Renzi e Calenda, schiappe tenute in vita dai media
DI DANIELA RANIERI
“Le elezioni si vincono al centro” ha, nel nostro Paese, la valenza delle asserzioni incontrovertibili, al pari di “il nuoto è lo sport più completo” (intanto in Francia la coalizione guidata da Mélenchon, sinistra vera, pareggia con Macron, ma basta far finta di niente). Dopo le amministrative, è tornato il mito del Grande Centro Riformista, schizofrenicamente scisso tra i due suoi maggiori (si fa per dire) rappresentanti: Renzi, che da quando si è ritirato dalla politica viene intervistato da tre quotidiani al giorno; e Calenda. Calenda, Calenda… questo nome non ci è nuovo. Febbraio 2019, titolo di HuffPost: “Calenda punta a superare il 30% alle Europee”. A “puntare”, più che Calenda, erano proprio i giornali reggi-centro, che – siccome al tempo Calenda stava nel Pd – intendevano che il 30% se lo sarebbe preso lui in persona e, al segnale convenuto, lo avrebbe fatto fruttare in un suo partito personale riformista europeista eccetera (il Foglio ne pubblicava il manifesto, una specie di libretto rosso dei Parioli). Poi si sa come è andata: per qualche inspiegabile disguido, l’ex di Confindustria, Ferrari, Sky, Montezemolo, Monti, già viceministro di Letta e Renzi, poi da questi fatto Rappresentante permanente presso la Ue (con disappunto dei veri diplomatici), dunque creato ministro neoliberista dell’Eccellenza, prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd, ma con un simbolo proprio (Siamo europei), e pochi mesi dopo, alla formazione del governo coi 5Stelle, lascia il Pd, cambia nome al suo partito personale (Azione), ma non si dimette da europarlamentare; in seguito, in un momento di noia (e di pausa da Twitter, dove detiene tuttora il 48% dei voti), si candida a sindaco di Roma pretendendo l’appoggio del Pd, che gli viene negato; così tra urla e strepiti perde a Roma e annuncia che non farà il consigliere comunale, buttando a fiume 220mila voti di romani, salvo poi ripensarci e giurare di restare, salvo poi ri-ripensarci e dimettersi (il suo slogan era: “Roma, sul serio”). Rabelais lo avrebbe preso ad archetipo del personaggio garrulo, pasticcione, inaffidabile, fallimentare, cazzaro per sua stessa dichiarazione (“Ho sostenuto per 30 anni le cazzate dei neoliberisti”), un galleggiatore senza meriti; invece per i nostri giornali è un leader di ragguardevole carisma e autorevolezza, dotato nientemeno che della missione di “sconfiggere l’astensione”. Due giorni fa il Corriere lo ha intervistato, e alla prima domanda (“Carlo Calenda, soddisfatto del risultato?”) lui ha risposto così: “Abbiamo un’affermazione che va dal 10 al 25%, se si considerano L’Aquila, Palermo, Catanzaro e Parma, i quattro capoluoghi di provincia in cui noi abbiamo fatto la scelta molto radicale di andare da soli”. In realtà, come ha dimostrato Youtrend, in quelle città Calenda ha appoggiato candidati arrivati secondi o terzi insieme ad altre liste, o non ha presentato il simbolo, e ha preso lo 0,4% a livello nazionale. Ma la intervistatrice lo asseconda: “Quindi avete dimostrato che non andate bene solo a Roma con lei candidato” (mica è tenuta a saperlo, fa solo la giornalista).
Passiamo a Renzi: Repubblica lo intervista in qualità di vincitore morale e ago della bilancia, alimentando la sua mitomania elettorale; in realtà s’è presentato col simbolo del suo non-partito in sole 9 città sulle 971 al voto; in altre, ha adottato la solita strategia parassitaria: a Genova ha appoggiato Bucci, candidato di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia; a Lodi il candidato di centrosinistra; a Rieti quello di centrodestra; in nessun caso è stato determinante. Eppure, queste due schiappe della politica sono gli idoli dei giornali, che schifano i 5Stelle e vogliono impedire che il Pd si sposti a sinistra (in merito, potrebbero pure mangiare tranquilli). Da anni pompano gente “di centro” che nella realtà fisica non esiste (Pisapia – che doveva “federare” il Pd con Renzi – Monti, Passera, Bonino, Gori, Sala, etc.). Il loro preferito al momento è Calenda, autoproclamatosi leader di “quest’area riformista, pragmatica, che non sta tutto il giorno a parlare di fascisti e comunisti”. Praticamente il paradiso. Ci si guarda bene dal dire la verità: Azione e Iv sono partiti di plastica costruiti sui nomi, ancorché scarsi, dei loro leader; sono scatole vuote, senza radicamento, che alle elezioni si agganciano a questo o a quel cacicco locale senza scrupoli e schizzinosità, tanto possono contare su una campagna elettorale permanente e gratuita. Naturalmente, questo non parlare di comunisti e soprattutto di fascisti si porta dietro l’altro pompaggio artificiale di leader: Meloni, nuovo idolo dell’establishment dopo la caduta del povero Salvini (ma lei non voleva rovesciare la élite?); prevediamo che da qui alle Politiche sarà tutto un Meloni contro Calenda, un kolossal in romanesco con inseguimento di bighe tra la Garbatella e Fontana di Trevi.
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