Lo stadio Picco è diventato troppo piccolo
Lo dicono i numeri: l’affluenza media delle gare di serie A è di 28.995 spettatori, mentre sono 8.840 per le partite giocate alla Spezia
di Mirco Giorgi
LA SPEZIA
Ora che il Covid non è più un’emergenza, dopo quasi tre stagioni di serie A, con la speranza di vederne una quarta, la questione della capienza inadeguata del Picco esplode. Tutti si beano dell’ennesimo tutto esaurito in arrivo con la Salernitana, ma nessuno che dica che vendere tutti i biglietti in un stadio così piccolo è semplicissimo persino con le assurde scelte di marketing che hanno escluso un sacco di famiglie. A chi si esalta con poco, rispondiamo con la forza di tre numeri. Il primo è 28.995, affluenza media delle gare di serie A fino ad oggi, nonostante le dirette televisive, le problematiche degli impianti e i costi dei biglietti non certo alla portata di tutti. Il secondo è 8.840, affluenza media delle partite giocate al Picco. Il terzo è 11.676, capienza attuale dell’impianto di viale Fieschi. E’ evidente che non si potrà rimanere a lungo in questa categoria se la distanza non viene sensibilmente abbattuta. Salire a 12.000 garantirebbe il minimo richiesto, ma è anche un vicolo cieco. Intanto perché la pressione del baraccone, e di tante grandi piazze che al momento non sono in A, potrebbe far salire facilmente questo limite e rendere lo stadio off limits. Ma soprattutto perché numeri così bassi sono destinati, prima o poi, a tagliarti fuori, non fosse altro che per economia di scala. Che sia stato perso un sacco di tempo è incontestabile. Che si sia persa l’occasione unica di sfruttare il periodo di porte chiuse (durato ben un anno e mezzo) per lavorare a un potenziamento strutturale dell’impianto è un altro dato di fatto. Che la tribuna, ad esempio, sia semplicemente impresentabile a qualsiasi livello professionistico basta la sua ridicola capienza di 1.162 posti a dimostrarlo (il Luperi di Sarzana, che ospita la Fezzanese in D, ha una tribuna coperta da 2.500). Viene il nervoso a pensare quante decine di città in Italia si sarebbero comportate al posto nostro. Facciamo sempre l’esempio di Cesena, ma è utile ricordarlo: promozione in A nell’estate del 1988, demolizione di tre settori iniziata il giorno dopo la fine del campionato, stadio completamente rifatto in tre mesi, prima partita del nuovo campionato con l’impianto agibile, copertura terminata durante la stagione, primo stadio totalmente coperto in Italia, un gioiello. Tecnologia allora avveniristica, con blocchi di stadio costruiti altrove e poi assemblati in loco, perfettamente replicabile con trent’anni di vantaggio e tecniche probabilmente molto più avanzate. Ma la logica del «maniman» (termine purtroppo ormai in disuso nella pur ligure La Spezia) ha prevalso su ogni cosa. Progetti di minima, non sia mai. E non trascuriamo i grandissimi problemi di sicurezza che sono sempre lì sul tavolo. A nessuno interessa il potenziale redditizio di un grande stadio, che potrebbe ospitare, in una città turistica come la nostra, eventi di ogni tipo durante l’estate, facendo aumentare le possibilità di rientro sull’investimento: un weekend estivo con tre date di Vasco Rossi, ad esempio, quanto farebbe incassare? Qui nessuno chiede di buttare via i soldi ma di spenderli bene, perché ritornerebbero con gli interessi, visione del tutto sconosciuta ai nostri politici.
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