Una delle aziende fiore all'occhiello del nostro ingegno, sottoposta a decenni di rapine a cravatta armata, con un giro di inchiappettamenti senza precedenti. Sergio Rizzo riepiloga oggi su Repubblica al meglio la triste storia.
Da Prodi a Beppe Grillo vent’anni inconcludenti Così torna il piano Rovati
SERGIO RIZZO,
ROMA
Fosse ancora vivo, Angelo Rovati oggi avrebbe la sua riscossa. Perché il piano per scorporare la rete telefonica da Tim altro non è che il suo. Il famoso piano Rovati: che a quell’omone alto 1,94 con un passato da giocatore di basket in serie A costò, incolpevole, il posto da consigliere del premier e una tiratona d’orecchi dal suo grande amico Romano Prodi. Il documento con su scritto "riservato" che aveva mandato a Marco Tronchetti Provera finì sui giornali e lui fu crocefisso. «Siamo tornati ai tempi di Stalin», inveì Forza Italia. Mentre i leghisti chiedevano le dimissioni di Prodi accusato, correva l’anno 2006, di voler rimettere le mani su una società privata. Così il piano imboccò la strada del cestino. E pensare che Rovati l’aveva concepito per risolvere i problemi di Telecom Italia, come si chiamava allora. Dopo la privatizzazione del 1997 la scalata dei coraggiosi capitanati da Roberto Colaninno e la successiva vendita alla cordata guidata da Tronchetti Provera l’avevano rimpinzata di debiti. Chi comprava facendosi prestare i soldi dalle banche poi li scaricava sulla società comprata, e con molti debiti gli interessi si mangiavano risorse per investimenti sempre più necessari. Un handicap che finiva per gravare pure sulla rete, sempre più vecchia e obsoleta.
Dunque per Rovati non c’era che una strada: scorporarla con l’intervento della Cassa depositi e prestiti e metterla in una nuova società da quotare in Borsa. Il "modello Terna". Ovvero, lo schema seguito per separare dall’Enel la rete di trasmissione con la creazione di una società a controllo pubblico, però aperta al mercato. L’uovo di Colombo: Telecom si sarebbe alleggerita dei debiti, e grazie ai canoni pagati indirettamente dagli utenti la società della rete avrebbe potuto finalmente investire. Di sicuro il piano non era tutto farina del sacco di quell’ex giocatore di basket che in quelle settimane affrontava i due passaggi cruciali e opposti della sua vita: il più bello, il matrimonio con la stilista fiorentina Chiara Boni; il più brutto, la lotta contro un tumore che se lo sarebbe portato via anni dopo. Lui ammise di aver "parlato a lungo" con esperti del calibro, per esempio, di Franco Bernabè e Francesco Caio. Ma è impossibile che non si fosse confrontato con la politica, sempre ipersensibile ai destini di Telecom.
La questione della rete è antica come la privatizzazione. Fin dall’inizio c’era chi proponeva di scorporarla e lasciarla allo Stato, privatizzando solo il gestore. La rete telefonica era stata pagata dagli utenti con il canone e trattandosi di un monopolio naturale come la rete elettrica la vendita a un privato avrebbe dato a costui un ingiusto vantaggio competitivo rispetto agli altri operatori. C’era solo un problema: che servivano un sacco di soldi per entrare nell’eurozona, e i privati mai e poi mai avrebbero investito in una compagnia di Stato senza avere anche la rete. Però l’Agcom insisteva, e i consumatori fremevano. Anche il governo Berlusconi, nel 2001, ci aveva fatto un pensierino. Mentre della questione aveva cominciato a occuparsi anche un certo Beppe Grillo. Memorabile il suo primo intervento all’assemblea della Stet (1995), preludio di un crescendo rossiniano in anni di invettive, culminato nel 2006 in una clamorosa richiesta al ministro delle Comunicazioni: scorporare la rete. «Bastava un comico mediamente informato, sono anni che grido contro un caso macroscopico di delinquenza telefonica…». Ministro era allora un certo Paolo Gentiloni, che si arrampicò sugli specchi. Ma Grillo non si rassegnava e due anni dopo affrontò l’amministratore delegato di Telecom Bernabé, sentendosi rispondere picche. E dopo aver rivendicato l’accesso gratuito a internet «per diritto di nascita» (2013), eccolo pronto (2015) a un frontale con il governo di Matteo Renzi incolpato di voler favorire i privati con la banda ultralarga a scapito dell’infrastruttura pubblica. Nel frattempo non si fermavano le chiacchiere, ma neppure i debiti di Telecom. Con il risultato di sbriciolare pian piano ogni tabù sulla rete. Nel 2013 Bernabé confermò «la volontà di procedere celermente nello scorporo dell’infrastruttura di accesso».
Mentre il viceministro delle Comunicazioni Antonio Catricalà, ex presidente dell’Antitrust avvertiva: «Lo scorporo si può imporre per legge». E se ancora nel 2014 il presidente di Telecom Giuseppe Recchi giurava «non esiste alcun dossier», era chiaro che prima o poi si sarebbe arrivati a questo punto. Quanti miliardi ci sono in ballo per la compagnia telefonica? Dieci? O perfino venti, come dice qualcuno? Sono comunque la differenza fra il Calvario e la salvezza. In questi mesi quel dossier è stato messo a punto e definito nei dettagli: con piena soddisfazione di chi non aveva mai smesso di pensare a quella soluzione, come il presidente di Open Fiber Franco Bassanini. Che già quando era a capo della Cassa depositi e prestiti avrebbe volentieri cavalcato l’operazione. Al punto che oggi qualcuno sussurra che dietro tutto ci sia anche il suo zampino…
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