Chi paga i danni della vita?
di Michele Serra
La notizia che in Florida una bambina di otto anni ha ottenuto ottocentomila dollari di risarcimento perché un pezzetto di pollo fritto le è caduto su una gamba in un drive-in, rende l’idea del tipo di società che stiamo preparando: tutto il potere è agli avvocati che costruiscono risarcimenti e agli ingegneri elettronici che costruiscono algoritmi, le restanti categorie potranno sopravvivere solo come clienti delle prime due o come loro personale di servizio. (Avvertenza: la precedente frase è un paradosso. Lo scrivo nel caso che un avvocato americano la legga e mi citi in giudizio).
L’aspetto strabiliante è la motivazione della sentenza. La giuria ha condannato McDonald’s perché “non aveva adeguatamente avvertito sui possibili danni causati dai bocconcini di pollo fritto”. Cioè: non è abbastanza evidente a chiunque che il pollo fritto scotta? Esclusa l’ipotesi che qualcuno, nel drive-in, in un raptus di sadismo abbia volontariamente rincorso la bimba con cibi arroventati, allo scopo di ustionarla, quali margini sono ancora concessi all’incidente, all’imponderabile, se si stabilisce che OGNI evento deve avere per forza un colpevole, un imputabile? Ogni precipizio andrà dotato di cartelli che avvertono della legge di gravità? Ogni deserto dei rischi che si corrono sdraiandosi nudi sotto il sole allo zenit? Ogni biglietto di aereo, di treno, di traghetto, di autostrada, sarà accompagnato da una clausola legale che avverte della possibilità di un incidente?
Se tutto ha un colpevole, niente rimane della responsabilità individuale e di quell’evidente fattore di rischio che è la vita. Portando alle sue conseguenze logiche sentenze come quella del pollo fritto, ogni neonato potrà fare causa ai genitori perché non lo avevano avvertito adeguatamente dei possibili danni che venire al mondo può infliggerci.
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