martedì 26 marzo 2024

L'Amaca

 

Le parole povere di un capo
DI MICHELE SERRA
Le interviste a Trump, i discorsi di Trump, i tweet di Trump, insomma le parole di Trump, fanno sempre una certa paura.
Non perché è di destra (ma è “di destra”, poi, quella tronfia vacuità? O è qualcosa che arriva “dopo”, dopo tutte le categorie fino a qui conosciute?), ma perché è stato presidente degli Stati Uniti e potrebbe ridiventarlo; e siamo abituati a pensare, da generazioni, che un capo, qualunque siano le sue idee, sia tenuto a una postura e a un linguaggio non al di sotto della media.
Se leggete la recente intervista di Trump su Israele e Gaza, la rudezza dei concetti e al tempo stesso la loro banalità, da chiacchiera mentre si fa la coda a un fast-food («gli ebrei democratici odiano Israele», «a Gaza Israele deve finire il lavoro») vi sembreranno indegni di un leader così importante; e vi sembreranno tali perché lo sono, perché quell’uso basico e presuntuoso delle parole non appartiene ad alcuna delle tradizioni politiche del passato.
Sono “nuove”, nel senso che non esprimono, nemmeno nelle virgole, qualcosa che riveli una riflessione, un pensiero, un’elaborazione dei dati. Al massimo contengono degli istinti, delle simpatie e delle antipatie. Dei giudizi sommari, degli insulti, delle minacce. Un ragionamento, mai. Nemmeno per sbaglio.
Molte cose sono migliorate, nei decenni. Non mi considero un nostalgico. Ma l’idea che pezzi importanti della classe dirigente si sentano esentati dalla cultura, dallo studio dei problemi, dalla riflessione, è un peggioramento secco. Che sia avvenuto per via dei social, o del populismo, o per un collasso culturale collettivo, è oggetto di dibattito.
L’unico dato certo è che quando parla Trump si ha l’impressione che almeno un paio di gradini, nella scala della civilizzazione, li abbiamo scesi.

Nessun commento:

Posta un commento