Intervista a Valter Lavitola
“Sì, ero un bandito Incastrai Fini sul caso Montecarlo ma sono pentito”
DI STEFANO CAPPELLINI
Valter Lavitola è stato: politico, imprenditore, affarista, editore, imputato, detenuto. Oggi fa il ristoratore. Ha un ristorante di pesce nel quartiere romano di Monteverde («La decisione di aprirlo l’ho presa in carcere, dove i compagni di cella cucinavano strepitosi timballi sul fornelletto», racconta aRepubblica ).
Lavitola – classe 1966, salernitano, entrato ragazzino nel Partito socialista e passato come tanti socialisti al berlusconismo – è stato qualche anno fa un uomo di notevole potere. L’ha usato con estrema spregiudicatezza, e lo ammette: «Dicevano di me che ero un bandito.
Era vero». Il nome di Lavitola è rimbalzato di nuovo nel dibattito pubblico perché fu lui a trovare a Saint Lucia i documenti che dimostrarono che la casa di Montecarlo lasciata in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Colleoni era finita nelle mani di Giancarlo Tulliani, cognato di Gianfranco Fini. All’epoca Fini, presidente della Camera, era in guerra con Silvio Berlusconi per il controllo del Pdl e sull’appartamento monegasco infuriò la battaglia principale, giocata con ogni mezzo.
Un intrigo internazionale fatto di spioni, faccendieri, presidenti caraibici, doppiogiochisti. Una storia che, dice Lavitola, ora potrebbe diventare un film («un bravo regista ci sta lavorando»). Incuriositi da un video pubblicato online su Teledurruti in cui esprime pentimento per il suo ruolo nella vicenda, siamo andati a incontrarlo nel suo ristorante, Cefalù.
Lavitola, da dove cominciamo?
«Io fin da bambino avevo il sogno di fare il parlamentare».
Forse siamo andati troppo indietro.
«No, no, c’entra. All’epoca ero molto arrabbiato perché non ci riuscivo».
E se la prese con Fini?
«No, anche perché a non volermi parlamentare erano Ghedini e Letta».
Avevano torto?
«Con il senno di poi, no. C’era anche Ghedini il giorno in cui a Palazzo Grazioli ci fu una riunione per decidere cosa fare su Montecarlo.
Erano usciti sul Giornale gli articoli firmati da Chiocci, oggi direttore del Tg1, che aveva saputo della casa da una sua fonte, quasi per caso. In quella riunione Berlusconi disse: o troviamo prove certe, o dobbiamo fermare gli attacchi».
C’era un guerra tra lui e Fini.
«Non l’aveva cominciata Berlusconi.
La verità è che Fini era un leader, non sopportava di essere un delfino. E Berlusconi, comunque, non sopportava i delfini. Cominciarono l’uno a guardare nel buco della serratura dell’altro».
Torniamo alla riunione.
«Si sapeva che dietro l’acquisto della casa c’era una società costituita nel paradiso fiscale di Saint Lucia. Io dicoche ai Caraibi ho una conoscenza importante».
Chi era?
«Un agente dell’MI6, il servizio segreto britannico, che faceva il capocentro ai Caraibi. L’avevo conosciuto in una vacanza».
Un’amicizia non ordinaria.
«Sono sempre stato affascinato dall’intelligence, come Craxi. Così, parto in missione. Contatto il mio amico e lui mi dice: guarda che non ti posso aiutare, a Saint Lucia vivono di segreto bancario. Ma io non mi rassegno. Ottengo in modo illecito centinaia di mail e comincio a spulciarle. Spunta una mail dell’agente residente a Montecarlo che tratta la vendita della casa e dice all’agente di Saint Lucia: il mio cliente è il cognato di un politico importante. Non basta. Allora parlo col presidente di Saint Lucia e lo convinco a chiedere un’informativa sulla vicenda al ministro della Giustizia».
E come ci riuscì?
«Non fu difficile. Della casa di Montecarlo in quei giorni scrivevano i giornali di tutto il mondo. Gli dissi che Saint Lucia rischiava di andare in cima agli Stati canaglia».
Difficile credere che bastò.
«Glielo giuro, si convinsero che avrebbero rischiato un crollo dell’immagine. Il presidente chiese l’informativa al ministro e io riuscii a metterci le mani sopra. C’era tutto nero su bianco. L’acquirente della casa era Tulliani. Chiamo subito Berlusconi. È in riunione. Insisto. Me lo passano e io: mi dica che sono un genio. Lui: no. E io: mi dica che sono un genio. Capì».
Cosa ottenne per il servizio?
«Nulla, la prova del mio potere e delle relazioni. Speravo ancora di fare il parlamentare. Tornato a Roma, il ministro della Giustizia annunciò una conferenza stampa. E io nel giro di poche ore tornai a Saint Lucia».
Dove il suo arrivo fu immortalato dalle telecamere diAnnozero , il programma di Michele Santoro.
«Un colpo di Corrado Formigli, fu fortunato. Il pilota aveva sbagliato aeroporto, dovevo atterrare nell’altro scalo dell’isola. Ma lo ammetto, fece un servizio strepitoso. Fu sempre nella trasmissione di Santoro che Italo Bocchino, all’epoca finiano di ferro, rivelò che c’ero io dietro la storia della casa» .
Da chi l’aveva saputo?
«Da Sergio De Gregorio, il deputato eletto con Di Pietro nella legislatura precedente, passato con il centrodestra e poi organizzatore con me della compravendita dei parlamentari per far cadere Prodi».
Uno dei punti più bassi della storia parlamentare.
«Non me ne vanto. Ho subito una condanna in primo grado, poi il reato è stato prescritto. De Gregorio era un mio vecchio amico, gli avevo chiesto consiglio perché non sapevo se pubblicare le carte sul mio giornale,L’Avanti! ,o farle uscire su altri giornali. Lui disse tutto ai finiani».
E gli italiani conobbero Lavitola.
«Ero già stato convocato in via riservata anche al Quirinale da Giorgio Napolitano. Non era contento degli attacchi al presidente della Camera. Non fu un colloquio tranquillo».
In conferenza stampa a Saint Lucia fece uno show, sventolando la mail che parlava di Tulliani.
«Mi ero preparato bene la scena, la videro in tutto il mondo».
Operazione chiusa. Fini ko.
«Non lo rifarei. La ragione principale per cui ne sto parlando con lei è che mi pesa aver innescato una vicenda che può portare a una condanna ingiusta. Sono certo che all’inizio Fini non sapeva che la casa fosse stata acquistata dal cognato con i soldi di Corallo, l’imprenditore delle slot. Fu Corallo a organizzare la cosa da Saint Lucia, dove aveva due casinò, insieme ai Tulliani e ad altri intorno a Fini, che ha saputo solo dopo».
Non sarebbe meno grave.
«Politicamente no, penalmente sì».
Lei com’era arrivato a essere così vicino a Berlusconi?
«Un rapporto cresciuto nel tempo, fece un salto quando al congresso del Nuovo Psi ebbi un ruolo nel portare un pezzo del partito a destra. Un altro disastro. Fu lui, di fatto, a mettermi in mano L’Avanti! »
Il giornale storico dei socialisti nella destra insieme ai postfascisti.
«Se è per questo, anche Berlusconi li chiamava sempre così: i fascisti».
Ha fatto molte cose di cui oggi dice di vergognarsi. Perché?
«La verità? Vanità e smania di protagonismo. Per un periodo ho sofferto di delirio di onnipotenza».
Felice della sua nuova vita?
«Avrei voluto aprire una catena di risto-pescherie nelle principali capitali del mondo. Anche per Silvio era una buona idea. Ma va bene così».
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