Il ritorno di un bolognese
DI MICHELE SERRA
Il ritorno di Patrick Zaki nella sua Bologna è una delle poche pagine confortanti di questi giorni. Un evento sorridente e civile dentro un groviglio di cattivi umori e notizie diguerra.
La città ha abbracciato come un figlio uno studente straniero in difficoltà (Alma Mater non è sembrato solo un fregio accademico ma una vocazione), non ha mai smesso di aspettarlo e di quell’attesa cocciuta ha dato segno permanente sulla facciata del suo antico municipio; lo studente l’ha continuamente nominata, come una madre adottiva, lungo la sua assurda detenzione.
Diciamo “prigioniero politico” senza renderci mai abbastanza conto di quanto barbarica, scandalosa sia quella condizione: persone in carcere non per avere commesso un crimine, ma per avere espresso un’opinione, o scritto parole sgradite a chi comanda. Nel mondo sono decine di migliaia: non sono riuscito a trovare in rete un numero attendibile, spero di non avere approssimato per difetto.
Bologna non poteva che fare sua la storia di Zaki, perché la tolleranza è un tratto molto forte della sua identità. Anche troppa, dicono quelli che non amano la tradizione consociativa della città, post-comunista, curiale, massonica.
Poco litigiosa, insomma. Sta di fatto che la detenzione di Zaki, colpendo una comunità così tollerante, suonava particolarmente oltraggiosa. La libertà di parola, nel 2023, è ancora un problema di prima grandezza in grande parte nel mondo. Non in piazza Grande, dove le parole galleggiano libere e felici sui capannelli degli anziani che ne hanno viste di tutti i colori: ora anche il ritorno di un figliolo egiziano, bolognese come loro.
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