Sangue, mafia, servizi il cane sciolto della destra eversiva
di LIRIO ABBATE
Si muove nel buio, Paolo Bellini.
Sempre l’ombra prima del boato. Sempre un passo indietro, mai fuori campo. Un mimetismo di mestiere e destino. La sua vita è un itinerario di menzogne raffinate, doppie fedeltà, alleanze sporche. L’uomo dai mille travestimenti: neofascista, informatore, latitante, infiltrato, killer. La sua parabola è una linea spezzata che attraversa mezzo secolo di misteri italiani, dalla stazione di Bologna alle stragi di mafia del 1993.
Bellini, 72 anni, ex Avanguardia Nazionale, è stato condannato all’ergastolo per la strage del 2 agosto 1980, l’eccidio più sanguinoso della storia repubblicana. Il suo nome affiora tardi, in un’indagine riaperta dalla procura generale di Bologna.
Ma chi è davvero Paolo Bellini? Un cane sciolto della destra eversiva, ma al guinzaglio di molti padroni. Criminale spregiudicato, ha attraversato indenne l’universo torbido di terrorismo, mafia e servizi. C’era quando serviva un killer. C’era quando si trattava di depistare. C’era quando serviva un infiltrato in Cosa nostra. Negli anni Novanta, raccontano le carte della procura di Firenze, si insinuò nella strategia stragista della mafia corleonese. Fu lui, secondo Giovanni Brusca, a suggerire l’idea delle bombe contro il patrimonio artistico. Gli Uffizi, via dei Georgofili, Milano, Roma.
Bellini ha sempre raccontato un’altra storia. Dice d’aver agito per sdegno, dopo la strage di Capaci. Dice d’essersi infiltrato per patriottismo, per ordine di una fantomatica struttura segreta chiamata “gli amici di Piccoli”, dove sedevano - sostiene lui - Cossiga, Scalfaro, Ugo Sisti. Ma le procure non gli credono. Lo definiscono “inverosimile”. Tutto quel che dice è sfocato, manipolato. Forse è il suo mestiere: confondere, mischiare, sabotare la verità.
L’uomo che ha servito Avanguardia Nazionale negli anni Settanta, che ha confessato decine di omicidi, fra cui quello di Alceste Campanile “per creare tensione”, che ha trafficato in armi e quadri, che ha vissutosotto copertura tra le curve più pericolose della prima Repubblica. Attorno a lui aleggia ancora una protezione opaca, un vuoto di responsabilità. Un giudice di Firenze ha archiviato la sua posizione per le stragi del 1993 scrivendo che non vi sarebbero prove del suo legame con la destra eversiva. È come scrivere che Riina non era mafioso.
I contatti con i Servizi segreti militari, però, ci sono stati davvero. Nomi, telefonate, incontri. Il più noto con Giovanni Ciliberti, Sismi di Bologna. Rapporti mai chiariti, a tratti inquietanti. Come il biglietto con i nomi dei mafiosi da liberare, ricevuto da Antonino Gioè e consegnato ai carabinieri. Un pizzino che passa da Bellini e finisce nelle mani del generale Mario Mori. Nessuno lo sequestra. Nessuno lo denuncia. Nessuno indaga. Una moneta di scambio tra Stato e Cosa nostra. C’era il modo,sostiene l’accusa, di poter evitare alcune stragi del 1993. C’è sempre Bellini, insomma, dove la Repubblica mostra le sue crepe. Quando i Nar colpiscono, quando la P2 finanzia, quando le bombe strappano il tessuto democratico. E poi scompare. Latita, cambia nome, vive con documenti falsi. Racconta di aver aiutato lo Stato. Ma ha sempre aiutato solo sé stesso. È tornato a Bologna da imputato, trent’anni dopo i suoi camerati. I giudici l’hanno riconosciuto colpevole, per i suoi spostamenti, per l’alibi fasullo, per quel frame sgranato che lo inchioda tra i binari insanguinati. È tornato anche a Firenze e a Caltanissetta, nei fascicoli sulle stragi mafiose. Il suo nome torna, persistente, a incrostare gli angoli bui della nostra storia.
Eppure, resta un enigma. Un uomo che dice tutto e niente, che tradisce e si fa tradire, che collabora ma depista. L’ultimo dei manipolatori, il criminale che si fa intellettuale di sangue, l’attore protagonista di una tragedia che ha ucciso 85 persone e ne ha ferite 200 in un giorno d’agosto di 45 anni fa. Paolo Bellini è stato, ed è ancora, una scheggia impazzita di un paese mai completamente guarito dai suoi fantasmi. È il volto invecchiato di un’Italia che ha barattato giustizia con potere, segreti con sangue, verità con silenzi. E che oggi, con le intercettazioni e i processi, prova almeno a non dimenticare.
Criminale spregiudicato ha attraversato indenne e per decenni l’universo torbido tra terrorismo Cosa nostra e apparati.
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