domenica 17 settembre 2023

Invito a leggerlo

 


Ci vuole un po' di tempo lo so. Ma questo Longform di Repubblica merita di essere letto. Contiene infatti un probabile inizio della mistificazione della Costituzione; l'alba degli orchi, del sistema ancora in voga da questo e parti, prediligente il lucro e la ragione di parte agli interessi della collettività. 
Oramai non ci stupiamo più di nulla. Forse però leggere di cò che accadde sessant'anni fa, provoca ancora voltastomaco e rabbia. Tanta rabbia. 
 
Vajont

L’ultimo tradimento

DI GIAMPAOLO VISETTI

«Pronto, sono la Tina». È il 9 ottobre 1963, le due di notte. Nella redazione milanese dell’ Unità il grafico Franco Malaguti sta giocando a briscola con i tipografi. Un singhiozzo disperato invade il telefono. «Tina chi?» – chiede Malaguti. Dalla cornetta, alzata dentro una cabina a Ponte nelle Alpi, nel Bellunese, sale solo un rantolo irrefrenabile. «Sono Tina Merlin: non c’è più niente, non c’è più nessuno».

Sessanta anni dopo, la verità tracimata alle 22.39 dalla diga del Vajont resta questa. Vittime fisiche 1.910. Conclusione ufficiale: «Colpa di una frana». Stop. Per questo ancora oggi tra Erto, Casso, Codissago, Castellavazzo, Longarone e le loro frazioni «non c’è più niente, non c’è più nessuno». Dal Vajont, tantomeno se risparmiato e se obbligato ad andare avanti dalla speranza della cosiddetta ricostruzione, nessuno umanamente si è salvato. Nessuno qui oggi si definisce «vivo». A scolpire invece subito e per sempre l’epitaffio «nella pelle viva » di un Paese che ha dimenticato la più grande strage industriale della sua storia, nel diluvio universale di un mercoledì notte illuminato dalle stelle, è la solitaria donna-gigante che dal primo istante, contro la nostra stessa volontà, ha ancorato l’Italia a una superiore dignità: Tina Merlin, ex partigiana, giornalista, montanara, figlia di contadini. L’unica ad aver capito prima, ad aver denunciato invano e ad aver trovato infine le prove che anche per la giustizia dei tribunali hanno chiarito le ragioni tuttora inconfessate di quello che lei, con biblica semplicità, ha chiamato con il suo nome: «olocausto» di Stato.

Dopo sei decenni, diventati vecchi ai piedi dell’immenso scudo di cemento che ha portato a compimento il loro sacrificio, coloro che i burocrati dei disastri hanno diviso tra sopravvissuti e superstiti, scoprono di essere costretti ad evolvere nel profilo se possibile più vergognoso dei traditi. Il primo a spiegare perché è Giuseppe Vazza, 90 anni, ex macellaio di Codissago. Nel fango ha perso 14 famigliari, tra cui la mamma. «Eravamo certi – dice – che un tale genocidio di povera gente, attuato per interessi economici, avrebbe impegnato le istituzioni a impedirne una insopportabile ripetizione. Il giuramento dello Stato era stato immediato, pubblico, ripetuto e solenne: invece i Vajont in Italia non finiscono mai, al punto da trasformare la cronicità dei disastri in un osceno presidio essenziale del potere. Sono passati sessant’anni, è il tempo finale dei bilanci: noi siamo stati solo le prime vittime. Le altre, sono tutti gli italiani: quotidianamente esposti ai Vajont che saziano l’opaco intreccio tra politica, economia, scienza e burocrazia, la complice spina dorsale di una nazione silenziosamente educata a ignorare, attraverso il cinismo dell’oblio camuffato da memoria, la sua Costituzione». Non uno, tra chi quella notte c’era, accetta oggi di tacere il tradimento civile del Vajont. Tutti chiedono, mostrando le foto seppiate di chi non è riemerso dal tuono scatenato dal crollo del monte Toc, di non stancarsi di raccontare la tragedia più documentata, falsificata e ignorata del nostro post- bellico boom economico: democratico, ma preparato dal regime fascista. «Abbiamo novant’anni – dice Vazza nella casa che ha ricostruito sopra la melma che ha inghiottito la sua famiglia – potremmo non riuscire più a essere i testimoni viventi del prossimo decennale. I giovani solo a noi, prima sopravvissuti e poi traditi, sanno di poter credere».

Il 9 ottobre 1963 l’allarme di Tina Merlin, assolta dall’accusa di «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico», si rivela realtà. Ingegneri, tecnici e vertici della veneziana Sade, lo “Stato nello Stato” chiamato Società Adriatica di Elettricità, con la nazionalizzazione passata all’Enel pochi mesi prima della strage, tacitamente lo prevedono e di nascosto lo simulano da due anni in un laboratorio a Nove. Alle 22.39 la frana, visibile a tutti e in movimento da tre anni, si stacca dal Toc. La montagna scivola in blocco nel bacino artificiale creato per il sistema idroelettrico del “Grande Vajont”: un muro di 261,60 metri, all’epoca la diga a doppia curvatura più alta del mondo. Nel lago non si accumulano, lentamente, gli ipotizzati e contenibili 30 milioni di metri cubi di argilla. Nel giro di 19-25 secondi, a una velocità media di 90 chilometri all’ora, precipitano 263 milioni di roccia. Il fronte, tra quota 1.200 e 1.400 metri, piomba nel bacino a quota 710 metri e solleva un’onda alta tra 260 e 270 metri. Tecnici e consulenti Sade, per mantenere alto il valore delle azioni della società prossima alla nazionalizzazione, in caso di frana avevano pubblicamente prospettato un’onda «non più alta di 25 metri», contenuta dal coronamento della diga, a quota 725 metri. «In pochi istanti – ricorda Giovanni De Lorenzi, 70 anni, ex sindaco di Erto e Casso, per quasi vent’anni presidente della Fondazione Vajont – l’onda si divide in due. Una parte risale il versante opposto, fino a spazzare via Erto. L’altra distrugge Casso. Il mare di fango scavalca la diga e, lasciato il Friuli, si infila nella gola scavata per millenni dal torrente Vajont, diretta su Longarone e verso il fiume Piave, in Veneto». Tra Erto e Longarone, in linea d’aria, ci sono 1,6 chilometri. Per coprirli il fango impiega 4 minuti. Alle 22.43 l’onda, alta 70 metri, ingoia Longarone e le frazioni di Vajont, Villanova, Pirago, e Rivalta, Castellavazzo e parte delle frazioni di Faè e Codissago.

L’energia sprigionata dall’apocalittico schianto dell’acqua e dallo spostamento d’aria, registrati come un terremoto, è pari al doppio di quella prodotta dalla bomba atomica a Hiroshima. Il bilancio delle vittime fisiche arriva a 1.910: 817 di queste non vengono più trovate, o identificate. I minori di 15 anni uccisi sono 487. Solo 146 i feriti, tra cui 51 gravi: non si salva chi si imbatte nella fine del mondo. Sandro Canestrini è allora avvocato nel collegio di difesa della parte civile. Sei anni dopo lo Stato, imputato e allo stesso tempo costituito quale parte lesa, riesce a far trasferire il processo da Belluno a l’Aquila «per legittima suspicione». Sopravvissuti e superstiti, per testimoniare alle udienze, sono condannati a raggiungere l’Abruzzo dopo un viaggio di oltre 800 chilometri. Canestrini, in aula, chiarisce così le ragioni della strage. «Fatto forse unico nella storia delle grandi catastrofi – dice – il fenomeno si preannuncia con largo anticipo e con segni di impressionante significato. Non solo, si svolge addirittura sotto la luce dei grandi proiettori elettrici che consentivano il costante controllo della sua evoluzione. Per non ritardare l’ammortamento del capitale, perdere parte del contributo statale, ridurre di molto il profitto sperato, si fa prevalere la logica del profitto sull’interesse pubblico: in connivenza con gli organi pubblici che abdicano al loro diritto-dovere di Stato di controllare, abbandonando in balìa del concessionario le sorti delle popolazioni direttamente minacciate dall’incombente pericolo”.

Il silenzio di Anna e i capelli bianchi di Dino

La sua conclusione è chiara: «Occorre che questo processo — dice — divenga uno degli strumenti di mobilitazione per imporre nelle coscienze e nelle forze un cambiamento radicale della struttura e della direzione del Paese. Deve essere un impegno di lotta perché questa struttura può generare nel suo grembo nuovi Vajont. Giustizia completa potrà esserci soltanto nel momento in cui, chi governa, anteporrà davvero gli interessi della collettività a quelli della logica dei profitti e dei sovraprofitti privati». Non è successo. «L’Italia — denunciano oggi in coro i traditi del Vajont — da sessant’anni avanza in bilico tra una strage e l’altra. Non catastrofi naturali, ma tragedie preparate da una collaudata complicità tra persone, imprese e istituzioni, facilmente individuabili. Pensiamo al crollo del ponte Morandi, alla Romagna consegnata a frane e allagamenti, ai cosiddetti incidenti ferroviari, alle ricostruzioni mancate dopo terremoti e cataclismi, ai migranti lasciati affogare davanti alle nostre coste, a sorgenti e fiumi avvelenati dagli scarichi industriali, agli abusi edilizi che condannano interi paesi ad essere spazzati via da piene e slavine, come successo a Stava. Queste contemporanee stragi di povera gente sono un quotidiano schiaffo anche contro di noi: contro chi muore invano».

Tra chi si definisce «umiliata dai sistematici schiaffi di Stato» c’è anche Anna D’Incà. Il 9 ottobre 1963 era una bambina di 8 anni e viveva a Codissago. Per sessant’anni, assieme a 24 amiche risparmiate dal tuono, non è riuscita a «tirare fuori il sasso nella pancia, che ci ha schiacciato tutta la vita». Mai una parola, con nessuno. L’ha fatto adesso. Per Natale uscirà il libro

La paura e la speranza, le bambine del Vajont si raccontano .

«Sono — dice nella casa rimasta a valle della diga — le nostre storie di quella notte. Ci eravamo fidati dei politici e dei tecnici: giuravano che non sarebbe successo niente di grave, ripetevano che non dovevamo preoccuparci. Poche ore prima del disastro il magistrato delle acque di Venezia ci mandò a dire che se avevamo paura di un po’ d’acqua potevamo aprire l’ombrello. Siamo le ultime testimoni dirette della spietatezza pubblica negata fino all’ultimo istante con la volgarità. Da allora nulla è cambiato. Per questo noi usciamo dal silenzio e dall’indotto senso di vergogna per essere ancora qui: prima che sia troppo tardi cominciamo a parlare in prima persona». Ricorda Donata Del Vesco, 68 anni, salvata a Vila de Sot: «Ero a letto — dice — e ho sentito la voce spaventosa della mamma. Implorava me e mio fratello di svegliarci perché se dovevamo morire era meglio che restassimo tutti insieme». Anche Loretta Losso viveva a Codissago e aveva 13 anni. «La sera era serena — dice — ma all’improvviso si è sentito un vento impetuoso e un forte rumore, come di un grande temporale. Tremavo dalla paura e pensavo: come sarà morire? I vicini di casa non sono stati inghiottiti perché fuggiti di casa, allertati dal loro canarino. Al figlio di Roldo però, per lo shock, in poche ore sono venuti i capelli bianchi: Dino si è risvegliato già vecchio, allora aveva 7 anni». Ancora oggi il blocco locale e nazionale costruito dai poteri politici ed economici, decisi a tenere teso il velo oscuro steso sui dossier energia, acqua, dighe, mobilità e consumo del territorio, è qui mobilitato per presentare i ricordi individuali del Vajont come superati, compiuti, non più capaci di costruire una sincera memoria universale. Ogni giorno che passa la lotta contro oblio, mistificazioni e indifferenza, combattuta da sopravvissuti, superstiti e soccorritori ancora in vita, si rivela più ignorata da chi considera i Vajont «sacrifici necessari per lo sviluppo». Anche l’informazione, impossibile tacerlo, è stata e resta complice di questa strage. Prima il silenzio, dopo la falsificazione. Indimenticabile la sentenza di un grande giornale: “Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d’amore di Dio”. Il muro del massacro tradito, più alto e più resistente della diga alzata contro il monte Toc, ha cominciato a crollare solo dopo trent’anni.

Il monologo di Marco Paolini

L’eredità di Tina Merlin nel 1993 è stata raccolta dall’autore e attore Marco Paolini. Con il regista Gabriele Vacis ha portato nei teatri l’impressionante monologo Il racconto del Vajont . Per la maggioranza degli italiani, dopo un trentennio di silenzio, si è rivelato il primo contatto con la conoscenza. «Sembra incredibile — dice Paolini — ma è stato infine delegato all’arte il dovere dello Stato di rendere giustizia alle diverse vittime di un disastro costruito per interessi industriali e finanziari. Tre decenni fa bisognava concentrarsi sulle colpe, oggi è necessario fissare l’attenzione su origine e genesi degli errori, che non smettono di moltiplicarsi. Dobbiamo riflettere sul rapporto tra scienza, tecnica e potere. Il rischio è non trovare l’uscita del labirinto della presentabilità disegnato da politici, affaristi e consulenti: il mio monologo sulla conoscenza del passato deve trasformarsi in un coro sulla resistenza del futuro». Per questo la sera del prossimo 9 ottobre, per il 60° anniversario, oltre cento teatri del Paese metteranno in scena contemporaneamente il nuovo racconto del Vajont di Paolini. Sponsor e reti televisive hanno declinato l’invito a investire per trasmettere l’aggiornata l’orazione civile che nel 1998, sulla Rai, è stata seguita da milioni di cittadini. Paolini così ha scelto di donare per una sera i diritti della sua opera silenziata. Unica possibilità di restare testimone: come Tina Merlin, donna, isolata ed emarginata dal “grande giornalismo”, che 40 anni fa si è vista chiudere le porte delle case editrici che contano, costretta a pubblicare il capolavoro Sulla pelle viva grazie a un piccolo stampatore milanese. «Raccontare la verità sul Vajont — dice l’attore — fa ancora paura perché l’impegno dello Stato alla trasparenza, e a impedire il ripetersi di crimini analoghi, non risulta onorato». Lo snodo cruciale testimoniato oggi da chi abita tra Erto e Longarone resta così «la pazienza di non smettere di voler sapere per sottrarsi alla liquidazione interessata delle sintesi, riscritte per avvallare la tesi secondo cui non c’è alternativa all’attuale modello di sviluppo».Solo una simile attenzione spiega la profondità del termine «olocausto» scelto da Tina Merlin, o la definizione «genocidio di poveri», usato da Sandro Canestrini. Per «costruire una catastrofe», lo «Stato nello Stato» ha impiegato 63 anni: il tempo esatto che separa l’inizio del 1900 dalla data del collasso di un meccanismo politico-economico mai abbandonato.

A fare ordine nelle date è oggi lo scrittore e giornalista Toni Sirena, figlio di Tina Merlin. Con la madre concentrata sui suoi servizi di cronaca, dalla fine degli anni Cinquanta, saliva fin da bambino nella valle che conduce a Erto e Casso. «Il prima e il dopo frana — dice Sirena — sotto il profilo sociale sono se possibile ancora più importanti e più crudeli del disastro in sé. Se ci si limita alla notte della strage, anche il richiamo alla memoria promuove l’obiettivo di dimenticare. Non ci confrontiamo con una catastrofe naturale, con una gigantesca incuria pubblica, con una generica colpa umana. I responsabili della strage, come di quelle che continuano a scuoterci, sono organizzazioni e persone precise, con nome e cognome». La prima idea di una diga sul torrente Vajont, ai piedi delle Dolomiti che dividono Veneto e Friuli Venezia Giulia, affiora a inizio Novecento nei circoli della nobiltà veneziana, che fonda la Sade. Industrializzazione del Nordest, congedo dalla civiltà contadina e urbanizzazione, hanno fame di energia ad ogni costo. Si comincia a progettare lo sviluppo di Porto Marghera e negli anni Venti il fascismo industriale dell’ex Serenissima segue compatto i piani del conte Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania, acquistando e di fatto silenziando anche i giornali locali. Tra il 1937 e il 1945 l’originaria diga, che avrebbe dovuto fissare il massimo invaso a quota 660 metri, si trasforma nel nazionalista mega- progetto esecutivo di un “Grande Vajont” articolato su più bacini collegati, senza precedenti mondiali, al servizio della propaganda autarchica del regime. La caduta di Mussolini non placa la sete di profitti della Sade, che dal 1948 fa razzia di pascoli, prati e boschi tra i montanari usciti decimati e affamati dalla guerra. Dieci anni di rivolte inutili, di divisioni innescate e di cedimenti obbligati, con i terreni confiscati per 18 lire al metro quadro. Migliaia di famiglie, come sul resto dell’arco alpino preso d’assalto dai signori di dighe e centrali elettriche, vengono private dell’essenziale per vivere: dagli animali ai campi, dall’orgoglio alla dignità. L’inizio dei lavori, senza autorizzazione, coincide con i primi allarmi tecnici sulla tenuta del monte Toc. È il 1957: pubblicamente già di parla di «grave pericolo per la sicurezza delle persone», ma lo Stato finanzia il 30% del progetto Sade. Due anni dopo l’ingegner Edoardo Semenza individua l’immensa paleo- frana che prova l’instabilità dei versanti del Toc. La scoperta, complice l’onda di terrore diffuso dai 421 morti causati dal crollo della diga francese di Frejus, viene silenziata anche da suo padre Carlo, progettista dello sbarramento sul Vajont. Nei tre anni successivi, fino al 1962, si moltiplicano i distacchi: la fessura a forma di M si allunga fino a 2 chilometri e si allarga in un crepaccio che si muove di 3 centimetri al giorno. Precipita anche una frana di 700 mila metri cubi di terra, capace di sollevare un’onda alta 10 metri. Carlo Semenza, prima di morire per un’emorragia cerebrale scrive angosciato: “Mi trovo davanti a una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire dalle nostre mani”. La Sade, grazie alle prospettive di crescita dei profitti garantiti dall’entrata in funzione del “Grande Vajont”, è un colosso con un capitale sociale da 95,4 miliardi: distribuisce ai soci dividendi record, una pioggia d’oro tra Comuni del Veneto. Le “prove di strage”, grazie al modello in scala realizzato nei magazzini Sade di Nove dai docenti dell’università di Padova, arrivano fino al 1962 e restano riservate.

Gli allarmi silenziati dagli interessi economici

«Una frana nel lago alla quota di massimo invaso di 722,5 metri — conclude Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di idraulica — comporterebbe conseguenze impressionanti anche per Longarone». Il piano criminale, a un anno dal crollo, supera dunque consapevolmente il punto di non ritorno. Gli indennizzi di Stato riconosciuti alle imprese elettriche nazionalizzate nell’Enel, vengono calcolati in base al valore delle azioni in Borsa, che a sua volta dipende dall’eseguito collaudo. Scosse e boati scuotono la valle del Vajont, ma ormai Sade e Stato sono impegnati nella folle corsa a classificare l’opera «bene elettrico indennizzabile » e a stanziare la terza tranche dei finanziamenti pubblici. A strage consumata i soldi sporcati dal sangue saranno impiegati da Montedison, che nel 1964 rileverà Sade, per lo sviluppo di Marghera: parte dalle Dolomiti, dopo che nel marzo 1963 Sade ha consegnato i suoi impianti a Enel, anche l’attuale e ignorata agonia della laguna di Venezia. Siamo all’atto finale. Il calvario del Vajont, dal 18 settembre di sessant’anni fa, è sotto gli occhi di tutti: tecnici, consulenti e dirigenti di Sade-Enel, lo considerano «inevitabile». La frana sul Toc accelera ad ogni istante: trascina con sé vacche, pecore, abeti, stalle e malghe. Gli allarmi in extremis lanciati dai Comuni, a Venezia e a Roma vengono definiti «piuttosto azzardati». Alberico Biadene, subentrato a Carlo Semenza quale direttore del servizio costruzioni idrauliche Sade, l’8 ottobre scrive al direttore della diga Mario Pancini, che si suiciderà il giorno prima del via al processo: «Che Iddio ce la mandi buona ». I paesi non vengono evacuati, l’evidenza è negata quando già la roccia è in corsa verso il bacino artificiale profondo 240 metri, capace di contenere 170 milioni di metri cubi d’acqua e vanamente abbassato da 722,5 a 710 metri di quota. Unico provvedimento prefettizio: alcuni carabinieri mandati a bloccare la circolazione lungo il fondovalle del Piave, tre ore prima della strage, quando la maggioranza della popolazione è già rincasata e non si accorge del divieto. «Unesco e Onu hanno riconosciuto il valore universale di questo disastro — dice Toni Sirena — quale Memoria del mondo: la strada da coprire per passare a una conoscenza e a una coscienza nazionali resta però lunga e ancora sbarrata da potenti ostacoli». Tra le ragioni, la vergogna di un dopo senza fine, abietto quanto il prima.

«Da molti anni — dice il regista Renzo Martinelli — non riesco a raccontare il disonore del dopo-Vajont. Restiamo un Paese fondato sulla rimozione della memoria e il conto di questa calcolata operazione lo paghiamo tutti». Martinelli, nel 2001, ha girato il film che racconta la strage fino al suo compimento. «Lo scandalo seguito — dice oggi — è ancora più vergognoso e le stesse istituzioni collaborano per nasconderlo. La grande economia nazionale si organizzò per rastrellare le licenze commerciali, incassare i risarcimenti e aprire imprese altrove. Si fece pressione sui disperati per convincerli a riscuotere risarcimenti miserabili in cambio della rinuncia a costituirsi parte civile contro Sade e Stato. Nel processo trasferito a l’Aquila si promosse il principio della commorienza, così da risarcire una sola vittima per ogni famiglia sterminata, stabilendo l’impossibilità di risalire all’esatta successione temporale dei decessi. Lo Stato ha fatto di tutto per deportare e disperdere la popolazione rimasta, bloccando la ricostruzione dei Paesi distrutti». Il «listino prezzi» è stato un secondo eccidio. La morte di un marito è stata valutata 3 milioni di lire, quella di una moglie 500 mila lire in meno. Per un figlio/a si scese fino a 600 mila lire, per un fratello/sorella fino a 400 mila. «Per una mamma — ricordano i sopravvissuti — lo Stato nello Stato ha offerto infine l’equivalente del prezzo di due manze. Molti per dignità hanno rinunciato, scegliendo di morire senza spendere denaro lercio. Chi ha rifiutato la carità di risarcimenti-truffa si è visto presentare il conto dei materassi su cui aveva dormito le prime notti, da sfollato, dopo essere rimasto senza casa». In questi giorni Martinelli sta pressando la Rai per poter girare L’uomo che scalava le dighe, ultimo capitolo del disonore-Vajont, a cui vengono negati i finanziamenti. «Racconta la storia di Vincenzo Teza — dice — un ragazzo di vent’anni che sotto il fango ha perso 33 famigliari. Il mattino del 10 ottobre 1963 pianta quattro pali nella frana e su un biglietto scrive: “Questa è la mia casa, chi si avvicina lo ammazzo, mi vergogno di essere italiano”. Fino a oggi è stata provata la colpa del disastro, resta da spingersi fino alla dimostrazione del dolo, visto che i giudici hanno stabilito la prevedibilità del crollo. Le vittime ufficiali sono 1.910, quelle reali, viventi e ignorate da quello che in inglese si definisce disaster business, sono molte di più. Un trauma reso insuperabile, per decenni, ha ucciso centinaia di persone anche con l’alcol: per isolamento, solitudine, rabbia, abbandono, odio, povertà e nostalgia». Questo “Dopo” è nato tempestivamente e in un momento preciso. Il 12 ottobre di sessant’anni fa l’allora presidente del consiglio, Giovanni Leone, atterra in elicottero nei pressi della diga e a nome dell’intero Paese prende un pubblico impegno: «Vi prometto — dice ai fantasmi sopravvissuti di Erto e di Casso — che sarà fatta giustizia». Sei anni dopo, all’apertura del processo, la stessa gente scopre che l’avvocato Leone, eletto presidente della Repubblica nel 1971, è il capo del collegio di difesa della Sade, impegnata a negare la realtà e a risparmiare i risarcimenti. È l’inizio di un altro calvario, quello della giustizia nelle aule dei tribunali, tra il 1969 e il 1971. La sentenza arriva nove mesi prima della salita di Leone al Quirinale, 14 giorni prima della prescrizione. Tutti assolti, o deceduti, o non più perseguibili. Tutti tranne due, i soli infine condannati nell’osceno tentativo di salvare la faccia delle nostre istituzioni. Ad Alberico Biadene i giudici comminano 5 anni di reclusione, di cui 3 condonati: è l’unico a finire in carcere, per pochi mesi. Francesco Sensidoni, capo del servizio dighe del ministero dei Lavori pubblici, strappa una pena di 3 anni e 8 mesi, di cui 3 anni condonati. Non sconta un solo giorno in cella.

«Questa giustizia negata dallo Stato — dice nel suo studio di Longarone Renato Migotti, 76 anni, presidente dell’associazione che riunisce i sopravvissuti del Vajont — ha posto le basi per centrare l’obbiettivo: fare in modo che il disastro continui a non insegnare nulla e che possa dunque, anche in altre forme e in settori diversi, impunemente ripetersi. Ricordare il 60° anniversario ha senso solo se viene chiarito, a chi allora non c’era, come e perché si è lasciato succedere: chi sono i responsabili penali e morali. Senza questa verità l’Italia non può guardare avanti. Nel bilancio personale della mia vita ci sono i genitori e un fratellino morti, lo sfollamento a Belluno a 16 anni, con la sorella maggiore che mi ha fatto da mamma. È una tragedia che tengo per me perché continua a farmi stare male». Il prossimo 9 ottobre Migotti consegnerà una lettera al presidente Sergio Mattarella. Il capo dello Stato, su invito del Comune di Erto-Casso, salirà sul coronamento della diga per incontrare gli scampati al massacro, i famigliari delle vittime e chi, tra i 10 mila soccorritori, è ancora in vita. Sarà l’occasione, dopo la visita al cimitero bellunese di Fortogna nella primavera del 2018, reduce da un sopralluogo sulle Alpi del Nordest devastate dalla tempesta Vaia, per parole chiare sul rapporto tra specie umana e natura, tra cittadini e potere, tra economia e politica, tra diritti, istituzioni regionali e Costituzione. Nella lettera di Migotti a Mattarella c’è una richiesta: «Vorremmo che la gestione del nostro cimitero — anticipa davanti all’aiuola che mescola la terra dei paesi annientati — passi dal Comune allo Stato. Venti anni fa il presidente Ciampi l’ha reso monumento nazionale, al rango di un sacrario di guerra. Resta un ossario civile, curato grazie a noi volontari, vittime ridotte a guide tra i propri cari uccisi. Ora che siamo vecchi è giusto sia lo Stato ad assumersi la responsabilità di assicurare per sempre le sue cure al luogo che custodisce ciò che resta del suo delitto».

Anche il sindaco di Longarone, Roberto Padrin, presenterà a Mattarella una richiesta ufficiale. «Dopo 36 anni — dice nel suo ufficio in Comune — Enel-Edison e Stato hanno risarcito con 77 miliardi di lire i danni materiali causati dalla frana del Toc. Questo è un capitolo chiuso. Resta invece aperto il destino dell’archivio che raccoglie gli atti, e dunque le testimonianze dirette, del processo trasferito a l’Aquila nel tentativo di insabbiarlo e di ostacolare la verità, contando sull’impossibilità della povera gente di pagarsi lunghe trasferte. Sono documenti preziosi, non solo per la storia nazionale: dopo il terremoto a l’Aquila, vengono custoditi nell’archivio di Stato di Belluno solo temporaneamente. È giusto che tornino invece per sempre nel territorio che ha subìto il disastro, dove sono partite le inchieste: basta un decreto del ministero della Cultura, la gente del Vajont non può più essere privata anche dei documenti che certificano la storia che ha cancellato la sua identità».

Per capire cosa significa oggi l’annuncio a caldo di Tina Merlin («non c’è più niente, non c’è più nessuno »), bisogna risalire la diga, camminarci sopra con le comitive dei commossi turisti in incredulo pellegrinaggio auto-fotografico, parlare con le persone che solo a 18 anni dalla strage hanno strappato allo Stato il diritto di ricostruire freddamente Erto e Casso. Lo scudo in calcestruzzo è ancora qui, inutile e intatto, simile a un ciclopico osso di seppia fossilizzato tra le Dolomiti. Alle sue spalle ancora incombe anche la frana, piantata al centro del cratere che essa stessa ha scavato in un istante sul fondo del lago artificiale, generando per sempre uno spaventoso scenario vulcanico. In quota, sotto il crinale del Toc, resta viva anche la ferita grigia della frana, che ha piallato una chilometrica parete di roccia oggi aperta tra le foreste secolari che l’assediano. Sul fondo della gola, se osservato da lontano e da un prospettiva completa, il muro del “Grande Vajont” si rivela minuscolo come un grano di polvere disperso su un pianeta, sospeso sopra il torrente azzurro dei ghiacciai ormai scomparsi che avrebbero dovuto alimentarlo. Possibile che nessuno abbia considerato l’insostenibile sproporzione tra opera della natura e manufatto dell’uomo? «Questo pensiero — dice Luigina Mazzucco, 68 anni, proprietaria della storica osteria K2 di Casso — è l’incubo da cui non mi sono mai svegliata. Un microbo di cemento messo lì a tappare il mondo, per arricchire un pugno di industriali, finanzieri e politici, sulla pelle di noi umanità. Era tutto chiaro, dal primo istante, nessuno ha voluto vedere: si è lasciato succedere e si permette che continui a capitare».

La testimonianza dello scrittore-scultore

Lo scrittore Mauro Corona ha scelto di restare a Erto, «nel cuore del dolore e del rancore, in attesa di una carezza». Il tuono lo ha travolto a 13 anni, abbandonatoda genitori ambulanti, costretti a vagare per l’Europa con la speranza di vendere gli utensili in legno realizzati d’inverno. «Il nostro disastro fa ancora paura — dice nel suo laboratorio di scultore — perché le istituzioni ci sono dentro e perché la loro bugia di Stato è la voce attuale della vergogna. La gente di montagna, spogliata di tutto, ha accettato l’annientamento di una civiltà secolare per l’assurda promessa di una vita meno tremenda, fondata sul turismo assicurato da un lago che non c’era. Dopo la strage siamo stati venduti all’odio, prigionieri e divisi del rancore, un’altra volta illusi di diventare come i signori che vivono in città. Aver creduto allo Stato resta la nostra vergogna. Dopo sessant’anni possiamo salvarci solo grazie al coraggio del perdono. Questo però è possibile soltanto in uno Stato che, contrariamente al nostro, assume e poi rispetta con i fatti l’impegno di non costruire più altri Vajont. Perfino l’oltraggio di un’attivazione della diga, prima o poi, può rappresentare un nostro risarcimento estremo, la demolizione inconfessabile di un tabù: considerata la realtà dobbiamo ammettere che concedere il perdono preventivamente, per accettare di riflettere insieme sul futuro, resta temerario». Il bilancio dei risparmiati dal fango oggi è questo: la memoria non è servita perché non è stata costruita in modo corretto. A certificare «il tradimento del Vajont rispetto alla Costituzione» è Adriana Lotto, presidente dell’associazione Tina Merlin, di cui è biografa.“Sacrificio di massa imposto volontariamente”

«Possiamo parlare di “olocausto” — dice — perché, come quello nazista contro gli ebrei, anche quello del Vajont è stato un sacrificio di massa imposto volontariamente. Tina Merlin veniva dalla resistenza, conosceva certi ingranaggi dei regimi e dei poteri che li hanno sostituiti. Dopo la strage è stata messa da parte e lasciata dimenticare perché tantomeno oggi è accettato chi risponde al dovere di parlare della povera gente. Da due anni giace presso la Rai, servizio pubblico, la sceneggiatura di una fiction in due puntate sulla sua vita, che èQuella del Vajont. Non si è riusciti nemmeno a ottenere un colloquio per parlare del progetto ». Possibile? Sì. «Il punto oggi è la necessità di rimuovere rapidamente il passato — dice Lotto — perché questo governo deve far credere di non riemergere da una storia politica disonorevole, che adesso va tutto bene. Il processo di rimozione di ogni turbamento, per apparire credibile, deve essere completo e generale. La verità sul Vajont e il ricordo di una figura come quella di Tina Merlin, mentre si ripromette l’autarchico rinascimento della patria e viene minata la libertà sostanziale dell’informazione, a partire da quella locale, non possono aprire la breccia narrativa di un precedente fedele alla Costituzione della repubblica, isolato riscatto da monarchia e fascismo». Il simbolo del baratto tra costruzione pubblica di una catastrofe e sviluppo economico, è la zona industriale di Longarone. A chi sono state rubate la terra e la civiltà di montagna prima, la famiglia e la casa poi, lo Stato ha concesso infine un posto in fabbrica sul greto del Piave. I giovani sono emigrati. Sopravvissuti e superstiti del Vajont, fino alla fine, hanno invece timbrato il cartellino nei capannoni eretti sopra il fango che ha sommerso le loro vite. «L’ultimo tradimento del potere — dice il sociologo Diego Cason — resta lo scambio sacrilego tra la strage e l’occasione della rinascita. Da sessant’anni quelli del Vajont sanno di essere al massimo sopportati, reclusi nel ghetto del silenzio interrotto dopo trent’anni grazie a Paolini, accusati di furto per aver accettato risarcimenti da fame, condannati per la colpa di non essere a loro volta spariti. La ferita sociale, pur rimossa, resta aperta perché al silenzio si aggiunge ora la consapevolezza di essere stati presi in giro un’altra volta: l’abbandono della montagna continua, lo sfruttamento di territorio e acqua accelera, il treno del benessere non è passato, i disastri costruiti da interessi, omissioni e corruzione delle istituzioni si moltiplicano. Il Vajont oggi viene tradito perché da qui una riflessione collettiva per cambiare non è mai partita: le vittime vedono che al nostro Paese nemmeno il loro sacrificio è servito».

Il monumento perenne all’intreccio criminale tra economia, politica e scienza, stretto per ricavare illegalmente dallo Stato enormi profitti personali, è il cimitero di Fortogna. Assieme al muro della diga, al fondovalle del Piave nascosto con la ghiaia e ai massi del Toc abbandonati a Erto e Casso, racconta l’ultimo secolo di storia nazionale, sospeso tra promesse di sviluppo e certezze di catastrofi. Gino Mazzorana ha 70 anni e il 9 ottobre 1963 è stato estratto vivo dalle macerie di Longarone. Quella notte ha scoperto che sotto il fango aveva perso i genitori e il fratello Efrem di 3 anni. Sei decenni dopo è ancora qui: come volontario guida ogni giorno i visitatori tra i 1.910 cippi che ricordano nomi ed età delle vittime. Pochi giorni fa la sorpresa. «Si presenta un uomo — dice davanti alle pietre bianche che chiudono le fosse della mamma Agnese e del papà Aldo, morti a 39 anni — mi guarda e mi abbraccia ». Lui è Feliciano Antoniazzi, vicentino di Arzignano, ex alpino della brigata Cadore, uno dei 10 mila soccorritori del Vajont. È l’uomo che ha salvato Gino sollevando le travi che lo schiacciavano. «Mi ha riconosciuto grazie a uno scatto del grande fotografo Bepi Zanfron — dice — ci siamo commossi perché anche chi ci ha aiutato è morto un po’ con noi. Due suoi commilitoni sono tra le vittime. A farci piangere insieme non è stato però il passato, ma il presente: il disastro del Vajont attraversa due secoli, ma non una parola compare nei testi di scuola e università. Lo Stato autorizza i giovani a non sapere niente della più spietata strage industriale della storia europea. Non sappiamo se all’origine di questo buco nero ci sia disattenzione, o al contrario un’attenta valutazione dei mostri generati dall’arroganza del potere: il problema è che se le istituzioni accettano la rinuncia a educare alla verità, secondo la Costituzione sono complici dei reati che perseguono. Il presidente Mattarella, salendo sulla diga, ha l’opportunità di chiudere l’epoca del pubblico oblio, per aprire quella della conoscenza, base del futuro».

Il telefono impugnato da Tina Merlin dopo 60 anni non smette di squillare. «Pronto, sono la Tina: non c’è più niente, non c’è più nessuno». Aveva ragione. Non immaginava però che nemmeno dall’altra parte c’era qualcuno disposto ad ascoltare. Così i traditi del Vajont sono qui: 1.910 sotto terra, gli altri dispersi come spettri tra paesi frettolosamente ricostruiti per cancellare la nostra vergogna, senza identità, senza più la forza di lottare per scongiurare i prossimi Vajont. I cippi bianchi del sacrario di Fortogna restano piantati in un prato che da lontano guarda la diga. Il prato e la diga raccontano il mondo che, con la sua “grande opera”, lo Stato ha lasciato distruggere. Le fotografie dei morti non ci sono più. Anche il prato ormai dà fastidio. A fatica, ogni tanto, ancora per poco, appena prima degli anniversari qualcuno taglia i fili d’erba tra le pietre, i fiori spontanei che crescono sopra i corpi gettati a volare chissà dove.

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