Mi sono quasi commosso a leggere questa prima parte di "biografia" di Marco su Amato. Perché fondamentalmente il Topastro non l'ho mai digerito e pensarlo al Quirinale mi porta ad ingoiare pastiglie. Tra l'altro, da anni il Topastro ingurgita circa un trentamila euro di pensioni varie.
Amato e le prove d’amore
di Marco Travaglio
Nel 1986-’87 l’Iri vende l’Alfa Romeo. Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più vantaggiosa, l’americana Ford. Nel Psi prevale, giustamente, il partito Ford. Ma Amato rovescia gli equilibri e li porta sulla Fiat, che si aggiudica per un pezzo di pane l’unica azienda concorrente rimasta sul mercato interno. Ricorderà Craxi in un fax molto allusivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel processo di Torino a Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento illecito al Psi): “Amato, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si occupò certamente della vicenda, mentre non se ne occupò, che io ricordi, l’intero partito. Di ritorni economici… a partiti o soggetti singoli non so nulla. Certamente non ne ebbe il partito…”. L’allora vicesegretario Psi Giulio Di Donato, davanti ai pm torinesi, dipingerà Amato come uno zerbino ai piedi di Romiti: “La sezione locale e aziendale di Pomiglianod’Arcoera orientata con maggior favore verso la cessione alla Ford. Anche il Pci locale aveva questa posizione, così come i sindacati. Poi venni chiamato dall’on. Amato, che mi disse che la soluzione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il profilo politico, dell’opzione Ford”. E Fiat fu.
Debiti e presidenzialismo. Negli anni del governo Craxi (1983-’87) Amato è il più ascoltato consigliere economico- giuridico del premier. E i risultati non si fanno attendere. Nel 1983 il debito pubblico è, tradotto in euro, di 234,1 miliardi; nell’84 è già salito a 284,8, nell’85 a 346, nell’86 a 401,4 e nell’87 a 460,4. Raddoppiato in cinque anni. Siccome – diceva Totò – “il talento va premiato”, dal 1987 all’89 il Dottor Sottile viene promosso a ministro del Tesoro nei governi Goria (di cui è pure vicepremier) e De Mita, che portano il debito al nuovo record di 589,9 miliardi. Un disastro che costringe il governo De Mita a una sanguinosa stangata da 49 mila miliardi per colmare il buco che lo stesso Amato ha contribuito a scavare. Nel 1989 Andreotti torna al governo e Amato al Psi: vicesegretario vicario di Craxi e grande architetto della “Grande Riforma” costituzionale. È lui, al 45° congresso di Milano, quello dei “nani e ballerine” (copyright Rino Formica) e della piramide del geometra Filippo Panseca, a rilanciare il suo pallino di Repubblica presidenziale, con l’elezione diretta del capo dello Stato: un trono su misura per Bettino. Il potere smisurato di Amato nella pochette di Craxi attira invidie e maldicenze. Qualcuno insinua che lo sgusciante “Topolino” flirti con Eugenio Scalfari e il gruppo Espresso–Repubblica-De Benedetti, bestie nere del Capo, alla vigilia della “guerra di Segrate” con Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori.
Il 27 luglio 1989 Amato scrive un’imbarazzante lettera a Bettino per giurargli eterna fedeltà e piatire altri e più alti incarichi: “Caro Presidente, ti sono molto grato per la tua offerta rinnovata di collaborazione. Sarà al centro della riflessione su cosa dovrò fare da grande. Vorrei intanto pregarti di riflettere tu su una cosa, di cui mi giungono voci (imprecise, ma inevitabilmente tali quando ci sono dubbi e sospetti non affrontati apertamente e lasciati alla perfidia dei corridoi; è stato comunque De Michelis a parlarmene). Cancella l’idea che io sia legato al giro di Repubblica. È infondato. Solo con i loro giornalisti economici, come con quelli degli altri, ho avuto rapporti da ministro del Tesoro. Per il resto, ti ho sempre detto tutto… Ho incrociato Scalfari a qualche rara cena, quasi sempre e cioè due o tre volte a casa di Elisa Olivetti. Non c’è altro. E chiunque capisce che Scalfari, dopo avermi bistrattato quando ero al Tesoro, ha ora usato disinvoltamente la mia uscita per criticare te… Ti auguro solo di avere dagli altri la lealtà assoluta che hai sempre avuto da me e che continuerai ad avere, insieme a una sicura amicizia, qualunque cosa io abbia a fare da grande”.
Funeral Party. Nel 1990 salta fuori una mazzetta di 270 milioni di lire al Psi sull’appalto per la nuova Pretura di Viareggio, passata per le mani dei socialisti locali e approdata almeno in parte nelle casse romane del partito. I compagni viareggini scaricano la colpa su un compagno morto: il senatore ed ex sottosegretario Paolo Barsacchi, che non c’entra nulla ma non può smentirli. Purtroppo per loro è sopravvissuta la vedova, Anna Maria Gemignani, che non intende accettare lo scaricabarile dei compagni vivi. Insomma minaccia di andare dai magistrati per fare nomi e cognomi. Il 21 settembre riceve una chiamata di Amato e, intuendone l’oggetto, aziona il registratore: per 11 minuti e 49 secondi, il vicesegretario Psi la esorta all’aurea virtù del silenzio, con la sua inconfondibile vocetta melliflua. Amato: “Anna Maria, scusami, ma stavo curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata… La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti un sacco di problemi dal tuo punto di vista… Troverei giusto che tu direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto… Ma senza andare a fare un’operazione … ‘quello non è lui, ma è Caio, quello non è lui ma è Sempronio’. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a Viareggio hanno creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”. Gemignani: “Giuliano, io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”. A: “Ma vattelapesca chi la sa e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”. G: “Io penso che tu l’abbia capito anche te”. A: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so… Ma questo non è un processo contro Paolo, ma contro altri…”. Quel “per qualcuno dei locali forse sì” fa pensare che qualcosa Amato sappia. Ma quando viene convocato dai giudici, che hanno ricevuto il nastro dalla vedova, giura di non sapere nulla. Alla fine comunque la manovra col morto fallisce, grazie anche alla tenacia di Annamaria, che ignora i consigli di Amato. Il 13 dicembre 1990 i veri colpevoli della tangente vengono condannati, e sono tutti vivi: Barsacchi viene scagionato e riabilitato. Quando il Fatto pubblicherà la telefonata e l’audio, Amato scriverà a Repubblica per minimizzare: “Non avevo affatto invitato la signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli”, ma solo “a non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur di salvaguardare la memoria di suo marito. Il tribunale ne prese atto e finì lì”. Mica tanto. Nella sentenza il Tribunale di Pisa parla anche di lui: la telefonata alla vedova mirava a scongiurare “una frittata, intendendo per tale un capitombolo complessivo del Psi”. E si domanda come mai “nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (ministro socialista della Giustizia, ndr) e Amato stesso si siano sentiti in dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente della Pretura”. Non vedo, non sento e comunque non parlo.
Fiat, Amato sicuro. Nel 1992, dopo aver regalato nel 1987 l’Alfa Romeo alla Fiat a prezzi di saldo, lo Stato prepara un altro dono al gruppo Agnelli-Romiti: 3 mila miliardi di fondi pubblici per il nuovo stabilimento di Melfi, in Basilicata. I retroscena li racconterà l’allora vicesegretario Giulio Di Donato al gup Francesco Saluzzo nel processo Romiti. Gup: “Le è mai capitato di parlare con Balzamo (lo scomparso tesoriere del Psi, ndr) dei canali di finanziamento del partito?”. Di Donato: “Mah, in maniera molto generica: Balzamo non rivelava le fonti del finanziamento, né di quello lecito né di quello non lecito. Credo che lui avesse un rapporto di questa natura con il vicesegretario vicario Amato”. G: “Lei cosa sa di contatti con Romiti?”. D: “Un mese e mezzo prima delle elezioni (dell’aprile ’92, ndr) ci fu una visita di Romiti al quinto piano di via del Corso… Penso che abbia parlato con Craxi e con Amato. Balzamo mi disse 48 ore più tardi che dopo quell’incontro i rapporti di sostegno finanziario dalla Fiat erano molto migliorati (il 12 marzo 1992, arrivò su un conto estero del Psi una mazzetta Fiat di 4 miliardi, ndr)”. G: “Romiti con chi aveva rapporti, nel Psi?”. D: “Più che direttamente col segretario, penso con Amato. Dico questo perché, sulla strategia degl’investimenti della Fiat nel Mezzogiorno, io espressi perplessità e ho trovato sempre un contraddittorio in Amato e in Acquaviva… L’ultima grande questione che ha impegnato a livello politico è stato l’investimento di Melfi… circa 3 mila miliardi. Nel ’92 la situazione si era bloccata… Ci voleva un rifinanziamento con nuova legge di Bilancio”. G: “Ci furono pressioni della Fiat sul governo?”. D: “Da Fiat presumibilmente ce ne sono state: doveva costruire lo stabilimento e doveva incassare i soldi… Ricordo che si è discusso di questo problema con Amato: io ero perplesso. Dicevo che gli investimenti nel Mezzogiorno avevano finanziato grandi complessi industriali che non avevano creato indotto, e si erano risolti nelle solite cattedrali nel deserto. Amato invece aveva una considerazione completamente diversa: ‘Sì, vabbè, ma si deve realizzare, si deve fare’…”. E i soldi arrivarono: quelli del contribuente, alla Fiat; quelli della Fiat al Psi.
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