Miliardi di sangue: dittatori col malloppo e vie di fuga dorate
Il destino si capovolge, il potere diventa bolla d’aria. Le teste, scolpite nel marmo, fuse nel bronzo, rotolano dai piedistalli nel rito collettivo delle folle esultanti
di Pino Corrias
Il macellaio siriano Bashar al-Assad in fuga a Mosca con il malloppo è solo l’ultimo scandalo, conficcato nella tetra tradizione dei tiranni in fuga. Perché al netto di tutte le atrocità compiute – i mattatoi, le carceri, le fosse comuni, gli esiliati, gli affamati, i torturati, gli scomparsi – i re e i dittatori, nel momento supremo della fuga diventano quello che sono, dei ladri sorpresi con la refurtiva. Dei vigliacchi che corrono lontano dai palazzi con le mogli complici, qualche volte le amanti, le tasche piene di soldi e se potessero anche con la bocca spalancata a inghiottire l’ultimo oro, gli ultimi diamanti, per riempirsi lo stomaco e il cuore e l’anima, imprigionati per una volta anche loro dentro l’identico terrore che per megalomania, narcisismo maligno, crudeltà, si sono divertiti a infliggere ai rispettivi popoli perseguitati.
Non contano più le ideologie, la religione, i libretti rossi o verdi, le parole d’ordine nazionaliste che hanno segnato la loro ascesa nel sangue. Quando la Storia sbanda, si capovolge, evolve, il loro potere diventa una bolla d’aria. Le loro teste, scolpite nel marmo, fuse nel bronzo, rotolano dai piedistalli in quel rito collettivo e sempre identico delle folle che esultano. Lo abbiamo visto nelle piazze di Teheran, Baghdad, Tripoli, Mogadiscio, prima che a Damasco. Un rito in definitiva magico. Nutrito insieme di furore e ingenuità perché pretende di cancellare il passato, strappandone una effige e di rifondare il futuro issandolo su quel piedistallo finalmente vuoto, quasi mai sospettando la frustrazione futura.
Tiranni con i rispettivi monumenti edificati e distrutti si alternano lungo tutto il Novecento, segnato dalle rivoluzioni, dalle guerre mondiali, dall’assalto occidentale alle foreste, alle miniere e alla manodopera dell’Africa fino ai giacimenti di petrolio nascosti nei deserti del Medio Oriente e del mondo arabo.
Il secondo dopoguerra cancella i tesori delle case reali di Belgrado, Bucarest, Sofia. Nascono gli imperi americano e sovietico che si scontrano prima in Corea, poi in Indocina. Poi in tutto il resto del mondo. I sovietici riempiono le loro piazze con le statue di Lenin e di Stalin, oltre a stendere il filo spinato intorno alla vita quotidiana dei loro popoli. Gli americani, istruiti dalla dottrina Kissinger, riempiono il Sud America di altrettanti uomini di marmo, per lo più generali, in Brasile, Paraguay, Bolivia, Nicaragua, Cile, Argentina. Gran parte di loro fuggiranno con le casse e gli aerei pieni di lingotti d’oro o i conti miliardari sepolti nelle banche off-shore, Pinochet a Londra, la famiglia Somoza a Miami, Fujimori in Giappone, Stroessner in Brasile.
Fino a quando, nell’Europa della Guerra Fredda, è stato il Muro di Berlino a crollare e a trascinare con sé altri marmi ridotti in polvere, con dittatori al seguito. Tra i primi quello del presidente della Romania Nicolae Ceausescu, detto “il genio dei Carpazi”. Le immagini dei rubinetti d’oro del suo castello hanno fatto il giro del mondo, emblema delle immense ricchezze che aveva accumulato in un paese ridotto alla fame. Lo fucilano la notte di Natale del 1989, portato davanti al plotone d’esecuzione mentre canta l’Internazionale e accanto a lui la moglie Elèna grida “Fottiti!” al soldato che la guarda ridendo.
La parabola di Assad non si discosta dalla comune vergogna dei tiranni, volato via da Damasco, destinazione Mosca, con le casse piene di lingotti e dollari estratti direttamente dal sangue dei siriani. Oltre al bottino messo via nel mezzo secolo di regno e di terrore ereditati dal padre che fu peggiore tagliagola di lui, un patrimonio stimato in 34 miliardi di dollari tra investimenti immobiliari, traffici di droga captagon, armi, finanziarie schermate, banche svizzere.
In altrettanti miliardi è contabilizzato il bottino di Ben Alì, il rais tunisino che nell’anno 2011 si lasciò alle spalle i fuochi libertari della Primavera per nascondersi nella sua villa in Arabia Saudita, portando con sé una tonnellata e mezzo in lingotti d’oro, più i tesori immobiliari accumulati da società anonime domiciliate in Qatar, Emirati, Argentina, Isole Vergini, Cayman.
Qualche volta la morte arriva prima del bottino. È capitato a Saddam Hussein, dopo una fuga durata sei mesi, catturato dagli americani dentro a un buco scavato sottoterra, dalle parti di Tikrit, il suo villaggio natale, processato da un tribunale speciale iracheno, impiccato alla fine dell’anno 2006. Destino più veloce e più crudele toccò a Gheddafi, in fuga da Tripoli dopo i bombardamenti occidentali e la rivolta delle milizie. Catturato e linciato il 20 ottobre 2011, in un canale di scolo, dove si nascondeva alle porte della città di Sirte. Mai contabilizzato il tesoro che aveva nascosto in giro per i forzieri del mondo nei quarant’anni di dittatura: migliaia di milioni di dollari, sicuramente, oltre ai 14 miliardi di euro depositati nelle banche del Belgio.
L’intera Africa è una sequenza di dittatori in fuga con il malloppo, al diavolo i rispettivi popoli condannati a guerre e guerriglie permanenti. Da Amin Dada al leggendario Bokassa, imperatore centroafricano, tutti riparati nei paesi arabi o in Svizzera, con sequenze di Rolls-Royce e Lamborghini al seguito e mogli cariche di gioielli e figli prepotenti allevati dentro a illimitati palazzi.
E noi? Non abbiamo sfigurato in questa gara della vergogna. Il nostro re Sciaboletta, Vittorio Emanuele III, il 9 settembre del ’43, se ne scappò verso Pescara con 5 automobili al seguito così piene di argenteria da abbandonare alla vendetta dei tedeschi non solo il popolo e l’esercito italiano, ma finanche i camerieri. E due anni dopo, il suo degno compare, Benito Mussolini, fu catturato tremebondo, travestito da soldato tedesco con le tasche piene di sterline inglesi e i sacchi di iuta gonfi d’oro. Un ladro senza onore che i furori della guerra si incaricarono di giustiziare all’alba del 28 aprile 1945 insieme con Claretta Petacci, e poi di esibire a Milano, in piazzale Loreto, nello stesso punto in cui, dieci mesi prima, le sue bande di fascisti avevano fucilato per rappresaglia 15 milanesi, i loro corpi lasciati sull’asfalto, presi a calci e sputi. Rito che si sarebbe ripetuto davanti alla folla di Milano liberata, accanto a quella identica macchia di sangue versato, che più dell’oro è lo scandalo dei dittatori, la loro radice, qualche volta il loro destino.
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