venerdì 30 giugno 2023

Eccolo!



Ed ecco spuntare rinascimentalmente il principe dei mentecatti, il quale, per non confondersi con la plebaglia dei Conte, dei Fratoianni, sfancula il salario minimo a 9 euro, preferendo parlar di diete ad intermittenza, delle solite fetecchie, pronto a ripartir a gettone dall’amico Sim Sala Bim, faro dell’umanità! (Eccezion fatta per Khashoggi naturalmente!)

Intanto...


...il quasi ottantenne....



 

Premier nervosa

 

Non ride più
di Marco Travaglio
Giorgia Meloni è una romanaccia simpatica. Battuta pronta, risata contagiosa e un po’ di sana autoironia. Anche sulla statura non proprio slanciata, eterno cruccio dell’altro nano ancor più della calvizie (“Sono alto un metro e 71, cribbio!”). Ma, nelle ultime uscite pubbliche, di quella Giorgia non rimane neppure l’ombra. La sostituisce una donna truce, torva, astiosa, biliosa, minacciosa, in una permanente crisi di nervi. Non ride né sorride: ghigna e digrigna. Non parla: ruggisce. Non c’è più l’underdog che, dopo un’infanzia difficile e una carriera costruita con le sue mani, ce l’ha fatta. Ora c’è una capetta che fa la spavalda per nascondere l’insicurezza e attacca per difendersi da nemici immaginari. Come se fosse ancora lì col 4% a fare opposizione sola contro tutto e tutti. Invece è a Palazzo Chigi con un potere smisurato, il 99% dei media che canta le sue lodi e le opposizioni che balbettano (quando non la fiancheggiano). E il travestimento da San Sebastiano non suscita solidarietà, ma ilarità. Dalle praterie dell’opposizione solitaria alle strettoie del governo, dai voli della campagna elettorale all’atterraggio sulla realtà, c’è un bel salto. Che però non basta a spiegare una metamorfosi che può costarle cara. Ci dev’essere dell’altro.
Forse si rende conto di quanto sia scadente il personale politico di cui si circonda (e giustamente diffida). Forse in cuor suo soffre a fare o a subire tutto ciò che rinfacciava agli “altri” (migranti, accise, austerità, condoni, politiche anti-sociali e anti-legalitarie, riverenze a Usa e Ue, Mes, draghismo, Figliuolo, Panetta, scandali di ministri gaffeur o impresentabili). La “pacchia” che doveva finire per l’Ue è finita per lei. E questo suo primo luglio al governo lo ricorderà e lo ricorderemo tutti. Ci rammenta quello di un altro neo-premier che Montanelli immortalò sulla Voce nel luglio ’94, nei giorni del “Salvaladri”: “Uno strazio aggiuntivo di questi torridi giorni sono per me le apparizioni sul video del Cavaliere che, avendone a disposizione sei tra pubblici e privati, non perde occasione di abusarne… A opprimermi è il sorriso con cui Sua Presidenza accompagna le parole: tirato, stirato, studiato col consueto puntiglio cosmetico, ma ormai completamente estraneo a un volto non più bene ambrato come una volta, ma lucido di sudore. Non erano questi i sorrisi di Berlusconi quando non era ancora ‘il Cavaliere’. Anzi, quelli non erano nemmeno sorrisi, ma risate: belle, aperte, squillanti, a gola spiegata… Ecco perché mi fa tanto male vederlo sul video con quel sorriso fasullo. Quasi un ghigno, che non ricorda neanche da lontano la bella risata fresca e squillante del Silvio di Arcore, non ancora Cavaliere”. Era il ritratto di Silvio. Pare quello di Giorgia.

L'Amaca

 

Vecchi e inamovibili
DI MICHELE SERRA
L’ipotesi che Joe Biden davvero si ricandidi — come ha già annunciato — per le presidenziali del ’24, per giunta avendo per probabile sfidante Donald Trump, è per metà surreale e per metà angosciante. Biden avrà 82 anni, Trump 78, si tratterebbe della sfida tra due vecchi. Non ho niente contro i vecchi, sono anche io sulla soglia di quell’età che è piena di risorse, di esperienza, di pacificazione con se stessi e con gli altri, di pensiero libero — finalmente libero dall’ansia di dover dimostrare qualcosa. Ma santo cielo, con quale energia, quale rapporto con il futuro, quale conoscenza delle nuove “forme di vita” (tali sono i ventenni per chi ne ha ottanta), quale affidabilità fisica e mentale quei due signori pensano per davvero di potersi e anzi doversi ricandidare?
Ho sempre pensato che riflettere su quale sia il momento giusto di levarsi dai piedi e dedicarsi alla pesca o al biliardo o all’acquerello, avendo nel frattempo provveduto alla propria successione — in tutti i sensi — sia un dovere tra i più importanti per chiunque, e specialmente per chi ha un ruolo di potere.
Nelle monarchie semplificava le cose l’idea, stramba ma efficace, che il potere fosse trasmissibile per via dinastica, come i bilocali e i Bot. Ma in democrazia?
Possibile che il non freschissimo Biden e l’apoplettico Trump (con quei capelli!) non abbiano pensato che nessuno è indispensabile, che gli anni passano, che l’artrosi impedisce di camminare bene di fronte ai picchetti d’onore, e infine che il futuro non appartiene a loro, ma ai giovani, che nel decrepito Occidente ormai sono quelli al di sotto dei cinquant’anni?

Demaniale

 


Proprietà e popolo Cosa dice la Carta e cosa fanno i governi

IL DISASTRO DELLE PRIVATIZZAZIONI - Il patrimonio dello Stato. L’articolo 42 della Costituzione assegna il Demanio alla “totalità” dei cittadini, perciò non dovrebbe esser dato in “gestione” ai privati

di Paolo Maddalena 

La situazione economica italiana è in continuo peggioramento. Solo per fare qualche esempio, può ricordarsi che, secondo le statistiche ufficiali del 2022, i “poveri assoluti” sono circa cinque milioni e seicentomila persone, mentre sempre più carenti sono i servizi pubblici essenziali, specie quelli della sanità e della pubblica istruzione. Di questo si parla poco nei media, i cui programmi riguardano, di solito, ben altre cose, e soprattutto se ne parla poco tra la gente.

La causa di questo oscuramento delle coscienze è da ricercare, a mio sommesso avviso, nel predominio del pensiero economico unico dominante del neoliberismo, diffusosi in tutto il mondo occidentale attraverso una continua e battente propaganda, che ha indotto le menti di ciascuno a considerare l’economia del libero mercato come un dato di fatto irrefutabile e irrinunciabile, al quale non resta che assoggettarsi passivamente. È invero un pensiero balordo, poiché, come è da sempre noto, in economia il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e avventurarsi in un mercato senza nessuna protezione di salvataggio, è pura follia. Lo si è sempre saputo e non si può fare a meno di ricordare che Gaio, giurista romano del secondo secolo dopo Cristo, pone come presupposto dell’esistenza di una sana economia la necessità della divisio tra le res extra commercium in proprietà pubblica del Popolo romano (e pertanto, inalienabili e inusucapibili, in quanto destinate all’uso gratuito di tutti), e le res in commercio, che potevano essere liberamente gestite da ciascuno. Questo perché Roma, sostanzialmente come la nostra Repubblica, era una “comunità” a fini generali, nella quale la ricchezza prodotta dal “territorio” doveva essere messa a disposizione del Popolo in modo da assicurare il miglior livello possibile di vita.

Contro questo dato innegabile, e facendo leva sull’oscuro concetto di “globalizzazione” (che i recenti eventi bellici sembrano porre in discussione), Milton Friedman della Scuola di Chicago, nel 1960, pubblicò un libro dal titolo Storia della moneta americana dal 1867 al 1960, che fece il giro del mondo, arrecando dappertutto danni immensi, con il quale affermò che: “L’essenza dell’ordine del mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza”; il suo obiettivo non è soddisfare i “bisogni individuali”, ma “il massimo profitto” del singolo; la ricetta per raggiungere detti fini è la seguente: a) deregulation; b) privatizzazione; c) riduzione delle spese sociali. Come agevolmente si può capire, una rovina per il popolo intero.

A questa teoria si ispirò Mario Draghi, il quale, dopo che già nel 1990 erano state privatizzate tutte le nostre banche pubbliche, il 2 giugno 1992, sul panfilo Britannia, con a bordo cento delegati della City londinese, chiese un forte aiuto politico per privatizzare l’intero complesso industriale e commerciale italiano, facendo in modo che i governi che si susseguirono da quella data privatizzassero i nostri Enti pubblici economici e le relative Aziende pubbliche. “Oggi, oltre 30 anni dopo, abbiamo il record di debito pubblico: 2.755 miliardi; l’Ocse certifica che l’Italia ha dal 2001 la più bassa produttività assoluta tra i Paesi industrializzati (secondo Eurostat in 20 anni di euro la produttività italiana è calata del 5%) con i redditi reali diminuiti del 3,8% a fronte di un aumento del 50% della Germania, e i salari più bassi dell’Ocse. Infine, secondo Bloomberg, tra il 1985 e il 2001, il Pil italiano è cresciuto del 44%, pari a 482 miliardi di euro. Nei successivi 20 anni – fatte le privatizzazioni – la crescita è stata del 2%, per 31 miliardi”. E si potrebbe continuare.

Un rimedio tuttavia esiste e riguarda sia i giuristi, sia i politici. Per quanto riguarda i giuristi, dico subito che, in generale, essi, nel passaggio dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, non si sono accorti che la “forma di Stato” era cambiata, per cui si era passati da uno Stato “soggetto singolo”, la Persona giuridica Stato, a uno Stato “soggetto plurimo”, lo Stato Comunità e cioè il Popolo. Per cui sono mutate anche le forme di appartenenza, che nel primo caso, trattandosi di un soggetto individuale”, era la “proprietà privata” (anche se talvolta era chiamata “pubblica” per la natura pubblica del proprietario), mentre nel secondo caso, trattandosi di un “soggetto plurimo”, la forma di appartenenza è diventata quella della “proprietà pubblica”, come molto chiaramente si legge nell’art. 42 Cost., comma 1, primo alinea, secondo il quale “la proprietà è pubblica o privata”, intendendo la prima originaria e illimitata, e soggetta a limiti intrinseci ed estrinseci la seconda.

Si è trattato di un errore grave. Infatti, nel cogliere la reazione popolare contro le privatizzazioni (si ricordi il referendum contro la privatizzazione dell’acqua del 2011), la Commissione Rodotà, che tanto ha parlato dei “beni comuni”, ha finito per concepire questi come oggetto anche di “proprietà privata”, addirittura proponendo, nel disegno di legge delega appositamente preparato, l’abrogazione del “Demanio”, proprio di quell’istituto che l’Imperatore Federico II aveva creato con il Liber Constitutionum, emanato a Melfi nel 1231, per contrastare l’appropriazione privata e riportare nel suo dominium eminens quei beni di rilevante interesse pubblico, come le strade (diventate a pagamento), i fiumi, i porti, le rade, le spiagge, i palazzi di gran valore, ecc., che erano caduti, nel corso dei secoli, nel dominium utile dei singoli, e sottratti all’uso pubblico, che l’Imperatore riuscì a ristabilire.

Un altro disegno di legge, comunque, è intervenuto in proposito, quello presentato in Senato il 12 maggio 2022, n. 2610, dalla senatrice Paola Nugnes e altri, che fa luce sui “beni comuni”, giustamente considerandoli in “proprietà pubblica demaniale”, alla pari degli altri “beni pubblici” (del resto, anche l’aggettivo “comune” induce a ragionare in questo senso) . Ed è da sottolineare che la “proprietà pubblica”, appartenendo, per disposizione costituzionale (art. 42 Cost.), al popolo nella sua “totalità”, non può essere concessa in “gestione” a singoli, poiché ciò comporterebbe una “scissione” tra “titolarità astratta” del diritto e “contenuto concreto” del diritto stesso, come avviene per la proprietà privata, quando il proprietario riserva a sé la “nuda proprietà” e conferisce ad altri “l’usufrutto”. Dunque, la “gestione” di “beni pubblici” non può che essere affidata a “soggetti pubblici”, idonei a perseguire realmente interessi pubblici. E altrettanto vale per i “servizi pubblici essenziali” e le “attività” relative a “fonti di energia” o a “situazioni di monopolio, che l’art. 43 Cost. considera “proprietà pubblica” o di “comunità di lavoratori o di utenti”.

Insomma, come si nota, i confini del “demanio civilistico” appaiono nettamente superati ed è arrivato il momento di parlare di un nuovo e aggiornato “demanio costituzionale”.

giovedì 29 giugno 2023

Nano

 


Vive nel suo mondo dorato, si vanta di essere un imprenditore, di stipendiare centinaia di persone. Gli piace da morire questo mondo malevolo con un'inaudita forbice sociale che arricchente sempre di più pochi a scapito della maggioranza degli umani. Questa società che arranca per arrivare a fine mese ma che convive con riccastri che si possono permettere di stappare bottiglie da migliaia di euro nei suoi locali. 

Università che orrore! Lo studio infatti molte volte apre la mente. E come si potrebbe vivere come lui vorrebbe se molti si svegliassero? 

Chi apparecchierebbe al Billionaire? La sua amichetta del cuore Garnero in Santa(de)chè?  

Eccezione

 


Per bastardi come Bellini, responsabile della strage alla stazione di Bologna, fascista della malora, ammetto che farei un'eccezione sulla democratica convinzione che la pena di morte debba essere abolita ovunque. Un'eccezione non guasterebbe il concetto. 

La Strada



Il Cardinale Zuppi in Russia sulla strada che scorre lontana dai clamori dei potenti, dalle convinzioni dell’aggredito che crede di vincere una guerra impari, dalle violenze di chi continua a fornire armi, dalla schizofrenia di un assassino che possiede migliaia di testate nucleari. La strada di Zuppi fu già derisa due millenni fa dai filosofi, appare fuffa per gli intellettualoni, per i pensatori dell’aria fritta che anelano al gettone di presenza, per gli anchormen convinti che valga solo armare l’aggredito per ottenere la pace.  
La strada di Zuppi si corrobora col silenzio e l’ascolto. L’icona lo testimonia.

Su Santadeché

 

Pochi amici e trappole la trincea della ministra che odia le domande e si prepara a resistere

DI STEFANO CAPPELLINI

Nei giorni successivi alla nomina a ministra del Turismo, lo scorso autunno, Daniela Santanchè era raggiante. Ai suoi collaboratori ripeteva convinta di essere decisa a cambiare, se non proprio vita, almeno immagine: «Non vedrete più la vecchia Santanchè, basta vestiti esuberanti, basta tv, ora sobrietà, sobrietà, sobrietà». Si dice ci siano sempre un centinaio di imprevisti capaci di mandare all’aria anche il piano o il proposito meglio congegnato e che bisogna essere un genio per prevederne al massimo il venti per cento: difficile dire quanti ne avesse messi in conto Santanchè ma ne sono spuntati parecchi.
All’inizio della legislatura, in effetti, la ministra ha quasi smesso di andare nei talk show né ha più scomodato dagli armadi gli abiti compresi nello spettro cromatico, poco armo, dal fucsia al verde. Poi, però, è scoppiata la polemica per la campagna pubblicitaria “Open to meraviglia”, quella con la Venere del Botticelli influencer, e già lì è venuto meno il fioretto sulle apparizioni televisive, poi sono cominciati gli sfottò ed è saltata la continenza istituzionale, infine Report ha rimesso in fila impicci e imbrogli delle aziende di famiglia ed è quasi crollato tutto. Ora il mantra della ministra è un altro: resistere, resistere, resistere. Resisterà?

La difesa di Palazzo Chigi non è parsa granitica.
Nel nervosismo che Giorgia Meloni ha mostrato nelle ultime occasioni pubbliche il caso Santanchè ha una robusta quota di causalità. Meloni sa bene che un conto è blindare Donzelli e Delmastro in un vicenda, come il caso Cospito, nel quale tre quarti degli italiani facevano fatica a comprendere anche la materia del contendere, altro è legarsi mani e piedi alla tutela di una ministra in una storia dove, in attesa di eventuali sviluppi giudiziari, le questioni sono elementari: aziende spolpate e sull’orlo del fallimento, azionisti lasciati in braghe di tela, fornitori non pagati e messi in ginocchio, lavoratori licenziati e ancora in attesa del tfr. Pure gli alleati della maggioranza non paiono schierati a testuggine. Ieri la Camera ha approvato un ordine del giorno del Pd, su cui ha dato parere favorevole il governo, che chiede sanzioni per le aziende che hanno usato in modo fraudolento la cassa integrazione Covid, citando proprio la Visibilia di proprietà della ministra. Santanchè ha fatto buon viso sul parere del governo («Giusto così»), ma i fatti parlano chiaro: nessuno vuole incatenarsi per “Daniela”. Certo non il vicesegretario della Lega Andrea Crippa: «Sono curioso diascoltarla, se poi dovessero evidenziarsi irregolarità o illeciti, è giusto che si prenda le sue responsabilità». Questi sono gli amici. A Santanchè resta il supporto del concittadino cuneese Guido Crosetto, che in una intervista alCorriere della sera ha evocato lo spettro del dossieraggio generalizzato («C’è un dossier su tutti in Italia », le inquietanti parole del ministro della Difesa), la benevolenza di Matteo Renzi, che non vede problemi (Visibilia è concessionaria pubblicitaria del Riformista diretto dall’ex presidente del Consiglio), e soprattutto l’appoggio incondizionato di Ignazio La Russa,nella doppia veste di storico mentore e di attore per ora non protagonista della vicenda, dato che c’è la firma del presidente del Senato, in veste di avvocato di Santanchè imprenditrice, in un paio di documenti che riguardano le traversie delle società in questione. Bello scudo, in teoria. In pratica, negli spifferi parlamentari c’è chi ipotizza che proprio il coinvolgimento di La Russa potrebbe essere il peggiore degli affari per Santanchè, se le sue dimissioni dovessero rendersi necessarie per evitare che il caso si allarghi fino a creare imbarazzi alla seconda carica dello Stato. Poi resta lo staff di Santanchè al ministero, senza più la portavoce Nicoletta Santucci, ex di Lorenzo Guerini alla Difesa, che ha lasciato dopo appena tre mesi di lavoro e non per il caso Report. A guidare la squadra c’è il capo di gabinetto Erika Guerri, magistrato della Corte dei conti, quasi una ministra ombra, quindi il consigliere per i rapporti istituzionali Gianluca Caramanna, plenipotenziario di FdI sul turismo, e l’altra consigliera Luciana Scalzi, uscita dalla scuola di formazione di Denis Verdini. Dalla bolla del suo entourage la ministra trae sempre grande ottimismo: difficile che qualcuno le muova obiezioni.

Santanchè spera di trovare un alleato involontario in Roberto Gualtieri, che da ministro dell’Economia del Conte 2 fu autore della norma che prescrive all’Agenzia delle entrate di evitare il fallimento di aziende in debito con il fisco se e quando ciò crea un danno ai lavoratori (in questo caso, però, quasi tutti già licenziati). Sono giorni complicati all’Agenzia, perché qualsiasi decisione sarà presa sulla proposta di spalmare il debito di Visibilia si presta a strumentalizzazioni e accuse di conflitto di interessi. Un sì, che coinvolge inevitabilmente anche il Mef di Giancarlo Giorgetti, può passare per un favore politico. Un no per un atto ostile al governo, ragione sufficiente a causare le dimissioni della ministra.
Mercoledì prossimo è prevista l’audizione di Santanchè, non a caso in Senato e nella forma più protetta possibile, niente question time, solo un’informativa. Così ha deciso a maggioranza la capigruppo di Palazzo Madama. «È lo strumento più adatto per consentire alla ministra di spiegare. Il question time è strutturato in maniera tale che l’interrogato è sempre subalterno a chi interroga», spiega il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. Insomma, Santanchè si sente più a suo agio se non c’è nessuno che le fa domande.

Mieli travagliato

 

Esami di riparazione
di Marco Travaglio
Chiuse le scuole dell’obbligo, aprono quelle facoltative. Almeno per noi del Fatto, che riceviamo ogni giorno autorevoli lezioni su come fare il giornale. Cioè possibilmente come gli altri: senza notizie né domande per non disturbare il manovratore. E niente vignette o battute, sennò il prof di turno non le capisce e bisogna spiegargliele con un disegnino (o con un’altra vignetta). Se poi andiamo in tv, è meglio se non esageriamo e soprattutto lavoriamo gratis, sennò Bin Rignan e il suo harem se ne hanno a male. Sabato alcuni malati di mente che si fanno chiamare “atlantisti”, mentre la Russia rischiava il colpo di Stato, la guerra civile, il bagno di sangue e il mondo tratteneva il fiato all’idea che 6-7mila testate nucleari cadessero nelle mani fatate di Prigozhin, si bagnavano tutti per la marcia trionfale del noto messaggero di pace e di verità. Ma soltanto perché la vittoria del gentiluomo, improvvisamente promosso da “macellaio” a “chef” stellato, avrebbe “sbugiardato” i “sostenitori dell’invincibilità di Putin”: cioè i “pacifinti” e i “putiniani” del Fatto. I quali naturalmente non hanno mai sostenuto l’invincibilità di Putin e comunque non sono stati sbugiardati da nulla e da nessuno, visto che (almeno mentre scriviamo, domani vedremo) Prigozhin è scappato e Putin è ancora lì.
Ieri al corpo insegnante s’è aggiunto un cattedratico di chiara fama: Paolo Mieli, figura mitologica che unisce il giornalista e lo storico, ma sempre per insufficienza di prove. Indovinate di che parlava su La7? Del Fatto. Speravamo che avesse finalmente le prove di ciò che disse tempo fa su La7 in nostra presenza: “Quando è arrivato Draghi, ha trovato che Conte e Arcuri avevano acquistato mascherine per 763 settimane, cioè per 14 anni e mezzo, da qui al 2035!… Sarebbe legittimo qualche dubbio, ove mai fosse vero che Draghi e Figliuolo han trovato nei loro magazzini 14 anni e mezzo di mascherine? Un giorno faremo i conti”. Ma purtroppo quel giorno non arriva mai: neppure ieri Mieli ha voluto svelare dove siano stoccate tutte quelle mascherine, che dovrebbero occupare l’intero Molise. Il giornalista e storico ce l’aveva col Fatto perché si permette di scoprire notizie sulla ministra Santanchè (da lui morbidamente intervistata in una rassegna diuretica a Capri) e financo di pubblicarle in prima pagina: “Leggo i giornali stranieri. E siamo l’unico Paese al mondo in cui c’è un giornale, il Fatto, che invece di aprire con la Russia, apre con Santanchè. È bizzarro”. Ma tu guarda: un giornale italiano, dopo aver aperto sul fallito golpe in Russia finché c’erano fatti degni di nota, si permette di dare notizie che tutti gli altri riprendono su una ministra del governo italiano. Notizie che, fra l’altro, sono pure vere. Dove andremo a finire.

De Masi risponde

 

“La vigliaccheria è mandare armi: così sono massacri fatti per procura”
IL SOCIOLOGO - “Se c’è un punto chiaro di discrimine tra destra e sinistra è il rapporto con la guerra”
DI SAL. CAN.
“Ho visto un’intervista del professor De Masi, filosofo del Movimento 5 Stelle, che diceva che è meglio vivere sotto una dittatura piuttosto che morire. Voi capite bene come questa sorta di esegesi della vigliaccheria di fatto faccia strage di secoli di civiltà europea”.
Giorgia Meloni chiama in causa, in Parlamento, un normale cittadino come il professor Domenico De Masi, sociologo apprezzato e oggi direttore della Scuola del Fatto. “Non sono il guru dei 5 Stelle – risponde De Masi –, sono demasiano, ho le mie idee e le scrivo. Vigliacco è attaccare una persona assente che non può difendersi”
Meloni le rimprovera di aver privilegiato le dittature.
Se il detto di Orazio, dulce et decorum est pro patria mori, “dolce e decoroso è morire per la patria”, sia vero o no va chiesto alle centinaia di migliaia di ucraini che sono morti o feriti per la patria e ai milioni che sono dovuti scappare. Alla guerra si poteva rispondere con la guerriglia ipotizzando che un nemico troppo forte si poteva attaccare con una guerriglia molto più intelligente. La guerriglia poi consente alla diplomazia di agire meglio.
Come spiega un attacco così netto?
Se c’è un punto chiaro di discrimine tra destra e sinistra è il rapporto con la guerra. È una differenza permanente, anche se nella Prima guerra mondiale una parte di socialisti aderì alla guerra. Non c’è nulla di male che la destra sia guerrafondaia, ma è doveroso che la sinistra sia dalla parte avversa.
La sua non è un’esegesi della vigliaccheria?
Non si tratta di una scelta tra coraggio e vigliaccheria, ma tra intelligenza e idiozia. Nel Risorgimento, quando c’era lo spirito patriottico, i Paesi non mandavano armi, ma uomini armati. La vigliaccheria è mandare armi per far massacrare le persone per procura.

L'Amaca

 

Eppure l’audio era ottimo
DI MICHELE SERRA
Il difetto (mortale) della politica fatta per strappare applausi, o per piacere ai social, è che i contenuti, uno dopo l’altro, spariscono. Finiscono ingoiati dal tono e dal volume, come quando hai ascoltato una canzone ma non sapresti dire di che cosa parlava.
Il discorso di Meloni ieri in Parlamento conteneva un sacco di argomenti: il Mes, i migranti, il viaggio in Tunisia, le spese militari italiane ed europee, più varie ed eventuali. Su almeno uno dei temi trattati (la necessità di una maggiore autonomia militare dell’Europa) mi è sembrato, per un momento, di potere perfino essere d’accordo. Non fosse che un profluvio di retorica nazionalista, di inopinate accuse ai «comunisti» (??!!), e un tono quasi sempre sopra le righe — aumentando la vispolemica aumentava tragicamente l’accento romanesco — travolgevano ogni concetto. La cornice che si mangia il quadro.
Esiste una collaudatissima retorica da comiziante: ma perfino nei comizi è irritante, suona vecchia, declamatoria, e comunque può appellarsi all’alibi degli altoparlanti che non funzionano. Ma in Parlamento l’audio è perfetto, non c’è nessun bisogno di alzare la voce. E dunque il tono da comiziante in Parlamento disturba tre volte di più, perché il Parlamento non è una piazza e non è neanche una pagina Facebook.
Così alla fine, del discorso di Meloni, rimarrà il pittoresco urletto contro «i comunisti» e poco altro. Sui social qualcuno risponderà: taci tu che sei fascista. I contenuti rischiano di essere solo un pretesto per animare il solito vecchio match a chi strilla più forte. È faticoso seguire. Si passa volentieri ad altra occupazione.

mercoledì 28 giugno 2023

Direttore Comico

 

Autorevolezza da recuperare

di Matteo Renzi 

Il Consiglio dei Ministri ha avviato le procedure per la nomina di Fabio Panetta alla guida della Banca d’Italia. Si tratta della scelta migliore possibile e siamo i primi a congratularci con Giorgia Meloni e con l’intero esecutivo. Si capisce adesso perché qualche mese fa Panetta rifiutò in modo netto la proposta di svolgere il ruolo di super ministro: chi lo conosce sa bene che il suo destino era già indirizzato verso Palazzo Koch.

Il compito che attende il prossimo Governatore è tutt’altro che banale. La BCE, il cui operato Panetta conosce bene avendo trascorso gli ultimi anni proprio a Francoforte, è in una fase molto difficile. Le tensioni internazionali spingono gli istituti centrali a intervenire ma diciamolo chiaramente: Christine Lagarde non è Mario Draghi. L’autorevolezza del nostro ex premier era tale da salvare l’Euro con una frase. La banchiera francese, comprensibilmente, non ha la stessa credibilità e forza. E purtroppo i mercati se ne sono accorti subito. Mentre rimane il dubbio su chi sostituirà Panetta nel board della Banca Centrale, possiamo immaginare che il compito del nominando Governatore sarà reso difficile dunque anche dalle incertezze della finanza europea.

Ma la verità è che i dodici anni di Ignazio Visco hanno minato l’autorevolezza e la credibilità di Banca d’Italia. Sono cresciuto come tutti quella della mia generazione con il mito della Banca d’Italia di Einaudi, Menichella, Carli. Fino ad arrivare alla stagione più recente ma comunque ricca di personalità di livello. Durante le consultazioni per la formazione del Governo – una volta accettato l’incarico con riserva – andai d’accordo col Presidente Napolitano a incontrare il Governatore convinto come ero di poter raccogliere suggerimenti utili per affrontare la guida del Paese. Per quelli come Banca d’Italia ha rappresentato in tanti momenti l’istituzione più forte e più credibile del Paese.

Visco non è stato all’altezza di questa storia, purtroppo. E lo dico senza alcuna difficoltà personale: quando abbiamo collaborato, come nel caso della riforma sacrosanta e storica delle Banche popolari, lo abbiamo fatto con successo. Ma Banca d’Italia nella testa di molti di noi era qualcosa di più di una istituzione burocratica. Banca d’Italia era la scuola di formazione della classe dirigente del Paese, era la nostra ENA, più autorevole di qualsiasi altra istituzione europea, capace di vedere prima i problemi e risolverli con visione e equilibrio. La gestione di Visco purtroppo ha instradato Palazzo Koch sulla strada di una banale mediocrità, senza alcun guizzo e senza quel contributo di qualità con cui Banca d’Italia aveva sempre arricchito il Paese. A Fabio Panetta insieme al doveroso augurio di buon lavoro affidiamo la speranza che possa riportare questa Istituzione laddove merita di stare, nelle eccellenze del Paese.

Ottima visione


Guerra di tweet. Todos geopoliticos: anche Farfallina71 e Gino-bandierina

di Alessandro Robecchi 

Sono stati giorni entusiasmanti per chi osserva (forse come me, il più delle volte basito) le dinamiche dei media, le contorsioni delle narrazioni, i testacoda della propaganda, le circonvoluzioni, gli spiegoni, i commenti in Rete, sui giornali, alla tivù. Trovo meravigliosamente democratico che Farfallina71 sappia decrittare con tanta precisione i retroscena interni del Cremlino, o le mosse di Wagner; oppure che Gino-bandierina ci ammannisca la sua analisi retroscenista, che tu leggi e dici: “Minchia, Gino! Avrà le sue fonti segrete a Rostov sul Don!”, e poi scopri da altri tweet che fa l’elettrauto a Posillipo.
Putin è più debole. Putin è più forte. Non è mai stato forte. Non è mai stato debole. Ha le ore contate. Ora vanno a Mosca e gli fanno un culo a capanna, anzi no, tornano indietro, visto?, erano d’accordo. Prigozhin è cattivo ma dice la verità, e questo quando la “verità” di Prigozhin collima con la “verità” di CiccioPasticcio-bandierine, che vai a vedere il suo profilo e di solito si occupa di calcio e polenta taragna. Mah. Del resto, quelli che si occupano di geopolitica sui giornali e in tivù, e loro sì dovrebbero avere le loro fonti segrete a Rostov sul Don, non è che hanno prodotto di meglio, quindi…
Naturalmente non voglio occuparmi della questione in sé, della quale sappiamo poco e nulla, possiamo fare solo vaghe ipotesi, non è quello il punto. Il punto è il matrimonio ormai indissolubile tra emotività dei media e tifoserie, per cui una notizia (esempio: “Prigozhin marcia verso Mosca”) diventa all’istante, dopo nemmeno due secondi, una costruzione barocca di esultanze, o panico, un arzigogolo di teorie ultimative e definitive, di sentenze inappellabili, che saranno ovviamente riviste e limate il giorno dopo. Per un breve istante, nella notte del finto golpe, è parso che tutto fosse finito, finita la mattanza in Ucraina, finite le bombe, i morti, le avanzate, le ritirate, tutto finito, hurrà! Il pensiero debole e binario, unito all’afflato della speranza trasfigurata in certezza, unito all’ansia di dire “avevo ragione”, ha trasformato i media in una specie di calderone ribollente di cazzate. In più, ed è il dato più divertente, tutti leggono ogni avvenimento, ogni fatto di cronaca, ogni novità – non parlo solo della guerra, ma di tutto quanto – alla luce del proprio schieramento e della propria curva. Chi era cattivo diventa buono, chi era buono diventa cattivo, magari si è sostenuto A fino a ieri, ma oggi conviene dire B. Putin era un macellaio potentissimo che se non lo fermiamo “Arriverà fino a Lisbona” (cit.), e oggi è debole coi i piedi di argilla; come quando la Russia doveva fare default in due settimane, ma poi no, eccetera eccetera.
È vero che la prima vittima della guerra è la verità, ma qui un po’ si esagera, perché la verità diventa variabile, elastica, tirata di qua e di là a seconda delle convenienze. Tutto molto ridicolo, se uno non pensasse che l’informazione è un bene primario, che serve per creare cittadini migliori, e invece al momento genera soltanto curve da stadio isteriche e mutevoli. Si legge un titolo, magari furbetto o sbagliato, lo si capisce male, ci si costruisce una tesi, si trovano dei nemici, e oplà, il gioco è fatto. Il Cai – esempio di scuola sempre di questi giorni malandati – non ha mai detto di voler togliere le croci sulle montagne, era solo un titolo di Libero. Ma ecco Farfallina71 in trance agonistica che promette di andarle a rimettere lei, più grosse di prima, sulle cime innevate. Chapeau!

Travagliato Figliuolo

 

Quante volte, Figliuolo?
di Marco Travaglio
Senza offesa per lui e per i ventisette nastrini che gli piastrellano il lato sinistro dell’uniforme, zavorrandolo a terra contro le folate di vento, il generalissimo Francesco Paolo Figliuolo ci ricorda per versatilità un personaggio del film di Carlo Verdone Troppo forte: l’avvocato Gian Giacomo Pignacorelli in Selci, interpretato da Alberto Sordi, che di punto in bianco dimentica l’arte forense e diventa un ballerino-coreografo, passando dalla toga alla tutina aderente, dalle arringhe ai passi di danza sull’aria di Oci Ciornie e abbandonando gli attoniti clienti, a cominciare da Verdone-Oscar Pettinari che neppure riconosce: “Calmati, giovane, fammi riflettere un momentino… ma chi sei: il fruttarolo?”. Le due anziane sorelle fanno coraggio al giovanotto ricordando “quando faceva il dentista e cavò tre denti al fruttivendolo che gli fece causa perché erano tutti sani”. Alle pareti, le foto delle sue precedenti incarnazioni accanto a papa Giovanni e a Togliatti. Analogamente, nel breve volgere di due anni, Penna Bianca è passato da comandante della logistica dell’Esercito a commissario straordinario contro il Covid ad autore di un’autoagiografia scritta a quattro mani con Severgnini (o forse a sei con Toto Cutugno: Un italiano) a stratega del Comando Operativo di Vertice Interforze (dal Covid al Covi) sul fronte ungherese a candidato del Foglio come commissario al Pnrr all’ultimo incarico agguantato giusto ieri: commissario sempre più straordinario all’alluvione e alla ricostruzione in Emilia-Romagna.
A parte i rischi di personalità multipla e di crisi di identità, il vero pericolo è che il nostro eroe multiuso svolga ciascun incarico con la stessa enciclopedica approssimazione con cui espletava gli altri. O, peggio, che confonda una missione con l’altra: tipo prosciugare la melma con le siringhe e le mascherine avanzate dalla campagna di Covid, o bandire gli appalti a cannonate, o scambiare le ruspe e le betoniere con i tank e le rampe da missili, o spendere senza controlli e rendicontare con un paio d’anni di ritardo, condendo il tutto con le sue frasi secche e perentorie da colonnello Buttiglione che si portano su tutto: “Sono abituato a vincere”, “Svoltiamo”, “Acceleriamo”, “Cambiamo passo”, “Chiudiamo la partita”, “Fuoco a tutte le polveri”, “Diamo la spallata”, “Stringiamci a coorte” (incurante dell’infausta rima), “Fiato alle trombe” (libera citazione da Mike Bongiorno), “Non siamo ancora a régime (“E – chiosò Maurizio Crozza – stiamo andando a pùttane”). Sempre sperando che avesse torto Aldous Huxley, quando diceva: “Ci sono tre tipi di intelligenza: l’intelligenza umana, l’intelligenza animale e l’intelligenza militare”.

L'Amaca


Gli inciampi della storia
DI MICHELE SERRA
Circola un video (ulteriore) delle milizie cecene che presidiano un ponte con barbe lunghissime e occhi fiammeggianti. Si presta a ogni genere di parodia satirica (ridateci i Monty Python!) ma è purtroppo di bruciante evidenza: ci dice che non è tanto la democrazia, è la modernità a essere messa a repentaglio.
Molte delle notizie di questa guerra rimandano a tempi che precedono non dico i Lumi, ma gli Stati Nazionali. Ci sono i capitani di ventura, gli eserciti mercenari, gli oligarchi che si intestano (quattro amici al bar) la Siberia e il Cremlino, i pope che maledicono il nemico corrotto, i pope dirimpettai che ricambiano. C’è il favoloso Prigozhin, che viaggia con forzieri di banconote e usa lo smartphone come un mitra. E l’opaco Putin, dallo sguardo inesistente, che incarna con perfezione cinematografica l’impassibilità millenaria del potere, che si nutre di carne da cannone, di carceri piene e delle bugie della propaganda: tutto il resto è solo vuoto e morte.
Tutti maschi guerrieri (forse anche Zelensky, che è un attore, è sedotto dal copione), per trovare una donna bisogna aspettare i telegiornali con la speaker che elogia, commossa e patriottica, gli uomini in uniforme, la guerra è, tecnicamente prima che ideologicamente, il gioco del maschio. Le barbe cecene ne sono l’icona, come le stelle filanti a Carnevale.

Non si sa come ne usciranno, non si sa come ne usciremo. Può darsi che la democrazia e la modernità siano state solo l’illusione di un paio di secoli, al massimo tre. Può darsi invece che le milizie cecene saranno sconfitte dai Monty Python: ma è un’ipotesi molto ottimista. Fossi lo sceneggiatore, la scena madre sarebbe che i guerrieri, durante l’assalto, inciampano nelle loro barbe.

Nell'abisso

 

Circondato da Maalox e Citrosodina, ieri sera ho guardato la puntata del fantastico Report, una delle poche trasmissioni che onorano la tv, incentrata sullo scandalo autostrade: un coacervo di nefandezze, di sciacalli infami, di marchettari, tutti dediti alla ricerca di un sempre più gigantesco lucro. 

Venire a sapere che Castellucci, l'uomo della Famigliola che fa pure i maglioni - boicottatela! Non comprateci più una mazza, portatevi i caffè nel thermos e non entrate dentro i loro autogrill! Sfanculate la famiglia veneta che il giorno dopo il crollo del ponte, festeggiava il Ferragosto nella villona di Cortina!! - prese un premio risultato nell'anno in cui crollò il ponte di Genova, per un importo di 3.700.000 euro, uno schiaffo alla dignità nazionale, e che normalmente riceveva uno stipendio che gli faceva agguantare 14mila euro al giorno, 400mila al mese, 4,8 milioni all'anno, e che quando terminò il rapporto questo ribaldo venne congedato da Autostrade con una buonuscita di 13.125.000 euro, mi fa venire voglia di far minzione ad ogni casello che incontrerò urlando "Benetton vaffanculo!" 

E c'è pure dell'altro: i Benetton dal 2010 in poi hanno guadagnato da Autostrade circa 6 miliardi! Sei miliardi gli abbiamo dato, grazie alla concessione aperta da Prodi e blindata dal Mausoleante Disastro Nazionale, che promulgò durante uno dei suoi sciagurati governi una leggina, unica nel suo genere, in cui veniva messo nero su bianco il fatto che nel caso vi fosse stata un'inadempienza contrattuale, anche grave, e la concessione fosse stata annullata, lo stato avrebbe dovuto risarcire i Benetton per tutti gli anni della durata della stessa, che sarebbe scaduta nel 2038! 

E per finire ecco arrivare il tanto vituperato Toninelli che molti dileggiarono all'inverosimile: ebbene, fu l'unico a intraprendere la strada per buttare fuori i balordi dalle autostrade; avrebbe voluto annullare la leggina del Pregiudicato in Mausoleo, ed era intenzionato a farlo; solo che cadde il Conte 1 e nel Conte 2 il Bibitaro non chiamò più Toninelli e l'abrogazione delle norma rimase nel cassetto. Così oggi i Benetton hanno ricevuto da Cassa Depositi e Prestiti ben 8,18 miliardi di euro per uscire da Autostrade! Quindi ricapitolando: dopo non aver speso un cazzo in manutenzione grazie a quel ribaldo di Castellucci, ben sapendo che il ponte Morandi era a rischio grave di crollo, dopo essersi rimpinzati allegramente di nostri miliardi di euro, ne hanno presi otto per uscire dalla società Autostrade! 

E poi ci vengono a rompere i coglioni se non paghiamo in tempo multe o spazzatura! E ci ammaliano, stordendoci, con nenie e filastrocche sul senso dello Stato, sui doveri del cittadino, su promesse di riduzioni di tasse! Ma vaffanculo! 

Nel privato una gestione così miserrima provocherebbe una gragnuola di calci in culo e la riduzione in povertà degli idioti che per ipotesi commettessero una serie così ignobile di pacchianate ai danni della collettività. 

Nel pubblico questi gnomi dell'umanità continuano a vivere alla grande alla faccia nostra, e in molti casi sono agevolati all'incensazione quali ottimi governanti. 

Aborro l'idea di dimenticare! E spero che Castellucci sia condannato a una grave pena che lo porti in galera per il resto della sua vita di per sé già indecorosa. Ma come in tutte le tragedie nazionali, gli azzeccagarbugli che attualmente sta foraggiando, lo salveranno dalla cella. E chissà che non ce lo ritroveremo prima o poi in politica. Non mi stupirei più di tanto, visto l'andazzo mefitico. Una nazione che non protegge i propri martiri, come quella quarantina assassinata dal crollo del ponte, non è una nazione seria. Né sana.  

Daje!

 

Il cheerleader
di Marco Travaglio
Il pover’ometto che è passato in nove anni dal 40,8 al 2% ha partorito, con comprensibili sforzi, un pensierino: “Chiederemo in Vigilanza di sapere se chi va in tv a difendere Putin (i personaggi alla Orsini/Travaglio) sono mai stati pagati da Carta Bianca e dalle altre trasmissioni del servizio pubblico. Se l’invasore deve essere difeso dagli invasati, va bene, ma non con i nostri soldi”. A parte il fatto che, nella lingua italiana (non sappiamo in quella saudita), a un soggetto singolare – “chi va in tv” – non dovrebbe seguire un verbo al plurale – “sono mai stati pagati” – e che nelle democrazie è buon uso retribuire chi lavora (non sappiamo in Arabia Saudita), né io né Orsini abbiamo mai difeso Putin. Se però il tapino volesse dedicarsi a un cheerleader di Putin, gli suggeriamo un certo M.R.. Sotto il suo governo, la dipendenza italiana dal gas della Russia (sotto sanzioni dal 2014 per aver invaso la Crimea) aumentò a dismisura. E così le esportazioni d’armi a Mosca: fu lui ad autorizzare la vendita di 94 blindati Lince Iveco per 25 milioni in barba all’embargo. Il 5 marzo 2015 incontrò Putin a Mosca: “La cooperazione Russia-Italia prosegue attivamente nonostante il contesto difficile” (era il suo modo di non nominare l’invasione della Crimea). E disse alla Tass che l’Ucraina doveva concedere l’autonomia al Donbass come l’Italia all’Alto Adige. Il giorno prima aveva visto a Kiev il presidente ucraino Poroshenko, che gli aveva chiesto di affrontare con Putin il caso di una pilota detenuta a Mosca, ma invano. Il quotidiano russo Vedomosti scrisse che la sua visita aveva rotto “l’isolamento internazionale di Putin”.
Il 10.6.2015 il nostro eroe ricevette Putin all’Expo di Milano: “Grazie di essere qui, la accolgo con grande gioia… Lavoreremo insieme per ripartire dalla tradizionale amicizia Italia-Russia” per “un futuro ricco di energia per il pianeta e per la vita”. Il 17.11.’15, alla domanda “Possiamo fidarci di Putin?”, rispose: “Faccio una risposta da twitter: sì. Nessuno nella comunità internazionale può pensare di costruire l’identità europea contro il vicino di casa più grande considerandolo nemico… Sarebbe assurdo alzare una cortina di ferro tra Europa e Russia”. Il 17.6.’16 rivide Putin al Forum Economico di San Pietroburgo e chiese alla Ue di ridiscutere le sanzioni: “Russia ed Europa condividono gli stessi valori”. Gran finale: “Avete notato? Oggi il presidente Putin è stato più europeista di me! Spasiba!”. Putin ricambiò: “Complimenti, lei è un grande oratore. L’Italia può andare fiera di un premier così”. E gli diede un passaggio sulla sua auto blindata. Ora noi non sappiamo se il cheerleader di Putin percepisse la giusta mercede per i suoi servizietti. Ma temiamo che, eccezionalmente, lavorasse gratis.

L'Amaca

 

La crocifissione della realtà

DI MICHELE SERRA

Come si fa a scatenare una polemica contro una cosa mai detta? Non sto parlando di una frase decontestualizzata (sui social la decontestualizzazione è materia prima di molte polemiche), né della distorsione malevola di una cosa davvero detta. Sto parlando di una cosa mai detta, eppure spacciata per detta.
I fatti. In un convegno all’Università Cattolica un vescovo, monsignor Sanchez, citando il Papa, dice che usare la croce come simbolo identitario significa banalizzarla. Dunque è meglio non erigere nuove croci sulle vette alpine. È presente il direttore editoriale del Club Alpino, Marco Albino Ferrari, che si dice d’accordo. È proprio il Cai che ha cura delle croci di vetta e si occupa della loro manutenzione perché “rappresentano un elemento culturale delle nostre montagne che va preservato”. Ma è giusto non aggiungerne altre, in sintonia con l’orientamento della Chiesa.
Come sia possibile che da questo scambio di opinioni sia sortito, su un quotidiano di destra, il titolo “Il Cai è contro le croci”, è un mistero. Ma il peggio è che questo titolo, e altri simili, abbiano indotto un vicepresidente del Consiglio e un ministro a rilasciare le seguenti dichiarazioni. Salvini: “Dovrete passare sul mio corpo per togliere un solo crocifisso da una vetta alpina”.
Santanchè: “Resto basita dalla decisione del Cai di togliere le croci dalle vette delle montagne senza aver comunicato nulla al ministero”.
Da ridere, ma anche da piangere. Non hanno, Salvini e Santanchè, portavoce e addetti alla comunicazione che li assistano, e li proteggano da se stessi? E più in generale, come accidenti funziona il sistema politico-mediatico italiano?

Normale essere geni!

 

Il progetto di Università di Pisa e Normale
La batteria quantistica che si ricarica all’istante Così una start up ha reinventato la pila

DI RICCARDO LUNA

Questa è una storia che ci porta in un futuro che non abbiamo ancora neanche immaginato: “Nella terra dei qubit”. Un luogo in cui le batterie si caricano quasi istantaneamente. Ed anzi, più sono grandi e prima si caricano. Sono batterie quantistiche che prenderanno il posto di quelle chimiche, consegnando l’invenzione della mitica pila di Alessandro Volta ad un glorioso passato remoto. Questa è anche la storia di una goliardica rivalità che ha improvvisamente cessato di esistere: quella fra i ricercatori di due università pisane, la statale e la Normale, che hanno scelto di unire le forze — in questo caso i cervelli — per provare a cambiare il mondo. Ed è una storia che non sarebbe stata possibile se l’Italia sul fronte dell’innovazione non avesse finalmente battuto un colpo creando gli strumenti — e quindi l’ecosistema — che hanno reso possibile la nascita di una startup che dieci anni fa sarebbe rimasta in un cassetto e invece oggi è una azienda con due milioni e settecentomila euro di investimento appena incassati per realizzare il prototipo che può cambiare tutto.

Questa è la storia di Planckian, un nome che è un chiaro omaggio a Max Planck, uno dei padri della meccanica quantistica; ma “planckiani” sono detti anche alcuni metalli con proprietà che ancora non riusciamo a spiegare. Ecco, diciamolo subito: non vi sentite in colpa se di questa storia non capirete proprio tutto. Del resto un fisico da Nobel come Richard Feynman una volta disse: «Penso si possa tranquillamente affermare che nessuno capisce davvero la meccanica quantistica». Siamo perdonati.
Ma la forza di questa storia invece la capiscono tutti. L’inizio è il marzo 2018, quando sulla più autorevole rivista scientifica di settore, Physical Review Letters , vengono pubblicati i risultati di una ricerca sulle batterie quantistiche. Tra gli autori c’è Marco Polini, rientrato all’università di Pisa, dove aveva studiato, dopo impegni negli Stati Uniti e in Inghilterra. Un cervello di ritorno, lo chiameremmo oggi. L’idea fondamentale, l’intuizione da cui tutto è partito, è questa: «L’invenzione della pila da parte di AlessandroVolta, che ha posto le fondamenta dell’era elettrica, gestisce l’energia sulla base di principi elettrochimici che hanno dei limiti. Il primo è l’esaurimento, in forza del processo di decadimento degli elementi chimici che la compongono. Allo stesso modo, il processo di carica è, in termini assoluti, “lento”, perché vincolato al tempo necessario per lo svolgimento delle reazioni elettrochimiche». Con la fisica quantistica, tutto potrebbe cambiare.

Polini inizia a lavorarci con Vittorio Giovannetti, un collega della Scuola Normale Superiore, anch’egli rientrato in patria dopo un periodo al Mit di Boston. A ottobre del 2018 arriva il secondo paper scientifico sul trasferimento di energia nelle batterie quantistiche. Per noi profani lo spiegano così: «La batteria quantistica è un dispositivo costituito da qubit. I qubit sono particelle fisiche nelle quali è possibile separare due stati caratterizzati da differenti livelli di energia. Se i qubit sono “arrangiati” in una specifica architettura, è possibile controllarne il comportamento. Questo processo dinamico rende possibile caricare la batteria in un tempo che si riduce via via che aumenta il numero dei qubit». Lasciate per un attimo da parte lo sforzo di immaginare cosa sono i qubit: qui stiamo parlando di creare batterie che si caricano in un tempo infinitamente inferiore. Una rivoluzione, se avrà successo.

La fortuna di Polini e Giovannetti è che in quei mesi ha iniziato a operare Enea Tech, una fondazione che ha la missione di scovare nei laboratori tecnologie dirompenti in grado di dar vita ad aziende “disruptive”. Siamo nel mondo del deep tech , tecnologie complesse che nascono in ambito universitario; e del tech transfer , il processo che le porta a diventare imprese. Enea Tech è guidata dal suo ideatore, Salvo Mizzi, uno dei padri dell’ecosistema delle startup nostrane. Un giorno nel radar di Mizzi finisce uno dei massimi esperti di meccanica quantistica, Simone Severini, capo del progetto del computer quantistico di Amazon a Seattle. «Mi ha detto: la cosa più fulminante che ho visto sta a Pisa». Mizzi si entusiasma e coinvolge due donne di peso: prima Anna Amati, che guida Eureka!, un fondo di venture capital specializzato in deep tech; e poi Claudia Pingue, che da poco è approdata a Cdp Ventures per creare la rete del tech transfer nostrano. Nel frattempo un governo decide inopinatamente di sbarazzarsi di Mizzi e ridurre Enea Tech a ben poca cosa, ma ormai la macchina è partita. Per la nascita di Planckian, nel 2021, manca solo un ingrediente: un amministratore delegato, da Enea Tech arriva Michele Dallari, anch’egli tornato in Italia dopo un’esperienza con le Nazioni Unite in Africa. E arriviamo al round di oggi, sottoscritto anche da Exor Ventures oltre che da un gruppetto di business angels che per primi hanno messo pochi, fondamentali soldi per far arrivare la startup fin qui.
Ora parte la costruzione del prototipo. Ci vorranno due anni per la prima batteria quantistica. Se funziona cambierà il mondo.

Rumiz e il Pronto

 

Sdraiato su un letto al pronto soccorso ho visto il lato bello della sanità pubblica
Da una barella è più facile apprezzare i pregi di un sistema solidale e democratico sempre più minacciato
DI PAOLO RUMIZ

Per mettere a fuoco un oggetto, a volte è sufficiente cambiare inquadratura. Per capire fino in fondo la trappola del liberismo spinto, basta assumere la posizione supina; lasciare per qualche giorno la tribù dei Verticali ed entrare in barella in un pronto soccorso. In un ingorgo di lettighe in attesa, aspettando il mio turno nell’ospedale di Trieste, ho assistito torcendo il collo allo spettacolo di un esercito di medici, infermieri e personale sanitario sfinito dai turni e travolto da una perenne emergenza, che, nonostante tutto, non mi faceva sentire un numero, si preoccupava di me, mi chiamava per nome senza conoscermi. Una confraternita dell’accoglienza davanti alla quale non ero un cliente ma venivo investito del rango di cittadino avente diritto.

Da orizzontale, avvertivo la miracolosa tensione positiva che quel caos infernale riusciva non so come a esprimere. In un momento in cui l’Europa lasciava morire in mare migliaia di innocenti e tirava attorno a sé linee di filo spinato, sentivo di essere approdato a un porto protetto che non andava mai in vacanza, funzionava 24 ore su 24, 365 giorni all’anno e non poteva respingere nessuno. Il monumento a un sistema solidale, universalistico, che non fa distinzione di reddito, razza e provenienza. La negazione della cultura dello scarto.
È solo quando ti scopri inerme che capisci. Nel primo camice bianco, verde o azzurro che ti si avvicina, vedi lo Stato nella sua massima espressione, la società di diritto che ci è costata tante battaglie. E quella sera, in pronto soccorso, mentre la presidente del consiglio parlava delle tasse come «pizzo di stato», sentivo crescere in me l’orgoglio patriottico di tenere in piedi, pagando quelle tasse, sistemi che garantivano la civiltà del mio Paese — scuola, strade, sicurezza, ospedali — e la voglia di lottare per difenderli. Ero spiaggiato su una battigia dove la tempesta spingeva centinaia di vite, ma a differenza di un migrante mi sentivo accolto da un presidio di umanità, libertà, equità, solidarietà. Una trincea di resistenza alla liquidazione del welfare, oltre che alla mercificazione della vita.

Era appena arrivata la notizia che la Regione Friuli-Venezia Giulia, dopo aver annunciato un forte incremento di spesa in favore della sanità privata, bloccava le assunzioni del personale socio- sanitario pubblico e il turn-over per decine di amministrativi del settore a Trieste e Gorizia. Mi chiedevo: chi avrebbe fatto il loro lavoro? I medici? Gli infermieri? Come coniugare, in quelle condizioni, l’assistenza, la tecnologia e l’umanizzazione delle cure? Come meravigliarsi che i tempi di attesa per gli esami di malattie anche gravi si stiano allungando a dismisura, favorendo il privato e abbandonando al loro destino i malati non abbienti?
Dalla mia postazione distesa pensavo: come possiamo essere complici di un simile smantellamento? In poche ore ero stato preso in cura da un affascinante sistema complesso: un laboratorio di analisi che aveva lavorato con controlli di qualità, la Radiologia, l’ortopedico, l’anestesista, il chirurgo, gli infermieri di reparto, quelli di sala operatoria e quelli della recovery room, poi di nuovo il reparto, i fisioterapisti, gli operatori socio-sanitari, gli addetti alla pulizia. Decine di professionisti, spesso mal pagati, talvolta demotivati, che il settore privato convenzionato è pronto a portarsi via in qualsiasi momento offrendo talvolta stipendi migliori.
Ero appena tornato dalla Germania con una pessima sensazione. Ore di ritardi dei treni, coincidenze saltate, aeroporti in tilt: avevo vissuto il crollo di un mito, quello di un sistema trasportistico modello nel cuore del Continente. Amici francesi nel frattempo si lamentavano con me per lettera del collasso di un sistema sanitario pubblico disumanizzato («En France il vaut mieux ne pas tomber malade»), mentre mail sconsolate da Madrid descrivevano scuole a pezzi, con insegnanti aggrediti da genitori o allievi fuori di testa. Il sistema Thatcher, che aveva portato l’Inghilterra alla rovina, trionfava e faceva danni ovunque.

Spinto da un barelliere, viaggiavo per corridoi e stanze illuminate al neon, seguendo una lineaa zigzag di soffitti, non di pavimenti, mentre camici di diverso colore si affacciavano nel mio campo visivo dall’alto, come dall’orlo di un pozzo. Eppure, quanto più lucidamente vedevo il mondo da quella posizione svantaggiata. Sentivo che l’Europa tutta, distratta dagli eventi in Russia e Ucraina, era sotto attacco nelle sue conquiste più sacre, mentre la gente non votava più o, peggio, votava proprio gli smantellatori del welfare. Nelle insonnie d’ospedale, sentivo nel buio il sordo rosicare di un tarlo che corrodeva le fondamenta di quel mondo. Tutto appariva chiaro: bastava star lontani per un attimo da un bombardamento mediatico ormai governato dai like e non del peso reale dei fatti, dove tutto — persino la canonizzazione di Berlusconi o il crepuscolo di Putin — assumeva contorni di tragicommedia e dove la mobilitazione per salvare cinque turisti ricchi in cerca del Titanic surclassava scandalosamente quella per i 700 naufragati nell’Egeo.

Emergenza immigrazione, non si parla d’altro. Ma senza stranieri la macchina sanitaria si ferma. Anche questo appare più evidente al malato che al sano. In Ortopedia incontri sanitari serbi, caraibici, argentini, africani del Camerun, orchestrati in un ensemble capace di coniugare efficienza, puntualità e buon umore, fondamentale per il morale del malato. E poi gente di tutt’Italia, con storie personali e familiari diversissime, con la fatica di percorsi di inserimento da seguire e ventagli di competenze da acquisire. «Per non parlare — mi dicono — delle giovani professioniste che sono anche mamme, con affitto, mutui e figli che crescono, che sarebbe bello studiassero a lungo, perché la cultura rende liberi».
Problemi? Certo che ci sono, riconosce un medico. «Affrontarli in emergenza non aiuta. Alcune rigidità organizzative sono un problema. Un processo di informatizzazione inadeguato che non rende immediato individuare le inefficienze e i rischi e che costringe operatori esausti e frustrati a compilare a penna chili di carte, i cui contenuti non sono poi sempre fruibili. Programmi di miglioramento basati su indicatori parziali e asimmetrici che, partendo dagli effetti finali e non dalle cause, allungano i tempi d’attesa in pronto soccorso o per interventi urgenti».
Il privato accreditato è il diavolo? «No. È complementare, ed è direi indispensabile dentro canoni di monitoraggio costante. Ma non può però essere un’insidia per la sopravvivenza del pubblico, perché è nel pubblico che l’equità e la solidarietà si esprimono sempre. È nel pubblico che l’urgenza e l’emergenza dovranno continuare ad avere risposte qualificate, tempestive, tecnologicamente avanzate in organizzazioni efficienti armoniche serene e umanamente attente».

Quanto si impara in un luogo come la corsia, che si sottrae alla privatizzazione del tempo, resiste alla tirannia degli algoritmi, e ti spalanca il varco più diretto di accesso all’Uomo in un laboratorio di relazione unico, al punto che talvolta i degenti sembrano più vitali dei sani. Uno spazio chiuso dove nasce un cameratismo nuovo, dove chi sta meno male sente la responsabilità di chi sta peggio, non per altruismo ma per un senso di sopravvivenza che non può essere che solidale. La notte specialmente. Un temporale imminente che propaga di stanza in stanza un’onda di lamento e di inquietudine. Un vicino di letto che bisbiglia versi di Virgilio in latino per vincere il dolore. Un mucchietto di ossa fasciate di bianco da cui esce un braccio che cerca di afferrare in alto qualcosa che non c’è. Il letto accanto al tuo che viene portato via in silenzio perché lì c’è qualcuno che ha le ore contate.
A volte la solidarietà nella confraternita dei Distesi fa sì che a volte ci sia più sorriso in corsia che fuori. A volte accade che i Verticali che approdano al capezzale dei degenti appaiano dei visitors balbettanti, capaci a malapena di magre parole di circostanza, con un occhio incollato allo smartphone e soprattutto impossibilitati a immaginare se stessi malati, distesi a loro volta su un lettino e quindi capacissimi (come è accaduto in Lombardia e Friuli) di rivotare i demolitori della sanità pubblica pronti ad alzarsi gli stipendi e a finanziare iniziative megalomani tagliando la spesa corrente.

lunedì 26 giugno 2023

Possibile?

 


E quindi ci vorreste far credere che il mondo è restato col fiato sospeso perché un bandito irrorato di potere da un assassino ha deciso di puntare la prua dei suoi scagnozzi verso Mosca? 

Che questo brigante avrebbe potuto dar scacco matto all'umanità? 

Perché una cosa è chiara: ci sono seimila, forse 9mila, testate nucleari in Russia. E se cadesse l'assassino potrebbero finire in mano a nani barbari che non avrebbero nessuna remora a farne esplodere qualcuna. 

Perché questo mondo così prossimo alla distruzione, tanto impegnato nello spionaggio, è vulnerabilissimo come mai nessun'altra epoca lo fu. 

Sarà stato il pazzo ad innescare l'ex cuoco per saggiare la fedeltà dei suoi generali, oppure il bandito credeva che i militari lo avrebbero appoggiato. Non ha importanza. 

Quello che lede la nostra intelligenza è vedere uno stato enorme che si credeva impenetrabile, titanico, finire in mano a dei ballerini della ragione, a una squadraccia di mercenari tronfi di sostanze illecite che per qualche ora hanno raggelato gli uomini di buona volontà sparsi, ancora si suppone, in ogni angolo di questo martoriato paese. 

E' l'ora di finirla con questi idioti!

E' ora che la guerra cessi in ogni angolo, e che quel comico ingalluzzito da un'Europa prona ai voleri di un rimbambito americano, la smetta di rompere i coglioni ai quattro venti perché prima o poi l'assassino sparerà un confetto di quelli che lasceranno segni indelebili per migliaia di anni. 

E allora vaffanculo a tutti coloro che credono ancora che con la violenza si possa scardinare le mire espansionistiche di un terrorista assassino russo! 

Basta! Che si siedano ad un tavolo e trovino una soluzione. 

L'aggredito ha i suoi diritti. L'aggressore ha i suoi errori da scontare. 

Vogliamo vivere in serenità sulla Terra, godere del poco tempo che abbiamo a disposizione e vedere i cultori della guerra precipitare in un pozzo nero. 

Ci avete rotto i coglioni con i vostri giochi da psicolabili! 

Tomaso e il dipartito

Lutto per B. nelle università, l’apoteosi della sudditanza

Chi dice che le bandiere dell’ateneo per stranieri di Siena andavano abbassate perché “non si fa politica”, non capisce che le cose stanno all’inverso

du Tomaso Montanari

L’interrogazione presentata da un cospicuo numero di parlamentari della Lega alla ministra dell’Università e della ricerca per chiedere “che si accertino le responsabilità” di chi scrive (nella scelta di non abbassare le bandiere di una università in ossequio al lutto nazionale imposto dal governo Meloni per la morte di Silvio Berlusconi) intende “assicurare che l’università resti un luogo di apprendimento e convivialità apartitico e apolitico”. Sorvoliamo sull’evocazione tragicomica della convivialità (forse pensano al declino delle mense universitarie?), e concentriamoci sul rapporto università-politica.
Da un punto di vista formale, la questione sta esattamente al contrario di come è stata raccontata da un sistema mediatico nutrito di ignoranza e fondato sulla servitù volontaria. Nessuna legge prescrive il collocamento delle bandiere a lutto sugli edifici pubblici in occasione del lutto nazionale: lo fa una circolare della Presidenza del Consiglio del 18 dicembre 1992, richiamata da quella della Presidenza Meloni del 13 giugno 2023. Ma la legge 168 del maggio 1989, attuando l’autonomia universitaria sancita dalla Costituzione, stabilisce che per le università “è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare”. Sta dunque ai rettori e agli organi di governo delle università stabilire, di volta in volta, se partecipare o meno al lutto nazionale attraverso il simbolo delle bandiere a mezz’asta: mi chiedo quali siano le ragioni che hanno convinto tutti gli altri rettori e rettrici ad abbassare le bandiere, aderendo al lutto più smaccatamente politico della storia della Repubblica, dedicato proprio a colui cui si deve (come ha ricordato Francesco Pallante qui sul Fatto) il massacro del sistema universitario italiano.
Ma si sbaglierebbe a pensare che coloro che guidano le università italiane abbiano inteso proporre a chi studia il modello di uomo pubblico incarnato da Berlusconi (anche se proprio questo, purtroppo, dicevano quelle bandiere calate): il problema è assai più profondo, e più grave. Ed è la totale sudditanza dell’università al potere politico, nazionale e locale.
Le passerelle universitarie dei potenti del momento (ricoperti di lauree ad honorem e invitati a tenere improbabili lectiones magistrales) ne sono solo la manifestazione più grottesca, ma la sostanza è che, dopo aver ridotto alla fame il sistema universitario con un continuo definanziamento, il potere politico ha iniziato a eroderne l’autonomia con crescente successo. A partire dalla ricerca: l’università ha accettato che essa sia valutata da una agenzia (l’Anvur) i cui vertici sono nominati dal potere esecutivo, e che opera secondo criteri la cui logica ultima non è scientifica ma appunto politica. Basti citare l’obbligo di classificare i cosiddetti ‘prodotti della ricerca’ in fasce che non avrebbero dovuto ospitare più del 25% dei testi e non meno del 5%: come ha scritto Maria Chiara Pievatolo, “se adottassimo una simile regola per gli esami di profitto, ci troveremmo a dire: ‘Lei meriterebbe 30, ma dovremo darle un voto più basso perché abbiamo già attribuito un voto di fascia superiore al 25% dei candidati all’appello’”. La stessa studiosa commenta la situazione della valutazione prendendo atto che “Caesar est supra grammaticos”, cioè che il potere politico è riuscito a fare quel che voleva fare un imperatore tardo-medioevale: comandare anche sulle regole grammaticali. In questo caso, sulla grammatica elementare della scienza: che infatti si vede costretta, a causa di queste politiche, a favorire le ricerche più conformiste e meno innovative.
Anche peggio vanno le cose per l’altra missione fondamentale dell’università, la didattica: e qua si deve citare il silenzio delle istituzioni universitarie sul progetto di autonomia differenziata che mira a dare alla Regione Lombardia nientemeno che il “coordinamento delle università lombarde”, e in generale al potere politico delle tre regioni-locomotiva (Lombardia, Veneto ed Emilia) un ruolo determinante nella creazione di corsi professionalizzanti al servizio del territorio regionale.
Come anche con il Pnrr, e con altri infiniti provvedimenti, si stabilisce che di fatto i “portatori di interesse” del sistema universitario non sono i cittadini, ma i vari interessi economici legati alla politica. E che, di conseguenza, l’università non deve essere lasciata libera di elaborare idee e progetti per costruire una società diversa, ma deve essere messa al servizio della società come è oggi: così, di fatto, annullandone la funzione ultima.
Chi, dentro e fuori dell’università, dice che le bandiere del mio ateneo andavano abbassate perché nell’università non si fa politica, dovrebbe riflettere su tutto questo e su moltissimo altro: prendendo atto che le cose stanno esattamente all’inverso. E cioè che le bandiere di tutte le altre università sono automaticamente scese proprio perché da troppo tempo ci siamo abituati a non esercitare il pensiero critico, in una triste sudditanza al potere politico.
Lutto per B. nelle università, l’apoteosi della sudditanza

Chi dice che le bandiere dell’ateneo per stranieri di Siena andavano abbassate perché “non si fa politica”, non capisce che le cose stanno all’inverso

du Tomaso Montanari

L’interrogazione presentata da un cospicuo numero di parlamentari della Lega alla ministra dell’Università e della ricerca per chiedere “che si accertino le responsabilità” di chi scrive (nella scelta di non abbassare le bandiere di una università in ossequio al lutto nazionale imposto dal governo Meloni per la morte di Silvio Berlusconi) intende “assicurare che l’università resti un luogo di apprendimento e convivialità apartitico e apolitico”. Sorvoliamo sull’evocazione tragicomica della convivialità (forse pensano al declino delle mense universitarie?), e concentriamoci sul rapporto università-politica.
Da un punto di vista formale, la questione sta esattamente al contrario di come è stata raccontata da un sistema mediatico nutrito di ignoranza e fondato sulla servitù volontaria. Nessuna legge prescrive il collocamento delle bandiere a lutto sugli edifici pubblici in occasione del lutto nazionale: lo fa una circolare della Presidenza del Consiglio del 18 dicembre 1992, richiamata da quella della Presidenza Meloni del 13 giugno 2023. Ma la legge 168 del maggio 1989, attuando l’autonomia universitaria sancita dalla Costituzione, stabilisce che per le università “è esclusa l’applicabilità di disposizioni emanate con circolare”. Sta dunque ai rettori e agli organi di governo delle università stabilire, di volta in volta, se partecipare o meno al lutto nazionale attraverso il simbolo delle bandiere a mezz’asta: mi chiedo quali siano le ragioni che hanno convinto tutti gli altri rettori e rettrici ad abbassare le bandiere, aderendo al lutto più smaccatamente politico della storia della Repubblica, dedicato proprio a colui cui si deve (come ha ricordato Francesco Pallante qui sul Fatto) il massacro del sistema universitario italiano.
Ma si sbaglierebbe a pensare che coloro che guidano le università italiane abbiano inteso proporre a chi studia il modello di uomo pubblico incarnato da Berlusconi (anche se proprio questo, purtroppo, dicevano quelle bandiere calate): il problema è assai più profondo, e più grave. Ed è la totale sudditanza dell’università al potere politico, nazionale e locale.
Le passerelle universitarie dei potenti del momento (ricoperti di lauree ad honorem e invitati a tenere improbabili lectiones magistrales) ne sono solo la manifestazione più grottesca, ma la sostanza è che, dopo aver ridotto alla fame il sistema universitario con un continuo definanziamento, il potere politico ha iniziato a eroderne l’autonomia con crescente successo. A partire dalla ricerca: l’università ha accettato che essa sia valutata da una agenzia (l’Anvur) i cui vertici sono nominati dal potere esecutivo, e che opera secondo criteri la cui logica ultima non è scientifica ma appunto politica. Basti citare l’obbligo di classificare i cosiddetti ‘prodotti della ricerca’ in fasce che non avrebbero dovuto ospitare più del 25% dei testi e non meno del 5%: come ha scritto Maria Chiara Pievatolo, “se adottassimo una simile regola per gli esami di profitto, ci troveremmo a dire: ‘Lei meriterebbe 30, ma dovremo darle un voto più basso perché abbiamo già attribuito un voto di fascia superiore al 25% dei candidati all’appello’”. La stessa studiosa commenta la situazione della valutazione prendendo atto che “Caesar est supra grammaticos”, cioè che il potere politico è riuscito a fare quel che voleva fare un imperatore tardo-medioevale: comandare anche sulle regole grammaticali. In questo caso, sulla grammatica elementare della scienza: che infatti si vede costretta, a causa di queste politiche, a favorire le ricerche più conformiste e meno innovative.
Anche peggio vanno le cose per l’altra missione fondamentale dell’università, la didattica: e qua si deve citare il silenzio delle istituzioni universitarie sul progetto di autonomia differenziata che mira a dare alla Regione Lombardia nientemeno che il “coordinamento delle università lombarde”, e in generale al potere politico delle tre regioni-locomotiva (Lombardia, Veneto ed Emilia) un ruolo determinante nella creazione di corsi professionalizzanti al servizio del territorio regionale.
Come anche con il Pnrr, e con altri infiniti provvedimenti, si stabilisce che di fatto i “portatori di interesse” del sistema universitario non sono i cittadini, ma i vari interessi economici legati alla politica. E che, di conseguenza, l’università non deve essere lasciata libera di elaborare idee e progetti per costruire una società diversa, ma deve essere messa al servizio della società come è oggi: così, di fatto, annullandone la funzione ultima.
Chi, dentro e fuori dell’università, dice che le bandiere del mio ateneo andavano abbassate perché nell’università non si fa politica, dovrebbe riflettere su tutto questo e su moltissimo altro: prendendo atto che le cose stanno esattamente all’inverso. E cioè che le bandiere di tutte le altre università sono automaticamente scese proprio perché da troppo tempo ci siamo abituati a non esercitare il pensiero critico, in una triste sudditanza al potere politico.

Punto di vista travagliato

 

Ridateci il Puzzone
di Marco Travaglio
Nessuno può sapere come finirà la marcia-retromarcia su Mosca di Prigozhin e della sua banda mercenaria. Perché nessuno è nella sua testa e in quella dei suoi eventuali mandanti, interni o esterni, né in quella di Putin e degli altri boss russi. Ma gli epiloghi delle prove di guerra civile possono essere soltanto quattro. 1) Putin spazza via la rivolta della brigata Wagner e resta al potere più forte di prima. 2) Putin viene spazzato via dalla saldatura fra il tradimento dei soldati di ventura e quello di parte forze armate regolari e sostituito da qualcun altro, probabilmente peggiore di lui: uno di quelli che lo contestano non per la guerra in Ucraina, ma per essersi limitato a un’“operazione speciale” troppo prudente ed esitante. 3) Putin tratta con Prigozhin e si arriva a un compromesso, che rafforza il secondo e indebolisce il primo, sacrificando il ministro della Difesa Shoigu e riconoscendo in qualche modo il ruolo della Wagner nelle forze regolari. 4) Si apre una lunga e caotica guerra civile senza sbocchi, con pezzi di Russia controllati dai militari lealisti e altri dai mercenari e da reparti ammutinati; intanto la controffensiva ucraina, finora disastrosa, riprende fiato e piede approfittando del caos sul fronte avverso, magari riconquistando la Crimea che non solo Putin, ma tutti i russi e gran parte dei crimeani considerano Russia.
Malgrado il tifo che gli “atlantisti” più stupidi (quelli di casa nostra) fanno in queste ore per Prigozhin, non più cuoco-macellaio ma benemerito alfiere della verità che “smaschera le menzogne di Putin”, nessuno dei quattro scenari conviene all’Occidente, tantomeno all’Europa: né un Putin rafforzato, né un Putin indebolito e ostaggio dei falchi o addirittura rimpiazzato da qualcuno più estremista e feroce di lui (c’è l’imbarazzo della scelta); né una Russia destabilizzata dalla seconda guerra alle porte dell’Europa oltre a quella ucraina. Anche perché ciascuno scenario (tranne forse il primo) avvicinerebbe il rischio che qualcuno ricorra al nucleare, pescando per disperazione fra le 6mila o 9mila testate atomiche disseminate in Russia (e forse in Bielorussia). Chi, ingenuamente o dolosamente, pensava che i problemi a Est si sarebbero risolti con un bel golpe a Mosca – da Biden, subito smentito da chi a Washington ancora ragiona, ai fanatici inglesi, polacchi e baltici – ora trema all’idea che la Russia si spappoli come i Balcani, l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia. Con la differenza che la Russia è infinitamente più vasta e pericolosa di tutti quei Paesi destabilizzati dalle guerre folli e suicide della Nato. Nulla è peggio della permanenza di Putin al potere, tranne la prospettiva di vederlo cadere e poi di doverlo rimpiangere.