lunedì 27 agosto 2018

Commento Giannini

SALVINI ALL’INCASSO DEL POPULISMO

di Massimo Giannini per Repubblica

La macabra danza sovranista intorno alle povere vite di 150 disperati sembra concludersi in gloria per Salvini. Può ergersi a martire di fronte alle masse impaurite e adoranti, e lucrare un altro tesoretto di consensi persino su un avviso di garanzia inseguito e provocato a ogni costo.
Il "ministro della mala vita" non meritava questo "favore", dicono quelli che la sanno lunga. E non hanno tutti i torti, vista la cinica astuzia con la quale il Conducator leghista ha trasformato subito un possibile inciampo giudiziario in un sicuro dividendo politico.
Ma cosa deve fare una democrazia occidentale, di fronte a un uomo di governo che per incassare un altro pugno di voti viola scientemente le leggi dello Stato e le norme del diritto internazionale? Deve auto-limitarsi nel funzionamento delle garanzie costituzionali e del bilanciamento dei poteri, per non fare il gioco di un ministro che, indagato, grida in piazza "gli italiani sono con me"?
La squallida bravata salviniana sulla nave Diciotti, e quelle che verranno nelle prossime settimane, hanno nientemeno che questa posta in palio: se non la tenuta, la qualità democratica del Paese. E non è un’esagerazione, con buona pace delle anime belle che consideravano eccessivi gli allarmi sulla natura tecnicamente "eversiva" dell’alleanza legastellata. Qui non c’è solo una rottura già insanabile con l’Europa (per quanto l’Unione sia scandalosamente inadempiente su molti fronti). A distribuirsi quel manipolo di eritrei rappresentati come "emergenza" abbiamo chiamato l’Irlanda e l’Albania. A elemosinare il riacquisto dei nostri Btp, che da gennaio la Bce smetterà di comprare, siamo andati in America, in Cina, in Russia.
"Italexit" è già quasi compiuta. Il "governo del cambiamento" ha davvero già cambiato gli orizzonti e i riferimenti geopolitici dell’Italia, collocandola di fatto fuori dall’Europa dei Padri Fondatori. Non ancora la Polonia di Kaczynski o l’Ungheria di Orban (al quale domani il responsabile del Viminale bacerà la pantofola). Ma non più la Germania di Merkel o la Francia di Macron. Questo è il claustrofobico Club delle Piccole Patrie nel quale ci sta relegando la coalizione gialloverde a trazione salviniana.
Ma stavolta c’è di più. Salvini può imporre il suo Nuovo Ordine Sovranista per due ragioni. La prima è che ha ormai il comando della coalizione, avendo ridotto Conte e Di Maio al ruolo di "utili idioti". La seconda è che può farlo — fregandosene della Ue, della magistratura, dell’opposizione — perché si considera protetto dall’unica fonte di legittimazione che riconosce, cioè il popolo. Se il popolo è con lui (e in buona misura lo è) non esistono codici né procure.
È un dispositivo di potere aberrante, che abbiamo già conosciuto. Salvini porta a compimento il piano avventurista e plebiscitario del suo ex alleato Berlusconi che oggi, in questa Italia senza memoria, sembra diventato De Gaulle. L’Unto del Signore fu il primo a considerarsi al di sopra della legge, in virtù del consenso elettorale che cancellava i suoi reati e i suoi peccati. Il vicepremier in cravatta verde segue le stesse orme. Sostituite le "toghe rosse" con i "pm politicizzati", i "comunisti" con i "radical chic", e il gioco è fatto. C’è un’inquietante coerenza tra la vecchia destra berlusconiana e la nuova destra salviniana. Qualunque forzatura diventa lecita, se è quello che la massa indistinta condivide o pretende.
Nel Ventennio berlusconiano il sistema seppe reagire. Il Quirinale rinviò alle Camere la legge Gasparri sulle tv e la legge Castelli sulla giustizia. La Consulta e i giudici ordinari ressero l’urto, e la stessa cosa fece talvolta il Parlamento, che almeno non votò con i due terzi la mostruosa riforma costituzionale del 2005. Tra difficoltà e cedimenti, le istituzioni furono più forti di chi avrebbe voluto snaturarle, piegandole ai suoi bisogni e ai suoi disegni. Oggi la sfida si ripete. Persino più insidiosa, complice l’eclissi di una sinistra che, come dice Marco Minniti, «ha lasciato orfana la sua gente». Ma anche stavolta la democrazia italiana deve essere capace di difendersi, e di difendere il popolo da sé stesso.

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