daniel è un gruzzolo, un numero, un ragazzo da spedire definitivamente nelle mani di un saggio, di quell’Adriano Galliani che invece comprende il tesoro della Famiglia, che mai si sarebbe privato in quattro e quattr’otto di Paolino, della sua storia, della Famiglia Maldini. Per riverenza, affetto, riconoscimento del valore intrinseco. 
Ma l’americano queste cose non le conosce, non sa nulla di storia capace d’ingalluzzire il presente, il futuro. 
Vendere Daniel equivale a trasmetterci il suo credo:”non ci capisco un cazzo, per me uno vale l’altro, fondamentale è guadagnare, il mito non esiste. Contano solo i numeri!” 
Che tristezza infinita!

Moore!!!

 

“Caro Bibi, l’antisemita sei tu: hai lasciato senza protezione chi ti critica”
IL REGISTA - “Hai le mani sporche di sangue: hai finanziato hamas e fai la guerra per salvarti”
DI MICHAEL MOORE
Pubblichiamo di seguito il messaggio scritto dal regista americano Michael Moore al premier israeliano, Benjamin Netanyahu in visita a Washington per il discorso al Congresso e gli incontri con il presidente Usa, Joe Biden, la vicepresidente Kamala Harris e Donald Trump.
Carissimo Bibi,
hai le mani sporche di sangue. Scrivo a te, il politico indagato per corruzione e frode e accusato di violazione della fiducia. A te che sei il Trump di Israele, con la faccia sporca di sangue, a te che hai finanziato Hamas con miliardi di dollari, che hai fatto affluire nella Striscia per seminare il caos che ti avrebbe permesso di scatenare la pulizia etnica che oggi pratichi con tanta gioia, sguazzando nel sangue dei bambini che hai massacrato. (…)
Scrivo a te, Netanyahu, che la storia giudicherà come il distruttore di Israele, il vero nemico del popolo ebraico che amiamo così tanto, e nemico di una fede che non considera nessun essere umano come un “animale”, ma piuttosto come un dono di Dio. A te, che hai ritirato i riservisti dal confine con Gaza proprio nei giorni precedenti al massacro del 7 ottobre, ben sapendo cosa sarebbe successo. A te, che hai sempre odiato i tuoi concittadini ebrei che vivevano nei kibbutz assaliti, perché votano contro di te e il tuo partito, perché molti di loro sono socialisti, pacifisti, atei, ex-hippie, organizzano festival di musica, scendono in piazza contro i tuoi tentativi di distruggere il sistema giudiziario israeliano. Sì, quegli israeliani ti disprezzano e tu, da buon autocrate o fascista quale sei, hai tolto loro la protezione e li hai mandati al macello. (…)
Bibi, tu oggi non appartieni al nostro sacro spazio democratico. Anche se qualcuno potrebbe obiettare che sei venuto nel posto giusto, in una nazione fondata sul genocidio e costruita sulle spalle di esseri umani ridotti in schiavitù, una nazione di apartheid che sosteneva di essere una democrazia. Una nazione dove la maggioranza della popolazione, le donne, le persone di colore e gli indigeni che non possedeva proprietà proprio perché erano donne e persone di colore, e incidentalmente erano anche poveri, non aveva il diritto di votare o di partecipare al regime dominante di apartheid patriarcale, nazionalista e cristiano bianco. (…)
Bibi, i nostri politici non ti amano davvero come dicono. La tua nazione è stata creata dai predecessori di quei deputati e di quei senatori che ti hanno applaudito al Congresso perché ci serviva uno Stato fantoccio in Medio Oriente per tenere sott’occhio la nostra droga preferita: il petrolio. (…)
Bibi, mercoledì hai diffamato chi, come me, ti critica accusandoci tutti di essere antisemiti. Lo ripeto: l’antisemita sei tu, l’assassino dei popoli semiti sei tu. Sì, l’antisemitismo esiste, negli Stati Uniti come dovunque. Ma le tue sono calunnie strumentali per coprire i tuoi crimini ignobili. Datti una calmata. Questo è il Paese gli americani della Georgia hanno eletto nei due seggi al Senato attributi allo Stato un ebreo e un nero. Per buona parte degli ultimi quarant’anni, circa il 10% del Senato degli Stati Uniti è stato composto da rappresentanti ebrei, quando solo il 2% della popolazione americana è ebrea. Come è potuto accadere? (Questo è il Paese in cui quando i sondaggi chiedono agli americani quale sia la loro religione preferita, la maggioranza risponde quella ebraica, e spesso gli intervistati sono cristiani). (…)
È stato davvero un giorno triste quello in cui un vero criminale di guerra si è rivolto al nostro Congresso a sessioni congiunte. (…)
Goditi l’incontro a porte chiuse con il nostro prossimo Presidente (sono sicuro che avrà belle parole per te) e saluta The Donald a Mar-a-Lago. Sappi però che attendiamo con ansia di vederti alla sbarra della Corte penale internazionale, prima o poi. Non occorre sottolineare l’ironia del fatto che questo tribunale sia stato originariamente istituito per celebrare il processo di Norimberga.

Carceri ed affini

 

Frottole sovraffollate
di Marco Travaglio
Come a ogni estate, ecco l’immancabile dibattito sulle carceri sovraffollate e su come sfollarle, col contorno dei soliti sciacalli pronti a legiferare per non farci più entrare chi di solito non le vede neppure col binocolo: i colletti bianchi. L’ultima ideona, firmata dal renziano Giachetti e sposata da FI e Pd, è quella di allargare la già indecente “liberazione anticipata” dagli attuali 3 a 4 mesi per ogni anno di pena. Nella sentenza c’è scritto che devi scontare 9 anni? Tranquillo, è tutto finto: 9 vuol dire 6, ma poi 6 vuol dire 2, perché – grazie alle svuotacarceri dell’ultimo decennio – i 4 finali li sconti ai domiciliari e ai servizi sociali. E’ la certezza della pena all’italiana, che aumenta il senso di impunità e dunque il numero dei reati anziché ridurlo. Così il problema rimane intatto, pronto all’uso strumentale per l’anno successivo. Quello che chiamiamo ‘sovraffollamento’, con tanto di numeri di detenuti in eccesso (14 mila) rispetto ai posti-cella previsti (47 mila), è frutto di un equivoco autolesionista tutto italiano. L’Italia calcola i posti-cella in base alla legge del 1975 che fissa 9 metri quadrati per il primo detenuto e 5 per ciascuno degli altri. Invece il Consiglio d’Europa ne raccomanda almeno 4 per ogni recluso. E la Corte di Strasburgo considera inumano uno spazio pro capite inferiore ai 3. Così un carcere sovraffollato in Italia non lo è nel resto d’Europa.
Ciò non significa che nelle carceri italiane si viva bene, anzi: molte sono un inferno (58 suicidi in 7 mesi). Ma perché sono vecchie, malsane, fatiscenti, poco differenziate per tipo di detenuti, incapaci di farli lavorare, permeabili alla droga, a corto di personale. L’unica soluzione è costruirne di nuove, ma i “garantisti” non ci sentono. Pensano che i detenuti siano “troppi” non si sa in base a cosa, a prescindere, cioè che in carcere ci siano migliaia di persone che non dovrebbero starci. In realtà, rispetto all’unico parametro serio – il numero di reati e di delinquenti – i detenuti sono troppo pochi: se si recuperasse un po’ di efficienza repressiva per risolvere un 5% delle centinaia di migliaia di delitti impunitie un po’ di certezza della pena, le carceri scoppierebbero ben di più. Del resto l’Italia, unico Paese con tre mafie ha un rapporto detenuti-abitanti simile o persino inferiore a nazioni con minori tassi di criminalità. C’è chi parla di un boom causato dalle “politiche securitarie” (ma quali?) del governo Meloni, ma anche questa è una frottola: la destra ha inventato ben 15 nuovi reati, tipo il rave party, ma sono tutte baggianate rimaste lettera morta, senza processi o arresti (a parte l’assurdo dl Caivano, che però ha aumentato di qualche centinaio le presenze nei carceri minorili, non negli ordinari). Forse, per risolvere il problema, bisognerebbe prima capire qual è.