Nordio, il garantista intermittente tra cene e manette lagunari
VITA E OPERE (POCO GRANDI) DEL GUARDASIGILLI - Br, Mose e Meloni Sta con “Mani Pulite”, poi si pente. L’inchiesta sulle coop rosse è un flop. Maledice le intercettazioni, ma ne ha fatto largo uso. A una ferrea regola però non sgarra: in ufficio mai oltre le 17
DI PINO CORRIAS
Per l’età e la sapienza storica si paragona a Churchill. D’aspetto si è gemellato a Giordano Bruno Guerri, quello che vive al Vittoriale con i fantasmi dannunziani. Invece è solo il dottor Carlo Nordio da Treviso, detto l’Intermittente, qualche volta burbero di legge, sempre elegante nei modi, bon vivant per prassi quotidiana e cene veneziane. Ex magistrato di laguna. Neo ministro di lotta e sorprendentemente di governo, visto che per quarant’anni ha ripetuto che un “un magistrato mai e poi mai sarebbe dovuto scendere in politica”. Nemmeno da ex.
Tuttavia a 75 anni compiuti, la noiosa pensione gli ha suggerito l’ascensione tra i velluti di Montecitorio con 115 mila voti incassati dai suoi fratelli d’Italia proprio nel collegio dove operò da magistrato, circostanza in verità non del tutto opportuna, ma a lui concessa senza polemiche, vista la fama locale che la bella carriera gli ha concesso. Oltre a un ben temperato salvacondotto che si è guadagnato nel tempo per essere contemporaneamente di destra nella giurisprudenza che punisce e insieme garantista nei convegni di dottrina, dunque prudentemente equidistante tra gli eterni contendenti che in politica si annettono il premio elettorale di una giustizia forte con i deboli, cioè i poveracci, e debolissima con i forti, titolari del quieto vivere e delle carriere. E quindi astro nascente della Nazione securitaria di Giorgia Meloni. Nonché paladino della “difesa sempre legittima” che piace agli spaventati guerrieri di Matteo Salvini.
A riprova dell’indole s’è subito schierato con il più prepotente tra i senatori rinascimentali, Matteo Renzi, che tra un viaggio a gettone e l’altro, fa la guerra ai magistrati fiorentini che non solo osano indagare sulla fondazione Open che tiene finanziariamente viva la sua Italia Viva, ma hanno mandato gli atti di indagine al Copasir, il Comitato che si occupa dei Servizi segreti. Il sopruso, ha detto in aula il neo ministro, versione garantista, assecondando i lamenti renziani, “sarà oggetto di immediato e rigoroso, sottolineo rigoroso, accertamento conoscitivo”. Subito dopo, ha aggiunto, “questo dicastero procederà a una approfondita, e sottolineo approfondita, valutazione al fine di assumere le necessarie iniziative”. Minaccia perentoria, purtroppo sgonfiatasi in una sola notte, visto che le carte di indagine su Open sono state mandate al Copasir non per malvagità dei magistrati fiorentini, ma per legittima richiesta. Che peccato, e sottolineiamo peccato.
Già pregustava, il Nordio principe del diritto, la bella cronaca delle ispezioni ai suoi ex colleghi, i pubblici ministeri che a vasto raggio detesta forse per averli frequentati a lungo, anche se mai oltre il suo orario d’ufficio, le 17 in punto, ai quali oggi promette carriere separate da quella dei giudici, primo tassello della estesa riforma sempre auspicata dai berlusconiani di lungo corso – i Previti e i Dell’Utri, per esempio – indagati da una trentina d’anni, e dunque competenti per biografia.
Quella di Nordio inizia il 6 febbraio 1947, dentro allo scrigno di Treviso, città mirabilmente narrata nel film di Germi Signore e signori, labirinto di piccole e grandi ipocrisie cattolico-borghesi. Entra in magistratura nel 1977, anno di violenza politica, specie in Veneto. Si occupa di Brigate rosse. Smantella la colonna veneta: “Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte, ma ricordo che erano in gioco lo Stato e la democrazia”.
In quanto a difesa della democrazia, partecipa alla stagione di Mani Pulite, segnata in Veneto dalle parabole dei ministri Gianni De Michelis, socialista, e Carlo Bernini, democristiano, con tanto di arresti preventivi e intercettazioni quanto basta. Salvo pentirsi di quasi tutto. Dei colleghi milanesi di Mani Pulite “che indagano con finalità politiche”.
Degli arresti preventivi perché contraddicono “una giustizia che garantisca la presunzione di innocenza”. E delle intercettazioni “che sono uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica”. Per non dire della lunghezza delle indagini a strascico.
Tutte considerazioni che andavano di pari passo alle sue lunghe inchieste a strascico sulle cooperative rosse – anni 1993-98 – 278 indagati, compresi i due bersagli grossi, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, che fecero titolo sui giornali, ma niente arrosto nelle indagini. Fino a quando l’ufficio dell’Udienza preliminare gli chiese di spedire i fascicoli alla competente Procura di Roma. Ordinanza che lesse e dimenticò nei cassetti per andarsene a cena. Cena che in quel caso durò fino al 2004, quando saltò fuori il trascurabile misfatto, i due indagati immediatamente prescritti e poi risarciti con 9 mila euro a testa per “ingiustificato ritardo”, non dal pm Nordio, già diventato il castigamatti dei pm, ma dallo Stato.
Nelle vesti di procuratore aggiunto ha coordinato l’inchiesta sulle tangenti al Mose, le barriere architettoniche che fanno argine all’acqua alta di Venezia, 35 arresti preventivi, intercettazioni illimitate, un centinaio di indagati, tra i quali il sindaco Orsoni, pd, il consigliere politico di Giulio Tremonti, Marco Milanese, Forza Italia, e quel capolavoro di Giancarlo Galan, presidente della Regione Veneto, berlusconiano in purezza, ex Publitalia, che obbligato a restituire la villa dove abitava sui Colli Euganei, come acconto per i 15 milioni di maltolto, si portò via i sanitari e i caloriferi, smontati a martellate dai muri.
Nordio considera il suo punto di svolta quando nel 2000 convalidò l’arresto di un geometra che aveva appena caricato una prostituta moldava. E che si suicidò per la vergogna, appena scarcerato. “Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”. In particolare quella, del tutto arbitraria.
La sua intermittenza garantista gli consente oggi di auspicare la riduzione delle leggi che “sono troppo numerose”, spesso emotive, e insieme assecondare quella emotiva e nuovissima “anti rave”. In compenso promette di smantellare l’obbligatorietà dell’azione penale “diventata un intollerabile arbitrio”. Ripristinare l’immunità parlamentare, smontare la legge Severino sulla incandidabilità dei condannati, secretare le intercettazioni. Ci risiamo, dileguati i tempi grami delle mascherine, si torna a quelli vecchi del bavaglio, la stoffa del migliore garantismo per i giustizialisti.
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