Quando abbiamo perso lo zaino?
di MICHELE SERRA
Alligator Alcatraz è il titolo perfetto per un cartoon o per lo spettacolo di un comico. Suona ferocemente allegro.
Che Trump, o chi per lui, l’abbia scelto per nominare il nuovo luogo di reclusione per stranieri irregolari, circondato da paludi e alligatori (ci saranno anche le sabbie mobili, come nei filmetti di avventura della nostra infanzia?) è il classico segno dei tempi: ovvero di un tempo che sembra una specie di implacabile parodia di se stesso.
Cinicamente, potremmo dire che questa capacità di raffigurare l’umanità come un’accolita di feroci buffoni, o di buffoni feroci, è quasi una conquista. Leva di mezzo ogni residua illusione, trasforma in vecchio ciarpame l’idea, che ci pareva consolidata, che esista un limite al piacere della sopraffazione, e che un carcere possa essere — addirittura — un luogo di rieducazione e di ricostruzione civile. Chiosando Cetto Laqualunque: non solo “int’u culu la pace” e “int’u culu l’ambiente”, anche “int’u culu i carcerati”, e Diderot, e Beccaria, e la democrazia, e i diritti, e il rispetto, e la gentilezza, e la pena per i vinti, e tutte le altre menate con le quali ci siamo gingillati inutilmente da quando siamo usciti dalle caverne e, più attivamente, negli ultimi due secoli e mezzo.
Ed effettivamente: una parte dell’umanità è visibilmente lieta della fine di questa oppressione. Si viaggia più leggeri senza il pesante zaino della civilizzazione (con tutti quegli obblighi e quelle regole) sulle spalle.
Capita però che un altro pezzo di umanità si volti indietro chiedendosi dove diavolo ha perso lo zaino. E torni a cercarlo.
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