Booom!

 

La contro-inoffensiva
di Marco Travaglio
Ci sono notizie così enormi che, quando le leggi, ti stropicci gli occhi e poi le rileggi per essere sicuro di aver capito bene. Dopodiché le cerchi nei tg e sui giornaloni e, non trovandole, capisci che sono vere.
Prima notizia. Il 13.9.2022, mentre il “mondo libero” era tutto intento a far credere che quella in Ucraina fosse l’unica guerra in corso, l’Azerbaigian filo-turco attacca per l’ennesima volta l’Armenia filo-russa per riprendersi il Nagorno-Karabakh, l’enclave armena indipendente dal 1991. Decine di morti e migliaia di profughi. Ma nessuno dice né fa nulla: né moniti su “aggressore e aggredito”, né armi agli aggrediti per difenderli dagli aggressori, né sanzioni agli aggressori perché smettessero di aggredire. Motivo: l’aggressore azero è amico nostro, ci fornisce il gas necessario a sostituire quello dell’aggressore russo, e noi in cambio gli vendiamo le armi e ci scordiamo il diritto degli armeni del Nagorno Karabakh all’autodeterminazione. Ora, certi dell’impunità, gli azeri tornano sul luogo del delitto per la soluzione finale: stragi di civili, repressioni, pulizia etnica ed esodo biblico di civili (circa 85mila profughi su una popolazione di 140mila, ma mica sono ucraini: sono armeni e ai genocidi ci sono abituati). Il Nagorno Karabakh non esiste più: un intero Paese cancellato da un giorno all’altro dalla carta geografica, mentre le famose democrazie e la pia Nato armano l’aggressore fischiettando.
Seconda notizia. Dopo mesi di annunci mediatici sui mirabolanti progressi ucraini nella “controffensiva di primavera”, partita in estate e non pervenuta neppure in autunno, fra “svolte”, “avanzate”, “conquiste” e “sfondamenti”, il New York Times si arma di righello e fa i conti: “Malgrado 9 mesi di sanguinosi combattimenti dall’inizio dell’anno meno di 500 miglia quadrate (800 kmq, ndr) di territorio sono passati di mano”. Tutti sottratti dagli ucraini ai russi? Magari: i russi sulla difensiva hanno guadagnato più territori (320 kmq, soprattutto a Est) che gli ucraini all’offensiva (227, soprattutto a Sud). Purtroppo, nei primi mesi d’invasione, i russi avevano occupato quattro regioni ucraine, pari al 18% del territorio, più la Crimea annessa nel 2014, per un totale di 135mila kmq; e negli ultimi nove mesi, gli ucraini sono riusciti a riconquistarne un seicentesimo (e al prezzo di circa 80mila fra morti e mutilati). Kiev ha perso l’equivalente di mezza Italia e riconquistato il corrispettivo della più piccola provincia d’Italia: quella di Trieste. Facile calcolare, a questo ritmo, quanti secoli impiegherà a riprendersi il resto, sempreché i russi non passino mai più all’offensiva e gli ucraini, nel frattempo, non finiscano gli uomini. Ancor più facile diagnosticare lo stato mentale di chi ancora parla di “vittoria”.

L'Amaca

 

Il provino sbagliato
DI MICHELE SERRA
Non si sa più da che parte cominciare, anzi ricominciare, per rimettere un poco di ordine nel settore delle “discriminazioni” su basi fisica. Si leggono cose sensate (poche) e cose assurde (molte).
Nella seconda categoria eccelle — come stupirsi — l’America.
Esempio di cosa sensata, ovvero di effettiva discriminazione su basi fisiche, sarebbe il rifiuto di assumere un giardiniere o un’avvocata o un barman perché sovrappeso: l’aspetto fisico non c’entra niente con la mansione che devi svolgere, dunque, se hai le attitudini professionali richieste, non assumerti è gravemente discriminatorio. Ma se al provino dove si cerca la protagonista di un balletto sulla vita di Nadia Comaneci dovesse presentarsi una danzatrice attorno al quintale; o se per un casting dove si cercano attori per un film d’azione mi presentassi io, che ormai corro i cento metri in un quarto d’ora e con un bicchiere di vino rosso in mano, e venissimo entrambi respinti, non si tratterebbe di discriminazione. Saremmo noi due, la danzatrice e il sottoscritto, ad avere sbagliato provino.
Non tutti possiamo fare tutto. L’elenco delle cose che mi sarebbe molto piaciuto fare e non ho fatto è molto più lungo di quelle che sono riuscito a fare. Questo può anche essere frustrante, ma è un richiamo alla realtà della condizione umana, che è transeunte e imperfetta. L’età, la forma fisica (nel cinema anche l’aspetto fisico) contano, e incidono. Proprio perché i casi di discriminazione, di dileggio, di esclusione, di abusi dei “normali” contro i fuori-norma sono tanti, e spesso crudeli, bisogna sgomberare il campo dall’equivoco che rischia di rendere insensata una materia (il diritto al rispetto) che è invece fondamentale.
L’equivoco è ignorare i propri limiti.

venerdì 29 settembre 2023

Lo sapevate?

 

Fattura 352 milioni l’anno. Il Turismo gli paga il défilé
MIRACOLI - La Santanchè dà 90 mila euro al gruppo della Ferretti per una sfilata poi diventata di beneficenza. Raccolti 57 mila euro
DI THOMAS MACKINSON
Una passerella sul fango con soldi pubblici. Chi l’avrebbe mai detto che la moda può salvare il mondo, un abito da 3 mila euro alla volta? Quel che non è chiaro, è se un ministro sia autorizzato a sponsorizzare una stilista o se Alberta Ferretti abbia bisogno della Santanchè. Dal suo ministero, spunta però un contributo da 90 mila euro per promuovere l’evento di un privato che ha boutique di lusso in tutto il mondo e fatturati da capogiro. Soldi pubblici per una sfilata-evento che, causa alluvione, si farà poi “solidale”. Ma, alla fine, raccoglierà 57 mila euro, cioè meno di quanto ha ricevuto. Un altro “miracolo” della ministra-imprenditrice, in linea con la moltiplicazione delle spese in Cina da 155 mila euro per sei delegati, compresa lei. Ma partiamo dall’inizio.
Il 26 maggio 2023, l’Emilia-Romagna affonda ancora nell’abisso di fango. Meloni e Von der Leyen hanno appena sorvolato i campi allagati di Forlì, la devastazione attorno a Ravenna e Cesena, l’agricoltura in rovina. Si celebrano altri due funerali, scatta l’allarme epidemia e il piano per i Comuni al buio. Nel centro di Rimini, invece, si accendono i riflettori, parte la musica a palla. Dalle mura di Castel Sismondo fuoriescono modelle avvolte in abiti leggeri, trame di seta e veli di chiffon. Va in scena “Ferretti Resort24”, la sfilata-evento della stilista romagnola fondatrice del gruppo quotato Aeffe che detiene i marchi Ferretti, Moschino e Pollini. In prima fila una parata di vip e politici. Spicca Daniela Santanchè con il suo Dimitri Kunz d’Asburgo, indagato con lei per le vicende Visibilia, che parla col prefetto Padovan. Ci sono la sottosegretaria alla Cultura Lucia Bergonzoni, Geronimo La Russa, il deputato Pd Andrea Gnassi. E poi ospiti stranieri, attori, cantanti e perfino due generali. Non era scontato. Fino a tre giorni prima, l’evento è stato in forse con 14 morti e 26 mila sfollati.
Alla fine prevale il carisma della Ferretti, romagnola doc, che il 23 maggio conferma che la sfilata si farà ma diversa: sarà solidale. Aeffe promette di organizzare un’asta benefica con Sotheby’s, mettendo in vendita pezzi speciali d’archivio e una t-shirt con la scritta “Io ci sono”. I dipendenti devolveranno il corrispettivo di un’ora di lavoro alla causa, e l’azienda farà una donazione equivalente. L’evento è salvo e nessuno polemizzerà. Racconta chi c’era che le uniche parole dedicate alle vittime vengono sussurrate a bassa voce. E che finché la stilista non li chiama sul palco, pochi hanno notato gli “angeli del fango” per i quali Ferretti ha disegnato la maglia. “Per aiutare la Romagna a ripartire, io ci sono”, twitta la Santanchè, che la indosserà giorni dopo, ma subito la impone alla povera Venere di Open to Meraviglia. Per quell’ora di sfilata, quando ancora nulla aveva di solidale, la ministra aveva dato 90 mila al gruppo da 352 milioni di fatturato.
Le date e gli atti non lasciano dubbi. Aeffe Spa chiede il contributo il 31 di marzo, il 10 maggio il segretario generale del Mitur firma la determina che assegna direttamente alla società, senza gara, le risorse per “provvedere ai servizi di organizzazione e promozione dell’evento”. Non è facile motivare la spesa. Il funzionario cammina sul velluto: chiama in causa “il carattere di unicità dell’evento” (e perché Armani o Fendi no?), la “risonanza mediatica che avrebbe generato”, “esternalità positive a beneficio del tessuto economico e sociale”. Non solo non fa scandalo quel contributo pubblico a un’iniziativa privata, ma può “trasmettere al resto del mondo un’immagine unitaria del Paese”. Open To Ferretti, insomma. Non stupisce che la Ragioneria generale abbia sollevato dubbi: nel “Piano strategico di Sviluppo” del ministero – 112 pagine – non c’è traccia di finanziamenti a operatori privati della moda. Epilogo, per polemiche preventive.
Ma alla fine, quanto è stato raccolto per gli alluvionati? A distanza di quattro mesi le istituzioni paganti non lo sanno, manifestano anzi un certo fastidio per la domanda (“pure su questo fate polemica!”). Tocca chiederlo al Gruppo Aeffe: si scopre che il ricavato è stato di circa 57 mila euro “interamente devoluti alla Protezione civile della Regione”. Perfino meno dei 90 mila euro che il gruppo da 100 milioni di capitalizzazione in Borsa ha ricevuto per organizzare e promuovere l’evento. Che però è stato un successo: la partecipazione di giornalisti, tv e vip ha permesso “una reach mediatica complessiva” di oltre 137 milioni di visualizzazioni. Gli alluvionati ringraziano.

Lente sui misfatti

 


Caro amico, ti prescrivo
di Marco Travaglio
Difficile trovare qualcosa di più trasversalmente odiato della prescrizione. Quella all’italiana, che le destre, Azione e Iv vogliono ripristinare azzerando la Spazzacorrotti del 2019 e tornando all’ex Cirielli imposta da B. nel 2005, funziona così. Tizio stupra una ragazza fuori dalla discoteca. Questa denuncia il fatto dopo qualche settimana, appena supera lo choc. Partono le indagini e la prescrizione inizia a ticchettare (dal giorno in cui è avvenuto il fatto, non da quando è stato scoperto). Si ascoltano i testimoni, alcuni vengono intercettati o si vedono sequestrare i telefonini, si cercano immagini dalle telecamere, si individua un sospettato, si raccolgono le prove, lo si arresta. Finite le indagini c’è il deposito degli atti, poi i 90 giorni per farne altre a richiesta delle parti, poi la richiesta di rinvio a giudizio, poi l’udienza preliminare e il rinvio a giudizio. Dopo mesi o anni inizia il processo e, dopo mesi o anni, arriva la condanna di primo grado. L’imputato ricorre in appello e lì, se i giudici sono lenti (o qualcuno viene trasferito) e gli avvocati la tirano in lungo con tutti i cavilli gentilmente offerti dal Codice di procedura, scatta la prescrizione prima della sentenza. Se invece si fa in fretta, il verdetto d’appello arriva in tempo. Ma la mannaia può calare in attesa di quello definitivo (il terzo, oppure il quinto se la Cassazione annulla con rinvio). Così lo stupratore resta innocente e torna libero di frequentare il quartiere, di incontrare la stuprata che l’ha denunciato e, incoraggiato dall’impunità, di riprovarci con altre ragazze.
La stessa scena si ripete ogni anno in 200 mila processi (eccetto quelli per omicidio volontario e strage), con tempi diversi a seconda dei reati. Un’amnistia selettiva per ricchi (quelli che possono permettersi di pagare gli avvocati per anni). Un incentivo ad allungare i tempi per arraffare la prescrizione anziché la condanna. E la paralisi del processo “accusatorio”, che può funzionare solo se – come nei Paesi anglosassoni – il 90% degli imputati patteggia o sceglie il rito abbreviato rinunciando al dibattimento, ma nessuno lo fa per non giocarsi la prescrizione. Perciò, dopo tanti appelli di magistrati, giuristi, giornali e vittime, Bonafede fermò la prescrizione dopo la prima sentenza. Ora che la coraggiosa riforma inizierebbe a salvare i primi processi da morte certa e a evitare che i tanti Tizio tornino liberi di stuprare, le tre destre e il Terzo Palo la cancellano. Resuscitando B. e l’ex Cirielli (il meloniano che all’epoca si vergognò di darle il suo nome e oggi non fa una piega). I 5Stelle si oppongono da soli, mentre il Pd riesce ad astenersi persino sulla loro mozione salva-troyan per tangentari. Riuscirà Elly Schlein a lasciarsi sfuggire una battaglia sacrosanta che imbarazza Meloni e, per giunta, porta voti?

Un’altra perla!



È stato liberato oggi il secondo brano del nuovo disco degli Stones, Sweet Sound of Haven, cantato assieme a Lady Gaga. Un’altra perla per quello che sembra sempre più un capolavoro della più grande Rock Band della storia! Vamos!

Bonus

 

Il Bonus Cazzate
di Marco Travaglio
Ora che Giorgia Meloni ha invitato gli alleati a “non superare il livello di guardia”, siamo tutti più tranquilli. Per due motivi. 1) Anche nel governo Meloni, per strano che possa sembrare, esiste un livello di guardia. 2) Non è ancora stato superato, altrimenti la Meloni avrebbe intimato a qualche alleato (uno a caso: il vicesegretario leghista Crippa, che aveva appena paragonato il governo Scholz al Terzo Reich di Hitler) di chiedere scusa e non farlo più. Restiamo dunque in trepidante attesa di sapere con esattezza dove si collochi l’asticella, pronti anche a scavare, se del caso. Un indizio lo fornì la stessa premier in partenza per le ferie quando, allarmata dall’assalto alla diligenza della Manovra, intimò ai ministri di evitare le “misure spot” e di chiedere solo “cose che si possono fare”, confessando così di essersi circondata di una manica di cazzari. Ora, con comodo, ci dirà se fra le misure spot che non si possono fare e dunque non vanno neppure nominate per non superare il livello di guardia rientrino il blocco navale, l’abolizione delle accise, la fine della pacchia per l’Europa, il sostegno militare all’Ucraina fino alla vittoria contro la Russia e la svolta legalitaria con Nordio alla Giustizia. Cioè le cinque parole d’ordine su cui lei, non un cazzaro qualunque, vinse le elezioni, seguite da una sesta: la leggendaria promessa di partire personalmente all’inseguimento degli scafisti in tutto il globo terracqueo.
Ci sarebbe poi lo storico La Russa, che derubricò i nazifascisti uccisi dai partigiani in via Rasella a “banda musicale di semipensionati”, poi indagò sulla denuncia di stupro a carico del figlio, lo assolse su due piedi e condannò la ragazza. E il geniale Nordio, che teorizzò come i veri mafiosi non parlino al telefono alla vigilia dell’arresto di Messina Denaro grazie al fatto che per fortuna parlava solo al telefono. E il sempre lucido Piantedosi, che chiamò “carico residuale” i migranti vivi. E il sagace Calderoli, che si disse minacciato dalla mafia perché aveva ricevuto una lettera firmata inequivocabilmente “Siamo la mafia”. Un capitolo a parte meritano le prodezze del reparto Famiglia. Tipo Gino Lollobrigida con la sostituzione etnica a opera della Spectre, i privilegi gastronomici della potente lobby dei poveri da guida Michelin, i fannulloni sdraiati sul divano fra i miliardi del Reddito di cittadinanza per non andare a zappare la terra e altre lollate. O Andrea Giambruno, che dichiara guerra a un ministro tedesco e agli scienziati del clima, poi avvisa le ragazze stuprate che basta non alzare il gomito per non incontrare i lupi (notoriamente attratti dall’alito alcolico). Spot? Livello di guardia? Oppure fidanzati, cognati, parenti e affini godono di uno speciale Bonus Cazzate?

mercoledì 27 settembre 2023

Sveglia!

 

Dal Canada al Trentino, i nazisti sono ovunque: è “La svastica sul sole”
di Daniele Luttazzi
Il conflitto in Ucraina sta sottoponendo i cittadini europei non solo ad assurde vessazioni economiche, ma soprattutto a un disagio psichico che non mi sembra adeguatamente segnalato: quello dovuto alla dissonanza cognitiva di chi vive in un Occidente democratico, dopo la vittoria sul nazifascismo nella Seconda guerra mondiale, ma si trova circondato da continui tributi a nazisti poiché gli Usa e la Nato hanno deciso di fare la guerra alla Russia servendosi dell’Ucraina, il Paese autocratico dove il nazista Bandera è un eroe nazionale. Un anno fa, a tutti sembrò bizzarro che Putin annunciasse un’operazione speciale contro “i nazisti ucraini”. Non si capiva perché lo facesse, e cosa c’entrassero i nazisti: i più non sapevano dei crimini neonazisti in Donbass, denunciati da Onu, Osce e Amnesty. Quasi tutta la stampa italiana, a parte il Fatto e il manifesto, si trasformò in megafono propagandistico per nascondere la verità che solo ora viene ammessa dal segretario generale della Nato Stoltenberg, e cioè che la Nato arma l’Ucraina in funzione anti-russa dal 2014, che Putin invase l’Ucraina per fermare la Nato, e che la Nato decise di non trattare con la Russia, anche se così si sarebbe evitata questa guerra del cazzo. E così siamo arrivati alla raccapricciante standing ovation della Camera canadese per l’ex SS Yaroslav Hunka. La scena pare tratta da un episodio di L’uomo nell’alto castello, la serie tv tratta dal romanzo di Philip Dick La svastica sul sole, che immagina una realtà alternativa in cui Germania e Giappone hanno vinto la Seconda guerra mondiale. Provai lo stesso raccapriccio da dissonanza cognitiva un anno fa vedendo Gramellini su Rai3 che usava toni struggenti per esaltare Vyacheslav Abroskin, generale della brigata filonazista Azov: arrivò a paragonarlo, in un panegirico da voltastomaco, addirittura a Oskar Schindler (t.ly/6oTDI). E ho provato lo stesso raccapriccio quest’estate, durante la mia vacanza in Trentino. Decido di visitare Brunico, ridente capoluogo della Val Pusteria. Salgo al castello e mi accorgo che di fronte c’è una collina boscosa, cui si arriva attraversando un ponte sospeso sulla strada provinciale. Un cartello comunica che sulla collina c’è un cimitero militare dei caduti nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, “il cimitero degli eroi”. Da un secolo, un’associazione di donne di Brunico si occupa della cura delle tombe, che sono quasi 900, divise per confessione religiosa: cristiana, ortodossa, giudea e musulmana. Si giunge al sacrario salendo una scalinata di 71 gradini. Nessuno ti avverte che, come arrivi, ti trovi davanti a tombe di nazisti, con tanto di croce celtica e foto in divisa da SS. Ho scattato delle foto perché non ci si può credere: t.ly/85lQg. A sinistra, per esempio, una tomba con croce celtica gigantesca ricorda l’SS-Sturmbannführer Luis Thaler, a cui a Ognissanti viene dedicata “una toccante cerimonia” (t.ly/WQVU9). Thaler comandava l’Unità di riserva delle Unità armate delle SS (400 uomini) e il Gruppo pronto impiego dell’82° Reggimento SS Italien (200 uomini). Responsabile dell’eccidio di Rodengo (dieci uomini accusati di attività partigiana, torturati e trucidati dai nazisti in fuga il giorno dopo la Liberazione: t.ly/CMjnN, t.ly/NDQm2, t.ly/1eNHB), fu catturato dai partigiani bresciani e fucilato; le sue ultime parole furono “Viva la Germania! Viva Adolf Hitler!”. Ero ancora piuttosto sconvolto quando, tornato a Fiè, vedo una casetta pittoresca adornata da artistiche voliere. Accanto al portone d’ingresso, una targa elegante in tedesco ricorda che lì nacque l’anatomo-fisiologo Max Clara. Chi è? Un nazista che condusse ricerche ed esperimenti su prigionieri, giustiziati o da giustiziare. Stiamo vivendo in un incubo alla Philip Dick. Vogliamo svegliarci?

Robecchi!

 

Contro-informazione. Il Paese irreale del Tg1: un’Italia di balocchi e gardenie
di Alessandro Robecchi
Un vecchio proverbio brasiliano dice: “Accendo la tivù e c’è tutto, apro il frigo e non c’è niente”. Uff, populista, massimalista, sempre a lamentarsi, che palle. Accendere la tivù, invece, non è mai stato rilassante come oggi, almeno qui, dove qualche telegiornale sta diventando la sezione costume di un rotocalco degli anni Cinquanta, un catalogo dell’Italia Bella, quella che vorremmo, colorata, affollata di turisti a bocca aperta per le sue meraviglie, intenta a passioni solide e tradizionali, come il giardinaggio, o la cucina regionale.
Sì, è vero, si parte sempre con qualche seccatura, i migranti o l’economia, pure la guerra, qualche frase di politico, le faccette di Giorgia che sono diventate un format. Ma poi, ecco che si apre la prateria dei nostri sogni, il racconto garrulo e soave di un Paese che ha molti problemi, ma il più pressante sembra questo: sui nostri balconi, gardenie o gerani? Una sarabanda fantastica: il mercatino di tendenza, la pasta coi tuberi gialli, l’annata del tartufo, il caso umano di riscatto e rinascita (“facevo il manager, ora bado le pecore e sono felice”), il cane che conta fino a sei, la sagra delle roselline a Vergate sul Membro e il neonato che riporta la vita nel borgo abitato da sei persone. Alla fine del Tg abbiamo assistito a venti minuti di diretta dal Paese dei Balocchi, un vorticoso cinegiornale strenuamente impegnato con parole e opere (e soprattutto omissioni) a disegnare un Paese rilassato e ottimista, speranzoso nel futuro, che guarda al domani con lo sguardo fervido e acceso del pioniere del benessere.
Insomma ci si lamenta molto – e giustamente – dello stato dell’informazione italiana, della sua sudditanza al potere e del controllo politico, ma la narrazione si fa anche in altri modi e maniere, meno diretti e anche più ideologici. Visto che si sono buttati fiumi d’inchiostro sul primo anno di Meloni – e giù osanna dai suoi, nonostante i millemila fallimenti – è forse il caso di guardare a un anno di narrazione del Paese, il famoso Paese reale. E quello che ne esce, in effetti, è una specie di buco spazio temporale: fuori dal tuo incubo di inflazione, recessione, benzina, mutui, c’è tutto un mondo di notizie fantastiche: asteroidi bellissimi pieni d’oro, progressi della scienza, città meravigliose fondate dagli antichi romani, che saremmo noi di questa Nazione. Alla fine, ti senti veramente un coglione, a esserti occupato di cose così meschine come i Cpr o il caro-affitti, e se ti chiedessero “dove vuoi vivere?” non avresti esitazioni: “Nella seconda parte del Tg1”.
In sostanza, non sarebbe un’ambizione sbagliata, e tutti dovremmo tendere a vivere in un mondo senza spigoli, dove non bisogna mettere insieme il pranzo con la cena o pagare la benzina come lo champagne, un mondo di progressi scientifici e sagre paesane dove noi – perché siamo dei geni italiani – ce la caveremo sempre.
Insomma, la narrazione sì, è un po’ cambiata in questo anno, anche se la tendenza è antica e stratificata e non c’è nulla di veramente nuovo, a parte l’abuso della parola Nazione, ormai spolverata come zucchero a velo, e spesso a vanvera, su ogni discorso. Un po’ poco, in effetti, per la poderosa seduta di ipnosi che servirebbe a scordarci la realtà, ma chissà, forse si può migliorare, colorare di più, esagerare. Fornire insomma una narrazione del Paese tutta virtuale e rassicurante, va tutto benissimo, siamo felici, un’Italia a realtà aumentata, che sarebbe tra l’altro l’unica cosa che aumenta nell’anno uno dell’era meloniana.

L'Amaca

 

Noni gli italiani
DI MICHELE SERRA
L’Italia, tra i Paesi europei, è al nono posto per numero di immigrati rispetto alla popolazione nazionale. Al primo posto c’è la Spagna (il 13,9 per cento dei suoi abitanti sono immigrati), al secondo l’Irlanda (13,8), al terzo la Svezia (12,3), al quarto la Germania (11,9), al quinto il Regno Unito (10,2), al sesto l’Olanda (10), al settimo la Francia (8,9), all’ottavo la Grecia (8,6), al nono l’Italia (8,3). La fonte è il rapporto delle Nazioni Unite sulla popolazione mondiale del 2005 e successivi aggiornamenti (l’ultimo è dell’agosto 2023).
Le cifre non dicono mai tutto; e su un fenomeno non sempre “in chiaro” come le migrazioni possono essere incomplete.
Ma hanno un peso evidente — tendono all’oggettività — e non possono essere ignorate. Siamo primi per numero di sbarchi, tra gli ultimi per accoglienza.
Un’accoglienza così scadente (a parte la generosità dei volontari e dei soccorritori in divisa) da rendere lecito il sospetto che la si mantenga tale per favorire la volontà degli stranieri in transito di andarsene al più presto laddove, per esempio in Germania, la volontà politica di integrazione e di potenziale con-cittadinanza è molto più forte.
La lagna meloniana e la brutalità salviniana hanno, come tutte le posizioni politiche, una loro ragion d’essere.
Calcolo elettorale, per esempio. O anche, semplicemente, sincera xenofobia. Ma non hanno alcuna pezza d’appoggio nella realtà fattuale del continente europeo, che vede altri Paesi molto più capaci di accogliere riducendo l’impatto negativo (che c’è) e valorizzando le grandi opportunità (che ci sono). Che il nostro duo patriottico polemizzi proprio con chi, sulla gestione dell’immigrazione, è più solido, più preparato e, non da ultimo, più ospitale di noi, è veramente imbarazzante.

martedì 26 settembre 2023

Mannaggia!



Peccato, proprio stasera che vado a vedere la mostra internazionale “calli & callifughi”… sarà per un’altra volta…

Che goduria!



Chi lo segue è un Gasparri!

E basta!


Il Tg3 m’informa che è stata eseguita l’autopsia al boss mafioso durata ben 5 ore… che sta arrivando il carro funebre… mumble mumble… chiedo: e a noi che ce frega? Cinque ore di autopsia a quale scopo? Perché non ingaggiare anche quattro o cinque prefiche? Più se ne parla e più lo si trasforma in un simbolo! Fatelo cadere nell’oblio e non sapete di che parlare, ricordate le sue innumerevoli vittime!

Raggiunto!



A Gaspà visto che sei lì dicci che c’è al centro della Terra!

Come si fa?

 

Viva il nazi (se è ucraino)
di Marco Travaglio
Non ha commesso errori né gaffe il presidente della Camera canadese Anthony Rota, quando venerdì ha chiesto la standing ovation per “l’eroe ucraino e canadese della Seconda guerra mondiale che combatté per l’indipendenza dell’Ucraina contro i russi” Yaroslav Hunka, 98 anni, che sedeva sugli spalti per applaudire Zelensky. Né lui, né i deputati che si sono alzati ad applaudirlo, né Zelensky che non ha detto una parola. Nessuno poteva sapere che Hunka“prestò servizio nella 14ª divisione Waffen Grenadier delle SS naziste i cui crimini contro l’umanità durante l’Olocausto sono ben documentati” (come han reso noto gli Amici del Centro Wiesenthal). Ma chiunque avesse letto un Bignami della Seconda guerra mondiale sa che chi combatteva in Ucraina contro i russi stava con i nazisti. Lo sanno gli ucraini, che venerano come eroe nazionale il collaborazionista delle SS Stepan Bandera, eleggono partiti neonazisti in Parlamento e vantano milizie neonaziste nelle forze armate. E lo sanno i canadesi, che dichiararono guerra alla Germania 26 mesi prima degli Usa e combatterono i nazisti al fianco dell’Urss (che ci rimise circa 27 milioni di morti).
Quello che è accaduto al Parlamento di Ottawa durante la visita di Zelensky è l’ultima tappa dello strisciante sdoganamento del neonazismo ucraino iniziato il 24 febbraio ’22 con l’invasione russa. Fino ad allora media e politici occidentali, Onu, Osce e Amnesty denunciavano i partiti neonazisti in Ucraina e i crimini delle loro milizie in Donbass. Poi è scattata la sordina e infine la beatificazione degli “eroi” del battaglione Azov con le rune stilizzate e le svastiche tatuate. Un pietoso velo sul paradosso di un presidente ebreo che loda le milizie neonazi e arringa il Parlamento greco in tandem con un figuro dell’Azov, fra le proteste di governo e opposizione. L’ha notato, rara avis, il Pulitzer Glenn Greenwald: “È incredibile che la stampa occidentale, dopo un decennio passato a chiamare gli Azov fanatici neonazisti, ora ne parli con ammirazione e dica che il loro nazismo è propaganda russa”. A furia di lasciar correre per carità di patria (ucraina), un anno fa l’ambasciatore di Kiev a Berlino celebrò come “combattente per la libertà” Bandera, criminale di guerra coinvolto nella deportazione e uccisione di migliaia di ebrei. E il 4 novembre l’Onu approvò l’annuale risoluzione russa per la “lotta alla glorificazione del nazismo, del neonazismo e di altre pratiche che alimentano razzismo e xenofobia”. Ma con soli 106 Sì (contro i 121 dell’anno precedente), incluso quello di Israele. Contrari, come sempre, Usa e Ucraina; e, per la prima volta, tutti i Paesi Nato e alleati, esclusa la Turchia e inclusa l’Italia. Gli antinazisti, com’è noto, sono dei fottuti putiniani.

L'Amaca

 

Chi è il più nero del reame?
DI MICHELE SERRA
Sottopongo all’Albo dei Politologhi il seguente quesito: come è possibile che il partito italiano più a destra non sia Fratelli d’Italia, che ha la fiamma di Almirante nel simbolo,ma la Lega del Salvini?
Gli episodi di cronaca che certificano questa mia affermazione sono davvero tanti. L’ultimo arriva da Grosseto, dove i meloniani avrebbero negato il patrocinio del Comune alla presentazione del libro del generale Vannacci (at-tenti! Avanti march!), caldamente perorato da un consigliere leghista proveniente da CasaPound. Una ricerca interessante, intanto, sarebbe: quanti, di CasaPound e Forza Nuova, si sono accasati con Salvini, quanti con Meloni? La risposta aiuterebbe a certificare “scientificamente” il tasso di fascismo nei due partiti. È una bella gara, e il vincitore potrebbe essere una sorpresa. Così, a naso, scommetterei sulla vittoria della Lega ex Nord, fatta nera in pochi anni dal Salvini e più ancora dal silenzio imbarazzante dei cosiddetti “moderati”, tipo Giorgetti e Zaia, che sarebbe meglio chiamare, come corrente, “gli ignavi”.
Tornando alla storiella di Grosseto, se ne deduce che Vannacci imbarazza, almeno un poco, il partito della premier Meloni; non imbarazza per nulla i leghisti. Corollario comico, i numerosi incontri pubblici di Vannacci, che è in tournée come i Pooh, hanno per titolo “basta con la censura”. I censurati di tutto il mondo, zittiti o in galera per le loro idee, sono autorizzati a chiedere i danni per truffa ideologica.

Enfasi



Ecco la notizia che non avremmo mai voluto leggere… nel senso che bastava un insignificante trafiletto in dodicesima pagina. Invece vengono esaltate le gesta di quest’assassino, la sua granitica fermezza a non pentirsi, e via andare. Giusto che lo Stato lo abbia curato, sbagliato invece dare evidenza della scomparsa. A quando una fiction sulla sua vita?

Tomaso il Greco

 

I fascio-leghisti contro Greco: perché apre l’Egizio al mondo
TORINO, GLI ATTACCHI AL DIRETTORE - Nelle sale del Museo si inizia a intravedere che una società multiculturale è più bella, umana e ricca di una astratta e asfittica celebrazione dell’identità italiana
DI TOMASO MONTANARI
L’assalto dell’estrema destra al direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco mette in luce due diversi problemi. Il primo è fin troppo evidente: il gene di Neanderthal non spiega (forse) solo la mortalità lombarda da Covid, ma anche il livello cavernicolo dei leghisti e dei fratellitalioti che odiano un direttore che prova (con successo) a decolonizzare un museo che nacque sottraendo all’Egitto, e a tutto il continente africano, un patrimonio capitale. Le aperture del museo alla comunità egiziana piemontese, e più in generale a quella arabofona in Italia, sono passi preziosi di un percorso che dovrebbe portare i musei italiani ad aprirsi “a tutti”, come la Costituzione dice della scuola. Il terrore dei fascio-cavernicoli è evidente: in quelle sale si comincia a intravedere che una società multiculturale è non solo possibile, ma perfino più bella, umana, ricca e aperta al futuro di una asfittica e astratta celebrazione dell’identità italiana usata come una clava (per di più usata da un personale politico che ha serie difficoltà perfino con la lingua italiana). Si capisce che Greco non sia il tipo ideale di direttore, per questa destra orribile: che a Firenze medita di candidare a sindaco il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, appena sorpreso a mettere in cattedra un terrorista nero (affidandogli una conferenza su Caravaggio, la legge e l’onore…). Difendendo Greco, molti osservatori democratici hanno aggiunto che le pretese della destra sarebbero anche inattuabili perché l’Egizio è un ente di diritto privato. Ma questo non è vero: e anzi qua sta il secondo problema.
Alle 11.30 del 6 ottobre 2004 il Museo Egizio di Torino fu “il primo grande museo italiano a diventare Fondazione: una scelta – esultò il ministro Giuliano Urbani, governo Berlusconi II – che renderà possibile una gestione più efficiente e moderna”. La Fondazione a cui è stato conferito quell’inestimabile patrimonio pubblico per la durata di trent’anni è composta da Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Piemonte, Provincia di Torino, Città di Torino, Compagnia di San Paolo e Fondazione Cassa di Risparmio di Torino. Il primo consiglio di amministrazione assunse il direttore del museo senza nemmeno consultare il Comitato Scientifico, composto da egittologi illustri. Ma ciò che rese subito ben chiaro cosa significasse il passaggio da museo dello Stato a museo di una fondazione di diritto privato fu il nome del presidente, che non fu quello di un serio egittologo ignoto al grande pubblico (benché il regolamento di Urbani sancisse che egli avrebbe presieduto anche il comitato scientifico), bensì quello di un membro della famiglia Agnelli, e padre dell’allora vicepresidente della Fiat: lo stazzonato Alain Elkann, poi divenuto famoso come nemico mortale dei nuovi lanzichenecchi. Finito, nel 2012, il memorabile mandato di quest’ultimo, il posto è toccato ad Evelina Christillin. Naturalmente la scelta cadde su un’altra componente dell’oligarchia torinese (in una regressione dei musei pubblici verso l’antico regime), ma bisogna riconoscere che Christillin ha guidato la fondazione con saggezza, riuscendo ad assicurarle un direttore di prim’ordine come Greco: sotto la loro guida l’Egizio è tornato a svolgere, e assai bene, un servizio pubblico intellettuale (per usare un’espressione di Antonio Gramsci). Basta questo breve sunto della storia recente del museo per far capire quale sia il problema: tutto dipende dalla personalità del presidente, e dalle decisioni del consiglio d’amministrazione.
Se MiC e regione Piemonte volessero cacciare il direttore, anche contro il parere del Comune, con chi si schiererebbero i rappresentanti in cda delle fondazioni bancarie? È davvero difficile immaginare una ferma opposizione di queste ultime al potere esecutivo, e dunque alla fine sarà comunque la politica a decidere se fermarsi o se andare fino in fondo. E non basta. La riforma dei musei di Dario Franceschini (celebrata quasi da tutti coloro che oggi giustamente insorgono a favore di Greco) ha preso a modello proprio la fondazione dell’Egizio: affidando anche agli enti locali i cda e i consigli scientifici dei grandi musei nazionali, e mettendo saldamente nelle mani del ministro stesso la nomina dei direttori dei musei di fascia A, scelti da una terna preparata da una commissione in cui il ministro ha sempre avuto suoi autorevoli emissari. In questo modo, si è passati dal concorso pubblico (garanzia di oggettività, e di indipendenza) a una soggezione diretta dei musei al potere politico, con esiti clamorosamente grotteschi, come per esempio la trasformazione di Pompei in una specie di sala stampa del governo Renzi, e oggi di quello Meloni.
È dunque giusto, e necessario, difendere oggi Greco e il Museo Egizio, e lottare perché i nipotini del duce si accontentino della mummia di Predappio: ma se vogliamo essere credibili, e onesti, dobbiamo anche denunciare i disastri della (non)sinistra che ha privatizzato il patrimonio, e lo ha utilizzato come strumento di propaganda.

domenica 24 settembre 2023

Lasciateli in pace!



La Zarina Botulina è proprio figlia di cotanto padre! Come lo stemma di famiglia impone, gli interessi personali vengono prima di qualunque altra quisquilia del popolino. Il maître Tajani, sguinzagliato a comando nei meandri di questa politica simil nera, ha recepito l’ordine di scuderia. Tassare gli extra profitti delle banche, compresa la loro Mediolaum? Ma che dite? E dire che la trovata della Ducetta in fondo non era male, servono soldi perché non prenderli dagli Alì Babà mascherati da banchieri? Ma il partito azienda fondato dal Mausoleante non ammette sconti! Toccano il Forziere, pertanto vanno liofilizzati, sminuzzati, resi innocui. Grande vittoria del Maître, la Zarina Botulina lo ricompenserà giustamente. D’altronde son trent’anni che lor signori si stan facendo gli affaracci loro, perché innervosirli? Le tasse le devono pagare solo i coglioni! E ora tutti davanti alle loro tv sane e indipendenti! Che bel paese il nostro!

In memoria.... ehm...

 

Il Peggiorista
di Marco Travaglio
Ci vuole un gran talento a fare il parlamentare per 70 anni, il presidente della Repubblica per nove, il presidente della Camera per 5, il ministro dell’Interno per 2 senza mai azzeccarne una. Quindi Napolitano di talento ne aveva da vendere. Fascista fino alla Liberazione e poi comunista, nel 1956 esalta l’Armata Rossa che soffoca nel sangue la rivolta di Budapest, anzi libera l’Ungheria dal “caos” e dalla “controrivoluzione” e “salva la pace nel mondo”. Plaude al Pcus che esilia Solzenicyn. Partecipa all’espulsione dei dissidenti del manifesto, critici sull’invasione della Cecoslovacchia. Poi diventa il “comunista preferito” di Kissinger, ma anche della Fininvest. Capo della destra Pci (i “miglioristi”, detti “piglioristi” per le loro arti prensili), fa la guerra a Berlinguer che osa porre la “questione morale” e chiamare Craxi col suo nome: “gangster”. Nel ‘92, quando i gangster finiscono sotto inchiesta, è presidente della Camera e legge in aula la lettera del socialista Moroni, suicidatosi perché coinvolto in Tangentopoli, fiancheggiando l’assalto degli impuniti a Mani Pulite.
Nel 2006, dopo un passaggio al Viminale sanza infamia e sanza lode, diventa presidente della Repubblica. E inizia a impicciarsi dappertutto in barba alla Costituzione. Come racconterà il ministro Padoa Schioppa, mette i bastoni fra le ruote al Prodi 2 in nome della prima missione della sua presidenza: le larghe intese con B. (il leader Pd Veltroni gli va dietro e si brucia subito). La seconda è l’attacco a tutti i magistrati che indagano sul potere: Woodcock, De Magistris, Robledo, Forleo e i pm di Palermo che hanno scoperto la trattativa Stato-mafia, trascinati alla Consulta perchè intercettando Mancino si sono imbattuti nella sua sacra Voce. Moniti, pressioni e sanzioni tramite il Csm, ringraziamenti ai procuratori che sterilizzano le indagini scomode (come Bruti Liberati sul caso Expo) e interventi a gamba tesa contro chi non lo farebbe mai (come quello che blocca il Csm perché non nomini Lo Forte a Palermo). Al terzo governo B. la dà sempre vinta, firmando tutte le leggi vergogna (tranne il decreto Englaro). E quando il Caimano ne fa una giusta opponendosi all’attacco Nato in Libia, lo costringe a intrupparsi. Lo salva pure dalla sfiducia dei finiani, rinviandola di due mesi e dandogli tempo di comprare i “responsabili”. Lo scaricherà solo quando lo farà l’establishment nazionale e internazionale. Intanto scava trincee contro i 5Stelle che minacciano l’Ancien Régime di cui è santo patrono e imbalsamatore. “Boom dei 5Stelle? Non vedo nessun boom”, esclama stizzito ai loro primi successi. Va bene ‘sta democrazia; ma, se il popolo non obbedisce, si abolisce il popolo.
Nel 2011 B. si arrende allo spread e agli scandali e lui, per scongiurare le elezioni, architetta il governo tecnico di Monti, che fa pagare la crisi ai più deboli. Crede di aver salvato l’establishment, invece nel 2013 il M5S balza da zero al 25,5%, alla pari col Pd di Bersani, che prima di Monti aveva la vittoria in tasca. Napolitano dà il meglio di sé: dopo aver giurato per mesi che mai si farà rieleggere, briga per il bis per sbarrare la strada a Rodotà, candidato di Grillo, Vendola e base dem (occupy Pd di Schlein) e a Prodi (impallinato dai franchi tiratori che, per sua maggior gloria, uccidono pure Bersani): due presidenti che rispetterebbero gli elettori benedicendo un governo di cambiamento M5S-Pd-Sel. Incontra B. per garantirsene l’appoggio, si fa rieleggere da Pd, FI e Centro e crea in laboratorio il governo Letta con i partiti che han perso le elezioni per tener fuori chi le ha vinte. Un altro golpe bianco, ma pure miope: all’opposizione ci sono M5S, Lega e FdI: i partiti che vinceranno le elezioni dal 2018 al 2022. Mentre i giudici di Palermo distruggono le sue intercettazioni, lui commissaria le Camere con un discorso della corona mai visto prima in una Repubblica parlamentare: la sua presidenza bis sarà a tempo (ma la Costituzione parla di 7 anni) e “a condizione” (che i partiti che l’han rieletto formino il governo e riformino la Costituzione che ha giurato di difendere per ben due volte).
Però il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: dopo tre mesi B. viene condannato in Cassazione e deve lasciare il Parlamento per la Severino. Lui gli dà pubblicamente le istruzioni per ottenere una grazia incostituzionale, che gli promette in segreto se lascerà il Senato prima di venirne cacciato: tutto purché FI tenga in piedi Letta. Ma FI se ne va col suo leader pregiudicato: altri intrighi per far nascere il Ncd coi cinque ministri forzisti imbullonati alla poltrona. Letta comunque va a casa nel febbraio 2014, cacciato da Renzi che ha vinto le primarie Pd all’insegna della “rottamazione”. Napolitano cambia cavallo e provvede subito a formattare il Rignanese per la restaurazione. Dalla lista dei ministri, piena di impresentabili, depenna l’unico buono: Gratteri (non sia mai che faccia funzionare la Giustizia). E impone a Renzi la sua vera fissazione: la riforma costituzionale per verticalizzare vieppiù il potere, come chiedono i poteri finanziari italiani e internazionali. Renzi esegue e ci rimane stecchito, entrando di diritto nel Comitato Vittime di Napolitano insieme a Prodi, Veltroni, Letta, Bersani, Fini e Monti. Re Giorgio si dimette nel 2015, giusto in tempo per perdersi i boom dei 5Stelle alle Comunali del 2016 a Roma e Torino e alle Politiche del 2018. Con tutto quello che ha fatto per loro.

L'Amaca

 

Non si fermano all’alt!
DI MICHELE SERRA
La sola cosa che si può dire con certezza, a proposito dell’odissea pluridecennale di milioni di migranti, è che le sue dimensioni storiche, umane, politiche, sono così smisurate che si è costretti a parlarne a bassa voce, misurando le parole per non sembrare ridicoli.
Purtroppo questa prudenza (pudore? intelligenza?) non è moneta corrente, e negli ultimi giorni i toni sono tornati striduli, come da protocollo “emergenza” (che emergenza non è). Su uno dei giornali di destra che l’avvento al governo della presidente Meloni ha reso ancora più indistinguibili di prima — sono tutti mobilitati per il fronte — abbiamo potuto leggere, a caratteri ciclopici, che bisogna “chiudere il Mediterraneo”. Che è un po’ come: spianare le Alpi, prendere al lazo la Luna, rimpicciolire il Pacifico, trainare l’Oceania, eccetera.
Si capisce che l’idea di “chiudere” un mare che dalla notte dei tempi è via di comunicazione per popoli europei, asiatici, africani, e ha più coste e più rotte di quanto sia immaginabile, faccia addormentare più sereni quelli che sognano una vita blindata e appendono al cancello la scritta “attenti al cane e al padrone”, con pistola in bella vista. Ma esisterà pure, santo cielo, un principio di realtà che valga anche per loro. E li aiuti a fare i conti con la natura instabile e complicata del mondo e degli uomini.
Bloccare, chiudere, blindare, sono verbi buoni per le guardie giurate (meritoria categoria) che ci aiutano a dormire più tranquilli. Ma illudersi di poterli estendere “al Mediterraneo” è patetico e un tantino psichiatrico. Che si fa, si mettono un milione di telecamere di sicurezza lungo le coste, e un milione di cartelli “attenti al padrone?”. Quelli passano lo stesso. La storia e la geografia non si sono mai fermate all’alt.

sabato 23 settembre 2023

Così per dire



Queste dirette dall’ospedale, con dovizia di informazioni mediche, in cui sta morendo uno che ha ucciso centinaia di persone tra cui carabinieri, persone per bene, che ha partecipato agli attentati dinamitardi negli anni, che ha sciolto nell’acido un bimbo, fanno molto incazzare. Fermo restando che la morte non si augura mai a nessuno. O quasi.

Travaglio

 

Lo difenderemo noi
di Marco Travaglio
Ora che tutti gli articoli sull’Ucraina sembrano scritti da Orsini senza che nessuno gli chieda scusa o gli versi almeno la Siae (anzi, dicono pure che non ci azzecca mai, mentre lo copiano con 18 mesi di ritardo), dobbiamo prepararci a difendere Zelensky dal cinico tradimento dei presunti amici: le cosiddette democrazie occidentali, che l’hanno illuso di armarlo e finanziarlo in saecula saeculorum fino all’ineluttabile vittoria finale (contro la Russia e le sue 7 mila testate atomiche), hanno usato il suo popolo come carne da macello nell’ennesima guerra per procura e ora lo scaricano un po’ per volta, giorno dopo giorno, per non dare troppo nell’occhio. Di questo passo, al pover’uomo non resteremo che noi “putiniani”, come ci raffigurava la propaganda atlantista perché scrivevamo ciò che tutti sapevano e vedevano, ma nessuno diceva. Se le ultime sfilate internazionali del presidente ucraino sono state imbarazzanti, non è stata colpa sua (lui è sempre lo stesso), bensì degli “alleati” che l’hanno esposto a figuracce cosmiche.
I membri del G20 a Nuova Delhi gli hanno fatto fare la solita passerella, poi hanno censurato “l’uso della forza” in Ucraina senza neppure citare la Russia. All’Onu, mentre lui tuonava, la Polonia – il Paese più antirusso e più armato della Nato antirussa – annunciava lo stop alle forniture militari, un po’ per le elezioni imminenti (chi arma Kiev perde persino lì), un po’ per la guerra del grano. A Washington gli hanno lasciato chiedere di parlare al Congresso (ci era riuscito persino B.), per poi farlo liquidare dallo speaker della Camera Kevin McCarty con parole sprezzanti: “Non abbiamo tempo, dobbiamo discutere il bilancio”. Che non contempla le nuove armi per 24 miliardi promesse da Biden e bocciate dai Repubblicani fino al 2024 (quando, con la campagna elettorale, l’Ucraina passerà di moda, dopodiché potrebbe tornare Trump e chiudere definitivamente il rubinetto). Lo stesso Biden, peraltro, ha glissato sui tempi d’invio dei supermissili Atacms (per gli F-16, campa cavallo: bisogna prima addestrare i piloti). Tant’è che per la prima volta Zelensky ha pronunciato la parola “sconfitta”: “Se non ci armate ancora, perdiamo la guerra”. In realtà, com’era prevedibile dall’inizio e tantopiù col fallimento della controffensiva, Kiev la guerra la sta già perdendo: c’è persino chi teme una contro-controffensiva russa da Nord, dove Putin ha pronte nuove truppe al confine. Chissà se, con tutte le carte in tavola, qualcuno dei nostri scemi di guerra capirà ciò che è sempre stato lampante. Chi si batte per un cessate il fuoco e un compromesso territoriale lo fa per il bene dell’Ucraina, non della Russia: i veri putiniani sono gli atlantisti.

venerdì 22 settembre 2023

Un saluto!



È stato il più grande portatore di borracce, i suoi mastodontici polmoni permisero all’Estro Dieci disceso in terra di conquistare due coppe dei Campioni, due scudetti, una Coppa Intercontinentale e una Coppa delle Coppe. Senza Giovanni Lodetti, scomparso oggi ad ottantun’anni, questi innumerevoli trofei probabilmente non farebbero parte della sconfinata sala trofei rossonera. Mai sopra le righe, uomo di poche parole perché amante della praticità che esternava sul campo, Lodetti entra di diritto nella Hall of Fame del Milan. Riposa in pace Giovanni! E grazie di tutto!

Meditate

 


Quando sei giù di corda rifletti che in fondo in fondo ti è andata bene! Pensa essere nato calamaro come questo tipo, che nuota nelle profondità dell’oceano senza meta, con quegli occhi spalancati a cercare qualcosa nel buio profondo, con quel pennacchio ad minchiam che non si può neppure pettinare. E poi per rendergli ancora più tetra la vita l’han fatto purè trasparente! Così se una sera decidesse di papparsi qualcosa di succulento, la mamma calamara lo sgamerebbe subito, redarguendolo al buio! Rifletti e dei problemi sbattitene ‘r belin!


Mai contenti!



Proprio non vi capisco! Ma è così bello quando si arriva dal raccordo vedere quella striscia giallina che ci ricorda i fasti antichi dell’Enel! E poi quei profumi, che alcuni chiamano miasmi, di gasolio che ti rende la serata effervescente! State calmi e siate arrendevoli! Non avete ancora capito che siamo servitori proni di lor signori turisti? Fatevene una ragione!