martedì 15 ottobre 2024

Nel 2024

 


Il reportage
Sbarre alle finestre droni e poliziotti nel centro che aspetta l’arrivo degli esiliati
Pavimenti verdi “per rilassare”. Una sala con gli schermi per i processi da remoto

di Davide Carlucci 

GJADER (ALBANIA) — Qualche quadrato di cielo potranno vederlo, dalle sbarre, i primi migranti esiliati all’estero dallo Stato italiano. E anche piccole porzioni delle colline verdi di pini e macchia mediterranea che sovrastano Gjader, il villaggio contadino albanese dove ora sorge il primo centro di trattenimento in terra straniera nella storia della nostra Repubblica.
Nelle celle ci finiranno se commetteranno reati nel bunker costruito sulle ceneri dell’ex aeroporto militare del regime comunista, riabilitato dall’accordo di novembre fra Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama. Ci andranno se, per esempio, reagiranno con rabbia al verdetto della commissione che dirà che no, loro non potranno godere della protezione internazionale. Se invece accetteranno rassegnati il loro destino di respinti, dovranno aspettare in altre celle, uguali a quelle penitenziarie, in attesa che le autorità del loro Paese accettino di riprenderseli.

Se così non sarà, passeranno mesi dentro stanze spoglie, i tavolini in ferro per il pranzo piantati sul cemento, metallici come i lavabo e i water, il cinguettio degli uccelli fuori. Sperando di tornare nell’agognata Italia, la meta dalla quale sono stati dirottati, con un decreto di espulsione da provare a violare, ultima carta da giocarsi. Di certo, non resteranno in Albania, assicurano i poliziotti e i funzionari dell’ambasciata italiana, che ieri hanno aperto le porte dei due centri di accoglienza e rimpatrio dove si sta sperimentando l’ultima frontiera nella gestione dei flussi migratori.

La prima nave è prevista domani mattina. È la Libra, pattugliatore della marina militare. I primi sedici “maschi adulti” che dovranno far da cavia per testare il nuovo sistema di trasferimento migratorio dal Mediterraneo centrale all’Adriatico, erano in un’imbarcazione al largo di Lampedusa. Il primo piede sulla terraferma lo metteranno sulla banchina del porto di Shengjin, dunque in territorio albanese. Ma saranno solo pochi passi, e sarà uno dei rari momenti nei quali, in caso di disordini, la polizia del posto interverrà, per competenza, sul suo territorio. Subito dopo si apriranno le grigie porte metalliche del centro di accoglienza costruito nel sedime portuale. Qui troveranno un piazzalepavimentato con un verde tenue, perché, spiega chi organizza l’accoglienza, «è un colore che rilassa». Quindi saranno accolti in una sala d’attesa e rifocillati.

Gli operatori della cooperativa Medihospice, che ha vinto la gara d’appalto da 134 milioni di euro per la gestione dei centri, consegneranno loro scarpe, tute e altri indumenti più degni degli stracci che indossano, consumati dalla salsedine e dal sudore della traversata.
Nelle retrovie di questa inedita prova di efficienza italica in terra straniera, tra le mimetiche dei militari dell’esercito e le divise di polizia e carabinieri, si affaccendano le signore delle pulizie. La missione da 800 milioni di euro per la qualela presidente del Consiglio si gioca tutto il suo prestigio internazionale, il modello che vorrebbe esportare in Europa, coinvolge per ora centocinquanta tra agenti, carabinieri e soldati, coordinati dall’ambasciata a Tirana e da un dirigente della polizia di Stato, Massimo Scannicchio, incaricato di attuare il protocollo di collaborazione Italia-Albania «in materia migratoria».
Nei locali ora tutto è lindo, ancora incellofanati i lettini e i paraventi del secondo ambulatorio, dove staranno, isolati, i ragazzi con la scabbia o altre malattie infettive. Se qualcuno di loro avrà seri problemi di salute, sarà trasferito in un ospedale nella vicina Lezhe — Alessio è il nome italiano — o a Tirana.

Con l’aeroporto della capitale si sta anche trattando per i voli di rimpatrio, i primi potrebbero essere necessari già fra un paio di mesi. Ma non si esclude anche il viaggio in nave, ad esempio una traversata diretta dal porto di Valona o di Durazzo, senza disturbare le autorità portuali pugliesi. Sempre che quei governi rivogliano indietro chi è fuggito da loro ed è rimasto invischiato nella trappola ordita da Meloni.
Ma se nel primo centro, quello da cui si guarda il mare, tutto è organizzato per le procedure di rito — preidentificazione, raccolta delle impronte, fotosegnalazione, distribuzione dei moduli per le richieste di asilo — è nella blindata fortezza su in collina, dopo lunghi viali cadenzati da inferriate e recinzioni, nel silenzio collinare rotto dal ronzio dei droni, che si palesa la vera novità di questa magnifica operazione di esternalizzazione della sicurezza.
È in fondo, nell’ultimo edificio, uguale, da fuori, a qualsiasi casa circondariale. Sui muri i poster della polizia penitenziaria, le agenti sorridono orgogliose con i loro baschi blu. Nell’infermeria — sistemazione temporanea — è pronto, in posa per i media, un medico albanese con le sue assistenti. Infine, eccole, le celle, squadrate e tristi. Dove chi verrà trattenuto o arrestato potrà sperare nel diritto di uno Stato che è altrove. Una giustizia da remoto fatta di sale destinate ai colloqui con avvocati lontani, televisori appesi con i quali collegarsi con la procura di Roma per essere processati. E assolti o condannati. Senza aver messo mai piede nella terra promessa.

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