L’EX SEGRETARIO DS E SINDACO SOTTO LA MOLE - Lo scandalo a Torino. Tutti parlano di voti comprati e mazzette sugli appalti. E lui – che della città conosce ogni spigolo di potere – si eclissa. Pronto all’ennesimo giro di poltrona (stavolta si parla di Europa), attende e annota
DI PINO CORRIAS
“Ma Fassino, il pover’uomo, dov’è?” Ah, saperlo. Fassino detto “L’ombra lunga della sera”, per via del suo doppio metro d’altezza, il fisico largo una spanna e l’umore pieno di nuvole nere, si è eclissato da Torino, fiutando l’aria, dopo l’ennesimo scandalo di appalti, voti di scambio e di tangenti, quelle che a Bari, per via del clima e del mare, chiamano “gelati”. Non si fa vedere in giro. Non parla. Non dichiara. Non risponde al telefono. Peccato. Perché conosce i Gallo, padre e figlio, da sempre. E di cose da dire sulla sinistra torinese – che fu comunista, socialista, riformista e persino paracula – ne avrebbe parecchie, visto che ci è nato dentro, dai tempi remoti dell’anno 1968, segretario del pci Luigi Longo, responsabile della Federazione giovanile torinese un infervoratissimo, barricadiero, Giuliano Ferrara, per dire come cambiano i globuli rossi e i secoli.
Solo una decina di giorni fa il nostro Piero era ancora in grande spolvero, pronto con le borse e le cravatte per andare a bere il bicchiere della sfatta a Bruxelles, ultima candidatura, forse, dopo le mille miglia percorse intorno ai tavoli della politica. A far di conto, un veterano di incarichi con sette legislature sulle spalle, a partire dall’anno 1994, due volte ministro, la prima con Giuliano Amato presidente, la seconda con D’Alema, una volta sottosegretario agli Esteri con Romano Prodi. Poi sindaco di Torino, 2011-2016, fino a quella memorabile sfida prima con Grillo (“provi lui a fare un partito, poi vediamo”) quindi con Chiara Appendino (“provi lei a fare il sindaco, poi vediamo”) che lo condussero alla sconfitta mai elaborata, dopo la quale smarrì Torino e forse anche il senno.
La passione politica di Franco Rodolfo Piero Fassino viene dal padre che fu comandante partigiano in Val di Susa, compagno d’armi di Enrico Mattei che nel Dopoguerra lo nominò concessionario Agipgas per il Piemonte. Un posto d’oro. Per questo Piero nasce benestante a Avigliana, anno 1949. Cresce circondato dal grigio della città fabbrica e dalla tetraggine del partito che assorbe prima l’invasione sovietica dell’Ungheria, anno 1956, poi della Cecoslovacchia, soffocata dai carrarmati. Quella seconda volta Piero acutamente annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra cosa”. Ma siccome è appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il contrario, iscrivendosi al partito, dove si trova subito benissimo: segretario della federazione giovanile provinciale, tanti saluti alle ceneri di Jan Palach.
Apostolo della disciplina di partito, combatte ogni deriva movimentista, detesta i No-Tav e il disordine grillino. Ammira (invece) tutti quelli che tagliano a pezzi e friggono la politica per masticarla a dovere, “dall’amico Giuliano Ferrara”, al “leale” Clemente Mastella. Sarà il primo a riabilitare Bettino Craxi, “una figura da inserire nel Pantheon del partito democratico”.
Gli piacciono gli operai che guarda entrare e uscire dalla fabbrica. Lui fa il volantinaggio e acutamente annota: “Nel movimento operaio coesistono un’anima movimentista e una contrattualistica”.
Ha un debole per il potere. Ma specialmente per la ricchezza e le estati sullo Yacht di Giovanni Bazoli, l’emerito di Banca Intesa. Ammira non tanto segretamente Berlusconi al punto che quando scoppia il pandemonio delle escort, anziché fare fuoco e fiamme, pigola come un qualunque Violante: “E’ una storia scabrosa. Dovrebbe essere il premier a dare una spiegazione per evitare che l’Italia diventi un gigantesco Bagaglino”. Ma davvero?
In una gustosa intercettazione al tavolo del ristorante “Il gatto nero” di Torino, con moglie e amici, si vanta della sua tenuta da 20 ettari in Maremma e della sua casa romana, accanto al Pantheon. Ma in pubblico tiene il profilo basso, al punto da chiedere un poco di commiserazione per il proprio scarso stipendio: “Noi parlamentari guadagniamo solo 4718 euro al mese”, diceva la scorsa estate alla Camera, sventolando il cedolino come fosse il suo personale reddito di cittadinanza. Per poi mettersi al riparo (con tutti i 13 mila euro mensili in tasca) dalla pioggia di uova e risate, che gli sono piovute dai social e dai giornali.
Delle frasi a vanvera è uno specialista. La più celebre resta “Abbiamo una banca!”, detta al telefono a Giovanni Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata a Bnl, anno 2005.
Nel partito, mai naviga in proprio. Non avendo carisma, si annette quello degli altri. È stato alleato di Achille Occhetto fino alla disfatta. Fedele prima a D’Alema quando conquistò il partito, poi a Veltroni che glielo sottrasse. Tifoso di Bersani salito a capo della ditta. Devoto a Renzi quando volle sfasciarla: “È lui che rappresenta la novità”, disse. Per poi affiliarsi a Zingaretti: “È uno dei miei tanti figli”. Per non dire “dell’ampio, sincero consenso” verso Enrico Letta, segretario “di alta visione”. Così alta che venne addirittura da Parigi per guidare il pd contro il muro della destra più destra di sempre, per poi tornarsene di corsa sui Campi Elisi.
A ogni bivio della Storia, Piero prende la scia e segue. Alle ultime primarie stava con Stefano Bonaccini, il leader sconfitto. Oggi sta con Elly Schlein, la segretaria che ha vinto. Dopo il temporale in corso, vedremo.
Tolta la politica ha poche passioni, a parte la Juve, la politica estera, il jazz, le melanzane alla parmigiana. Veste in giacca e cravatta, da quando è bimbo, a segnalare la sua battaglia, anche estetica, contro l’insicurezza. Un sentimento che lo imprigiona, segnalato da un veloce sbattere di palpebre, quando prende fiato, e insieme da ricorrenti scoppi d’ira. È dai tempi di Botteghe Oscure che si narrano le sue sfuriate, i portacenere lanciati contro le segretarie. Una cattiva fama che ha sempre smentito, ci mancherebbe. Recita da martire più che da carnefice. Finirà riabilitato, visto che non traffica in armi come certi amici di D’Alema. Non fa a pezzi i giornalisti con la sega elettrica, come certi compari di Renzi.
Della tempesta in corso a Torino intitolata “Ogni appalto un tot”, conosce l’alfa e l’omega. E sa anche lui quel che Il coro oggi ripete: “Tutti sapevano tutto”. Lui sta quieto in platea. Ascolta in silenzio. E al massimo acutamente annota.
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