martedì 16 dicembre 2025

L'Amaca

 

Gli asini di Cavour
di Michele Serra
Vi prego, nel caso vi fosse sfuggito, di leggere il post che il presidente degli Stati Uniti ha dedicato al regista Bob Reiner e sua moglie Michelle, uccisi, pare, durante una lite familiare con un figlio. Trump attribuisce la morte di Reiner “alla rabbia che aveva suscitato negli altri a causa della sua grave afflizione”, che sarebbe detestare lo stesso Trump. “La sua paranoia aveva raggiunto livelli inauditi mentre l’amministrazione Trump superava ogni obiettivo e aspettativa di grandezza”. Cioè: è morto perché mi odiava, dice il presidente. Perché rifiutava di prendere atto che io sono il migliore, il più bravo, il più forte.
Va bene che ci si abitua a tutto: ma vi rendete conto del livello? A parte uno che, ininterrottamente, si loda da solo (j’asu d’Cavour je gniun ca i lauda, as lauda da lur: gli asini di Cavour nessuno li loda e si lodano da soli, saggezza popolare piemontese). A parte questo, dicevo, come fa il capo di un Paese a essere così stupido, così vanesio, da ricondurre a se stesso una tragedia che non lo riguarda affatto? Come hanno potuto saltare, una dopo l’altra, tutte quelle inibizioni che, per esempio, impediscono di strillare “io sono il più bravo!” in pubblico, e almeno di fronte alla morte suggeriscono silenzio e rispetto? Quale mostruosa deviazione della storia ha portato uno come Trump a governare gli Stati Uniti? Credetemi: non sto parlando di politica. Sto parlando di uno sprofondo umano che mette spavento, e anche un certo disgusto.
Quanto alla politica, volesse riacquistare peso e significato, in America come in Italia dovrebbe ripartire proprio da questo: dall’umanità, dalla gentilezza, dall’umiltà degli atti e delle parole. Vergognoso non è solamente affamare i poveri, o speculare sulla guerra. Vergognoso è anche usare il potere per pura vanità, e volontà di sopraffazione.

Effettivamente

 

E dirlo prima?
DI MARCO TRAVAGLIO
Mentre Mattarella si iscrive al club dei sabotatori del negoziato perché i confini ucraini sono sacri e intoccabili (mica come quelli di Serbia e Kosovo che da vicepremier bombardò per 78 giorni), Zelensky pare sempre più ragionevole perché conosce l’unico verdetto che conta: quello disastroso del campo. In pochi giorni ha rimosso i due moventi fondamentali di questi 11 anni di guerra con la Russia: il Donbass e la Nato. La pillola amara dell’addio al Donbass, peraltro quasi tutto perso, l’ha indorata con l’annuncio che “Trump ci impone di rinunciarvi” (dobbiamo obbedire agli Usa, come sempre) e col caveat del referendum in loco. Ma tutti sanno che gli abitanti del Lugansk (tutto occupato) e del Donetsk (occupato all’85%) già prima della guerra erano quasi tutti russi o filorussi, e tantopiù lo sono ora, dopo 46 mesi di evacuazioni delle province occupate (in parte già ricostruite), dov’è rimasto quasi solo chi vuol restare russo o attende l’arrivo dei russi. Se si votasse, l’esito sarebbe scontato, quindi è improbabile che si voti: sennò si certificherebbe che da quattro anni rischiamo la terza guerra mondiale per difendere dai russi una popolazione che vuole stare coi russi.
Ieri poi Zelensky, sempre con l’aria di chi fa un gran sacrificio, ha rinunciato anche alla Nato: bella forza, visto che Trump (come l’ultimo Biden) non perde occasione di fargli sapere che la Nato se la scorda, anzi nel nuovo piano di Difesa ha messo nero su bianco che l’espansione a Est è morta e sepolta. Per chi, come noi, pensa all’inutile sacrificio di centinaia di migliaia di persone, le rinunce di Zelensky a ciò che ha già irrimediabilmente perduto ricordano la fiaba della volpe e dell’uva. Ma anche ciò che si diceva subito prima e subito dopo l’invasione del 2022. Per scongiurarla, Macron e Scholz imploravano Zelensky di rinunciare alla Nato e promettere l’autonomia del Donbass promessa negli accordi di Minsk: parlavano con Putin e sapevano che con quei due impegni non ci sarebbe stata invasione. Zelensky tentennò, poi su pressione Usa-Uk rifiutò e Putin invase. Ma il negoziato russo-ucraino partì subito, in Bielorussia e poi a Istanbul. Putin chiedeva sempre le stesse cose: no alla Nato e sì a Minsk in cambio del ritiro russo, cioè di un’Ucraina tutt’intera (parola dei negoziatori ucraini). E Zelensky ripeté due volte: “La Nato non è pronta ad accoglierci”, “Non possiamo entrare nella Nato”. Non solo: “Neutralità e intesa su Crimea e Donbass per la pace”. Ma Usa e Uk si rimisero di traverso e Zelensky li seguì, alzandosi dal tavolo mentre si discutevano le garanzie per Kiev e le dimensioni del suo esercito. Sembrerebbe il film Il giorno della marmotta, se sotto quei ponti non fosse passato un fiume di sangue.

Il Bullo

 

Il bullo mondiale: la nuova America

DI JEFFREY SACHS

L’ultimo memorandum del presidente sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale considera la libertà di coercizione come l’essenza della sovranità degli Usa.
Documento inquietante che, se lasciato in vigore, finirà col perseguitare il Paese.

La Strategia per la Sicurezza Nazionale (Nss), pubblicata da Trump, si presenta come un progetto per una rinnovata forza americana. È pericolosamente fraintesa sotto quattro aspetti: 1) La Nss è ancorata alla grandiosità: la convinzione che gli Usa godano d’una supremazia senza pari in ogni dimensione chiave del potere; 2) Una visione del mondo machiavellica, che tratta le altre nazioni come strumenti da manipolare a vantaggio dell’America. 3) Un nazionalismo ingenuo che liquida il diritto e le istituzioni internazionali come ostacoli alla sovranità del Paese, anziché come strumenti che rafforzano la sicurezza statunitense e globale. 4) Segnala un uso violento da parte di Trump di Cia ed esercito. A pochi giorni dalla pubblicazione dell’Nss, gli Usa hanno sfacciatamente sequestrato una petroliera che trasportava petrolio venezuelano in alto mare, sulla base del debole pretesto che la nave avesse precedentemente violato le sanzioni statunitensi contro l’Iran. (…) La sicurezza americana non sarà rafforzata agendo da bullo. Sarà indebolita, strutturalmente, moralmente e strategicamente. Una grande potenza che spaventa gli alleati, costringe i vicini e ignora le regole internazionali finisce per isolarsi. In altre parole, l’Nss non è solo un esercizio di arroganza sulla carta. Si sta rapidamente traducendo in una sfacciata pratica.

L’Nss contiene momenti di realismo: ammette implicitamente che gli Usa non possono e non devono tentare di dominare il mondo, e riconosce correttamente che alcuni alleati hanno trascinato Washington in costose guerre per scelta, che non erano nell’interesse americano. Si allontana anche – almeno retoricamente – da una crociata totalizzante tra grandi potenze. Respinge l’illusione che gli Usa possano o debbano imporre un ordine politico universale. Ma la modestia è di breve durata. L’Nss ribadisce che l’America possiede “l’economia più grande e innovativa del mondo”, “il sistema finanziario leader” e “il settore tecnologico più avanzato e redditizio”, il tutto sostenuto da “l’esercito più potente e capace”: affermazioni patriottiche che servono come giustificazione per usare il predominio Usa per imporre condizioni agli altri. A quanto pare, saranno i paesi più piccoli a pagare il prezzo di tale arroganza, poiché gli Usa non possono sconfiggere le altre grandi potenze, anche perché dotate di armi nucleari.

La grandiosità dell’Nss viene saldata a un puro machiavellismo. La domanda che viene posta non riguarda come gli Usa e gli altri paesi possano cooperare per un reciproco vantaggio, ma come la leva americana – su mercati, finanza, tecnologia e sicurezza – possa essere applicata per ottenere le massime concessioni dagli altri paesi. Ciò è assai evidente nella sezione dedicata all’emisfero occidentale, che dichiara un “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe. Gli Usa garantiranno che l’America Latina “rimanga libera da incursioni straniere ostili o dalla proprietà di beni chiave”, e alleanze e aiuti saranno condizionati alla “riduzione dell’influenza esterna avversaria”. Tale “influenza” si riferisce a investimenti, infrastrutture e prestiti cinesi. L’Nss è esplicito: gli accordi Usa con i Paesi “che dipendono maggiormente da noi e quindi sui quali abbiamo la maggiore influenza” devono tradursi in contratti a fornitore unico per le aziende americane. La politica statunitense dovrebbe “fare ogni sforzo per espellere le aziende straniere” che costruiscono infrastrutture nella regione, e gli Usa dovrebbero rimodellare le istituzioni multilaterali per lo sviluppo in modo che “servano gli interessi americani”. Ai governi latinoamericani, molti dei quali commerciano ampiamente sia con gli Usa che con la Cina, viene di fatto detto: dovete trattare con noi, non con la Cina, altrimenti ne affronterete le conseguenze. Tale strategia è ingenua. La Cina è il principale partner commerciale per la maggior parte del mondo, compresi molti paesi dell’emisfero occidentale. Gli Usa non saranno in grado di costringere le nazioni latinoamericane a espellere le aziende cinesi, ma nel tentativo danneggeranno gravemente la diplomazia Usa.

L’Nss proclama una dottrina di “sovranità e rispetto”, eppure l’atteggiamento ha già ridotto tale principio a sovranità per gli Usa e vulnerabilità per gli altri. Ciò che rende la dottrina ancor più fuori dall’ordinario è che sta spaventando non solo i piccoli Stati d’America Latina, ma persino i più stretti alleati Usa in Europa. In uno sviluppo degno di nota, la Danimarca, uno dei partner Nato più fedeli, ha affermato che gli Usa rappresentano una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale danese. I pianificatori della difesa danesi hanno dichiarato che non si può presumere che Washington, sotto Trump, rispetti la sovranità del Regno di Danimarca sulla Groenlandia e che un tentativo coercitivo Usa d’impadronirsi dell’isola è un’eventualità alla quale la Danimarca deve ora prepararsi. (…) Il fatto che Copenaghen si senta costretta a prendere in considerazione misure difensive contro Washington suggerisce che la legittimità dell’architettura di sicurezza guidata dagli Usa si sta erodendo dall’interno. Se persino la Danimarca ritiene di doversi proteggere dagli Usa, il problema non è più la vulnerabilità dell’America Latina. Si tratta d’una crisi sistemica di fiducia tra nazioni che un tempo consideravano gli Usa come garanti della stabilità, ma ora li considerano un possibile o probabile aggressore.

L’Nss sembra incanalare l’energia prima dedicata al confronto tra grandi potenze verso la prepotenza nei confronti degli Stati più piccoli. Se l’America sembra essere un po’ meno incline a lanciare guerre da mille miliardi di dollari all’estero, è più incline a usare come armi sanzioni, coercizione finanziaria, sequestri di beni e furti in mare.

Forse il difetto più profondo dell’Nss è ciò che omette: l’impegno per il diritto internazionale, la reciprocità e la decenza di base come fondamenti della sicurezza americana. L’Nss considera le strutture di governance globale come ostacoli all’azione degli Usa. Liquida la cooperazione sul clima come “ideologia” e, anzi, una “bufala”, secondo il recente discorso di Trump all’Onu. Minimizza la Carta delle Nazioni Unite e concepisce le istituzioni internazionali come strumenti da piegare alle preferenze americane. Eppure sono proprio i quadri giuridici, i trattati e regole prevedibili ad aver storicamente protetto gli interessi americani. I Padri fondatori degli Usa lo avevano capito chiaramente. Dopo la Guerra d’Indipendenza, 13 nuovi Stati sovrani adottarono presto una Costituzione per mettere in comune i poteri chiave – in materia di tassazione, difesa e diplomazia – non per indebolire la sovranità degli Stati, ma per garantirla creando il Governo Federale. La politica estera del governo nel Secondo dopoguerra fece lo stesso attraverso l’Onu e altre istituzioni. L’Nss di Trump inverte questa logica. Tratta la libertà di coercire gli altri come l’essenza della sovranità. Tale arroganza si ritorcerà contro gli Usa. Lo storico greco Tucidide racconta che quando l’Atene imperiale affrontò la piccola isola di Milo nel 416 a.C., gli Ateniesi dichiararono che “i forti fanno ciò che possono e i deboli soffrono ciò che devono”. Eppure l’arroganza di Atene fu anche la sua rovina: 12 anni dopo, nel 404 a.C., Atene cadde nelle mani di Sparta. L’arroganza ateniese, la sua prepotenza e il disprezzo per gli Stati più piccoli contribuirono a galvanizzare l’alleanza che alla fine la fece crollare. L’Nss parla con un tono altrettanto arrogante. È una dottrina del potere sulla legge, della coercizione sul consenso e del dominio sulla diplomazia. La sicurezza americana non sarà rafforzata agendo da bullo. Sarà indebolita – strutturalmente, moralmente e strategicamente – e finirà per isolarsi. La strategia di sicurezza Usa dovrebbe basarsi su premesse totalmente diverse: accettazione di un mondo plurale; riconoscimento che la sovranità è rafforzata, non diminuita, attraverso il diritto internazionale; riconoscimento che la cooperazione globale su clima, salute e tecnologia è indispensabile; comprensione che l’influenza globale dell’America dipende più dalla persuasione che dalla coercizione.

lunedì 15 dicembre 2025

domenica 14 dicembre 2025

Eccoli!

 


Quale magnificenza, che riassunto, che spettacolare compendio di quest’era che nel futuro, dopo l’Età del Ferro, dell’Oro, delle Macchine verrà sintetizzata nell’Era dei Merdoni! Eccoli qui, ci sono quasi tutti, assatanati dal precetto del tempo, di questo tempo infame, anzi: In Fame! - che cioè l’Accaparramento smodato sia la via maestra, che togliere risorse alla stragrande maggioranza degli umani rappresenti la via maestra. 

Eccoli qui i nostri vati che si sono prostrati al Vitellone Biondo d’Oro, perdendo dignità, decoro e indipendenza! Questo Bignami delle nefandezze di oggi, serva per un domani migliore. Sempre ammesso che l’idiozia pregnante i cosiddetti grandi del pianeta non estingua, tra le “ola” delle altre, la nostra specie oramai frastornata, depotenziata ed in totale balia dei suddetti merdoni.

L’Amaca

 

Il quadro dimezzato 

di Michele Serra

Si leggono con interesse sempre più blando i sondaggi sulle intenzioni di voto perché (ammesso siano attendibili) inquadrano una porzione di italiani anno dopo anno più ristretta. Ottimisticamente, e parlando solo delle elezioni politiche: poco più della metà del Paese. Decisamente meno parlando di europee ed elezioni locali. Ancora meno nei referendum.

La metà in ombra, quella che non vota, ammutolita per scelta o per distrazione o per sfinimento o per menefreghismo o chissà, è un mistero evidentemente inaffrontabile, non inquadrabile e non leggibile: eppure, politicamente parlando, rappresenta l’enigma la cui soluzione, anche parziale, cambierebbe in modo radicale il futuro non solo in Italia, ma in tutti i Paesi muniti di suffragio universale.

Chi sono, perché non votano, quanto del loro silenzio politico è imputabile a loro e quanto invece alla politica? Se fossi un partito commissionerei ai sondaggisti solamente indagini sugli astenuti, l’oceano muto e sordo sul quale nessuno sa più come navigare. È solo in mezzo a quelle acque indefinite che si potrebbe riuscire a capire lo sprofondo della politica, la sua perdita di senso e di peso, il suo sembrare un’attività tutta interna ai suoi artefici.

Esistono studi (per esempio quello del Mulino) sull’astensionismo, ma poi, lontano dalle elezioni, tutti continuiamo a commissionare, pubblicare e leggere la classifica dei partiti, gli 0,1 in più o in meno, senza renderci conto che si tratta di trascurabili dettagli di un quadro la cui metà è scomparsa. Come sa la Gioconda fosse dimezzata, mezzo volto di mezza donna. E l’Ultima cena: mezzo Cristo e sei apostoli.

Numeri

 

Numeri per assassini
DI MARCO TRAVAGLIO
Qualche dato sulla guerra in Ucraina: non della Pravda, ma dell’Institute for the Study of the War (Isw) americano, think tank neocon ultra-atlantista e filo-ucraino: i russi controllano circa il 20% del territorio ucraino (oltre 115 mila kmq.): la Crimea annessa nel 2014, l’intero Lugansk, l’85% del Donetsk, l’80% della regione di Zaporizhzhia, il 76% di quella di Kherson (fino al fiume Dnepr), più vari territori in quelle di Sumy, Kharkiv e Dnipropetrovsk. Nel 2022, subito dopo l’invasione, erano giunti a occupare un 27% a macchia di leopardo, poi il ridislocamento delle truppe nelle aree più strategiche per i negoziati di Istanbul e le ritirate per la prima controffensiva ucraina (l’unica riuscita) li avevano sensibilmente ridotti. Nel 2023 la seconda controffensiva ucraina fu un disastro: 584 kmq persi in un anno. Da allora Mosca non smette di avanzare e Kiev di arretrare. Nel 2024 l’armata russa ha conquistato altri 4.168 kmq: 347,3 al mese. Ma con un picco-record di 725 a novembre. Poi nel 2025 si è tornati alla media precedente, fino a 634 kmq in luglio, 594 in agosto, 447 in settembre, 461 in ottobre e 701 in novembre. Anche per le stime dell’Isw, che Mosca contesta come riduttive, le conquiste russe del 2025 superano di oltre 2 mila kmq quelle del 2024.
Da due anni la musica non cambia, né potrà farlo in futuro, se non in peggio per gli ucraini: l’esercito si assottiglia sempre più per i morti, i mutilati, i mancati ricambi, le diserzioni dal fronte e le fughe dal reclutamento forzato, mentre i russi continuano ad arruolare 30 mila volontari al mese. Le armi a Kiev scarseggiano perché gli Usa non ne regalano più (e ora minacciano di ritirare pure l’intelligence satellitare), ma le vendono agli europei, che però hanno le casse e gli arsenali vuoti. E poi c’è l’aspetto che sfugge a chi misura la guerra col righello per fingere che non sia persa: la qualità dell’avanzata russa dopo la faticosa presa di Pokrovsk (14 mesi di assedio), che ha sbriciolato quel che restava della linea fortificata a ferro di cavallo eretta dalla Nato dal 2014 per separare il Donbass secessionista dal resto del Paese e impedire sfondamenti filorussi e russi. Dietro quello snodo militare, logistico e industriale, non ci sono più barriere per arginare i russi verso Zaporizhzhia, Dnipro e Kharkiv (dopo il crollo di Kupiansk): le nuove trincee, lautamente finanziate dalla Nato, non si sono mai viste perché la cricca di Kiev s’è rubata pure quei fondi. E ora in Donetsk sta cadendo anche Seversk, tra Lyman e Kostantynivka, favorendo l’avanzata russa verso la roccaforte Slovjansk. Chi sabota il negoziato di Trump raccontando che il fronte è in stallo, o addirittura che gli ucraini resistono e possono vincere è un criminale che li vuole tutti morti.

Sunto

 

Campana a morto
DI MARCO TRAVAGLIO
Ricapitolando. Secondo i vertici Nato, “dobbiamo essere pronti alla guerra e a un livello di sofferenza come i nostri nonni e bisnonni: adottare una mentalità di guerra, perché il momento di agire è ora” (Rutte), anche con un “attacco preventivo alla Russia” (amm. Cavo Dragone). Per la Francia, “bisogna tornare ad accettare di perdere i propri ragazzi, di farsi male” (gen. Mandon). Per la Ue, “l’Europa deve prepararsi alla guerra con la Russia” (Von der Leyen e Kallas). Per i Servizi tedeschi, “non dobbiamo dormire sugli allori pensando che la Russia non attaccherà la Nato prima del 2029: siamo già nel vivo dell’azione” (Jager). Per Leonardo, “non sta finendo la guerra, sta iniziando la guerra nuova. Dobbiamo mettere su queste tecnologie (gentilmente offerte da Leonardo, ndr), sennò ci sterminano… Da Mosca a Roma in tre minuti arriva un missile non ipersonico balistico che porta più di una testata nucleare. Per riconoscere la minaccia e valutarla ci vogliono 12 minuti, neanche il tempo di salutare i familiari… Ho paura come padre di tre figli, come cittadino, come europeo” (Cingolani). Per il governo italiano, “il Ponte sullo Stretto ci serve anche per un’evacuazione in caso di attacco da Sud” (Tajani).
Questa è la narrazione dell’Europa ufficiale da quando Trump minaccia di far scoppiare la pace in Ucraina. Poi c’è la narrazione russa: “È ridicolo pensare che la Russia attaccherà l’Europa, ho detto centinaia di volte che non abbiamo intenzione di combattere contro l’Europa: se volete lo metto per iscritto. Se però l’Europa decidesse di combattere contro di noi e lo facesse, saremmo pronti fin da ora. E potrebbe verificarsi molto rapidamente una situazione in cui non avremmo nessuno con cui negoziare. Non come in Ucraina, dove stiamo agendo in modo chirurgico” (Putin).
Ciascuno è libero di valutare la sincerità e l’attendibilità delle due opposte propagande. Ma è ciò che arriva alle opinioni pubbliche in Europa e in Russia. Secondo voi, che effetto fa? I geni che ci sgovernano temono che sempre più gente preferisca la narrazione russa a quella europea. E apparecchiano scudi “democratici”, battaglioni di hacker per la cyberwar, leggi liberticide, filtri social, bavagli, guinzagli, censure, retate, espulsioni per farci sentire solo la loro campana. Nessuno è colto dal dubbio che il problema sia proprio la loro campana. Cioè che crollo di credibilità e consenso dei governi europei non dipenda dalle quinte colonne infiltrate dall’Impero del Male nell’Impero del Bene, ma da ciò che dicono i rappresentanti dei “buoni”. Anziché buttare trilioni in armi e guerre ibride, forse basterebbe un bravo consulente di comunicazione. Che, tra l’altro, costa molto meno.

venerdì 12 dicembre 2025

12 dicembre 1969

Cinquantasei anni fa la strage avvolta nel mistero eterno. Per tutti quelli che minimizzano il “Nero perdi sempre.” 



Ciao decenza!

 

Se un involucro plastico contenente una ministra si permette di rispondere così, allora è sdoganato tutto. Allora possiamo anche girare per strada vestiti da dervisci importumando chicchessia! Siamo autorizzati a far tutto, la decenza è seppellita!



L'assetato di Krana!

 

Rep.-Stampa, ultimo capitolo della fuga di Elkann dall’Italia
DI GIANNI DRAGONI
Se fosse un film il titolo potrebbe essere “Prendi i soldi e scappa” oppure “La grande fuga”. La parabola della dinastia Agnelli-Elkann da più di dieci anni oscilla come un pendolo tra Torino e Amsterdam. La decisione di vendere gli ultimi pezzi dell’editoriale Gedi, con Repubblica e La Stampa, suggella l’addio all’Italia di John Elkann. Con buona pace di Carlo Calenda, che ripete in maniera ossessiva di non venire intervistato dai giornali di Elkann perché critica Stellantis. Chissà se il nuovo editore gli darà più spazio.
John Elkann viene designato dall’Avvocato Gianni Agnelli come successore nel 1997, a soli 21 anni, ma prende le redini dell’impero nel maggio 2010, quando viene nominato presidente della Giovanni Agnelli & C., l’accomandita di famiglia da cui discende tutto il gruppo attraverso la holding Exor, controllata al 55% e quotata. L’anno successivo John diventa anche presidente di Fiat, al posto di Luca Cordero di Montezemolo, mentre l’ad è Sergio Marchionne. E dopo due anni comincia la migrazione verso Amsterdam. Nel 2013 Fiat Industrial, la società di macchine agricole, si fonde con l’americana Case New Holland e sposta la sede legale nella capitale olandese. Perché Amsterdam? Il motivo è semplice: le tasse sulle imprese sono più basse rispetto al fisco italiano.
Nel 2014 l’ex Fiat segue la stessa strada. Fca sposta la sede legale ad Amsterdam e la sede fiscale a Londra, dove gli eredi Agnelli sono a loro agio, Exor è il principale azionista del prestigioso settimanale The Economist, con il 34,7%. Un giornale che mantiene autorevolezza e continua a fare profitti (48,1 milioni di sterline l’utile operativo nel bilancio al 31 marzo 2025), a differenza delle testate italiane di Gedi, probabilmente perché continua a essere un giornale libero senza piegare la schiena agli interessi dei suoi padroni. Gedi perde 102 milioni nel 2023 e 45 milioni nel 2024. Nel 2015 trasloca ad Amsterdam la Ferrari. Nel 2016 la raggiungono Exor e la controllante, la vecchia accomandita che diventa Giovanni Agnelli Bv. Il 16 gennaio 2021 nasce Stellantis, dalla fusione tra Fca e la francese Psa. E la sede dov’è? Di nuovo ad Amsterdam.
In questo passaggio c’è un segno tangibile della ritirata degli Agnelli-Elkann dall’Italia, perché la partecipazione nel gruppo automobilistico scende al 15,5%. La crisi di Stellantis è la plastica dimostrazione del disastro della gestione industriale targata Elkann. Nel primo semestre di quest’anno la produzione di auto in Italia è diminuita del 33,6% a 123.905. Ad aumentare sono solo gli ammortizzatori sociali, che coinvolgono oltre metà dei dipendenti.
Di fronte alla crisi Elkann vende. Nel 2019 Fca vende Magneti Marelli per 5,8 miliardi di euro al fondo americano Kkr (che nel 2024 compra anche la rete fissa di Tim con l’assenso del governo Meloni). Exor e gli altri soci incassano un dividendo straordinario, ma l’azienda affonda per i debiti, perché Kkr fonde Marelli con la controllata giapponese Calsonic Kansei appesantendola dei debiti contratti per l’acquisto. Ora Kkr tratta la vendita al gruppo indiano Motherson.
Un altro gruppo indiano, Tata, compra Iveco da Exor per 3,8 miliardi, operazione firmata a fine luglio. I camion agli indiani, il ramo difesa e armi invece passa al gruppo statale Leonardo, che paga 1,7 miliardi (inclusi i debiti finanziari), più del doppio dell’offerta iniziale (750 milioni). Elkann è bravo a trattare e il governo lo asseconda.
A fine 2024 Stellantis vende il 50,1% di Comau al fondo americano One Equity Partners. Elkann spreme anche Ferrari. Nel marzo scorso Exor vende il 4% della società e incassa 3 miliardi. Le azioni Ferrari crollano, il 26 febbraio quotavano 483,1 euro, ai massimi, adesso sono a 314,4 (-35%). In F1 è un flop dopo l’altro: l’ultimo mondiale vinto è quello costruttori nel 2008.
Disastro Juventus. L’ultimo scudetto risale al 2020, i bilanci sono in rosso da nove anni consecutivi per 1 miliardo di perdite, ripianate con quattro aumenti di capitale. La società di criptovalute Tether ha comprato l’11,5%, S&P l’ha definita “opaca”. Tether vuole crescere, ma Elkann la tiene a distanza. Tether ha nominato nel cda un dentista tifoso della Juventus. Ma quanto durerà?

Attorno al desolato

 

Taja’, nun ce lassà
DI MARCO TRAVAGLIO
Vogliono portarci via pure Tajani, il ministro degli Esteri “fino a un certo punto”. Lo fa intendere Pier Silvio B., azionista di maggioranza di Forza Italia per via fidejussoria, che insieme alla sorella continua a dare ordini al partito e pure al governo senza che nessuno faccia notare l’oscena anomalia. Nemmeno nel cosiddetto Terzo mondo (cosiddetto, sennò ci fa causa il Terzo mondo) le aziende posseggono quote del Parlamento: in Italia sì. Dopo aver promosso la Meloni a “miglior premier d’Europa” perché ha appena fatto risparmiare alla holding di famiglia un bel po’ di tasse e accantonato la seccante idea di tosare gli extraprofitti delle banche, il noto figlio di suo padre si dedica al povero Tajani: “Provo vera gratitudine per lui, i vertici hanno tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre. Ma oggi servono facce nuove e idee nuove”. E tutti sanno quanto tenesse suo padre ai giovani, ma soprattutto alle giovani, specie se minorenni. Come “faccia nuova”, la Famiglia arcoriana ha in mente il ras calabro Roberto Occhiuto, passato dalla Dc al Ppi al Cdu a FI al Ccd all’Udc a FI, consigliere comunale dal ’93, deputato dal 2008, due volte presidente della Calabria: praticamente un neonato. Ma Tajani, all’ennesima ingiunzione di sfratto del padroncino, ha reagito bene: “Sul rinnovamento siamo in perfetta sintonia. Stiamo già facendo emergere molti giovani, penso al segretario nazionale dei giovani”. Che, voi non ci crederete, ma è giovane.
Noi non abbiamo titolo per metterci il dito, ma non comprendiamo che cosa si rimproveri a Tajani. Tutti, alla dipartita del Santo, davano per morta anche FI. E invece esiste ancora. È vero che B. da morto prende molti più voti di Tajani da vivo (o quel che è): sia da chi non ha ancora saputo che B. è morto, sia da chi non ha ancora capito chi fosse B. da vivo. Ma un minimo di gratitudine per Antonio l’Imbalsamatore non guasterebbe: quel 7% di consensi a un partito senza senso, senza idee, senz’anima e senza futuro, buttalo via. Chi altri, nuovo o usato, ci riuscirebbe? Pensa e ripensa, alla fine l’unica spiegazione di tanto astio è che Tajani, nel suo piccolo, forse senza volerlo, è ancora incensurato: manco un avviso di garanzia. E che delfino sei, senza almeno un processo? Ti manca il quid che invece Occhiuto può vantare: una bella indagine per corruzione, che l’estate scorsa lo indusse a bruciare i magistrati sul tempo, ove mai nutrissero cattive intenzioni, dimettendosi da sgovernatore per ricandidarsi subito, senza dare il tempo agli alleati di trovare uno un po’ meno pericolante. E poi quelle tre auto blu (due per sé e una per la famiglia), che a destra fanno sempre curriculum. Tra uno digiuno e uno che viene già mangiato, non c’è partita.

L'Amaca

 

Una cucina grande come il mondo
di Michele Serra
In quanto cuoco e sguattero non occasionale, anzi quasi quotidiano, mi sento anche io, per la mia milionesima parte, patrimonio mondiale dell’umanità, angelo del focolare così come i manuali di economia domestica definivano “mogli, madri e fanciulle”. Ne sono orgoglioso, e in particolare rivendico il largo primato che, in casa mia, il cibo preparato in casa ha nei confronti di quello ordinato con una app.
Incassato il successo, e detto che ogni successo implica la responsabilità di esserne degni, abbiamo due compiti da svolgere. Il primo è battersi perché cucinare rimanga, appunto, un’attività di massa, parte della cultura quotidiana. Almeno nelle grandi città si ricorre all’asporto in misura crescente, soprattutto i giovani: l’organizzazione del lavoro e del tempo libero prevede sempre meno tempo per cucinare in casa.
Il secondo compito è tenere bene a mente che la cucina italiana ha potuto giovarsi, lungo i secoli, di una fantastica ibridazione di ingredienti e di culture, mettendo a profitto il nostro essere al centro di migrazioni (e occupazioni militari) che abbiamo saputo trasformare in ricchezza culturale. Cucina araba, spagnola, francese, mitteleuropea, spezie orientali, ingredienti d’oltreoceano come la patata, il mais e il pomodoro: l’identità della cucina italiana, e non solo della cucina, è forte perché è ibrida. Ogni popolo chiuso langue, e ha identità debole, e ogni popolo aperto prospera, e ha un’identità forte. Dal cuscus della Sicilia occidentale al canederlo delle valli di Nordest, possiamo permetterci una biodiversità gastronomica (credo si possa definirla così) inimitabile nel mondo. Valorizzarla vuol dire capire che non esiste un concetto cristallizzato di “identità”, cucina compresa. I sapori viaggiano, oggi mangiamo ciò che non mangiavamo ieri, domani ciò che non mangiamo oggi.

giovedì 11 dicembre 2025

Fantasticamente

 



Dico, ma non lo trovate fantastico, meraviglioso, incredibilmente affascinante? 
Che cioè Dudi, il figlio di colui che per trent'anni ci afflosciò intellettualmente, durante l'Era del Puttanesimo, non curante di tutto quello che dovrebbe essere normalità, visto che in democrazia, di default, chi detiene un potere mediatico non dovrebbe avere influenze o possedimenti in politica - ciao core!- ha appena avuto la sfrontatezza di liquidare il fagocito Tajani dal perenne rutto libero, asserendo che servano forze e facce nuove nel partito azienda fondato dal babbo, assieme all'amico fraterno Dell'Utri colluso con la mafia.

Ma il nocciolo non sta nello sfanculamento del cacciatore di laute cene, bofonchiante e per l'anomalia di qui sopra pure ministro degli Esteri! 

Sta nell'incredibile dichiarazione di uno che dirige un enorme concentramento di potere mediatico chiamato Mediaset e che si permette il lusso di confermare l'appropriamento indebito di un partito politico; sta nell'affloscio democratico, nella stortura del potere, risiede nel conflitto d'interesse mai affrontato e combattuto da chicchessia. 

In questa nazione allo sbando un AD di una società con tre canali televisivi nazionali si permette il lusso di licenziare un segretario di partito perché considera lo stesso di sua proprietà, alla faccia di statuti, direzioni politiche, consigli, organi direttivi. 

E questa anomalia è la causa di tutto quanto sta infierendo sulle nostre libertà, sulla nostra dignità. 

E nessuno, dal Colle allo strapuntino di un'opposizione acefala obietta alcunché. Nulla di nulla! 

Che tristezza!   

Analisi

 

Ora è l’Europa che vuole esportare la democrazia
DI ELENA BASILE
Siamo di fronte a un’operazione di manipolazione propagandistica inquietante. Vi partecipano politici, accademici, diplomatici e giornalisti europei. La nuova dottrina militare di Trump è essenzialmente basata sulla registrazione del fallimento delle politiche neoconservatrici di esportazione della democrazia attraverso le guerre. Il presidente registra la sconfitta in Ucraina. Come ha affermato l’Alto Rappresentante estone, Kaja Kallas, si voleva smantellare la Federazione russa in una guerra che doveva continuare fino all’ultimo ucraino. Trump riconosce le ragionevoli e legittime preoccupazioni di sicurezza della Russia e pone fine all’espansionismo della Nato, alleanza militare che dopo il crollo dell’Unione sovietica nel 1991 è stata utilizzata in modo offensivo ad ampio raggio. Tutti ricorderanno le guerre in Afghanistan, Iraq, le Primavere arabe, il regime change in Siria, l’attacco alla Libia.
Trump afferma inoltre nella nuova dottrina, in continuità con Obama e Biden, che l’Europa deve pagarsi la sua difesa. Ha intenzione di smantellare la Nato? Non credo, nonostante il coro impazzito degli analisti occidentali. L’Europa sarà il braccio armato della Nato per interessi statunitensi. Gli Stati uniti si impegneranno in America Latina rivitalizzando la dottrina Monroe con metodi contrari alla più modesta parvenza di rispetto del diritto internazionale, e si concentreranno nel Pacifico per affrontare la sfida dell’unico rivale strategico: la Cina. Il partenariato con Mosca basato su interessi economici potrebbe servire scopi geopolitici: staccare Mosca da Pechino anche se il risultato appare improbabile. In Medio Oriente, che data la sufficienza energetica raggiunta dagli Usa, ha perso la sua centralità, Washington si propone una tregua armata basata sulla complicità di Turchia e amici sunniti.
La risposta delle élite europee a questo documento trumpiano è surrealistica. Non vi è nessuna reazione rispetto alla violazione del diritto internazionale e umanitario in Medio Oriente, dei diritti individuali massacrati con le esecuzioni extragiudiziarie in Venezuela e nel progetto neocoloniale in America Latina. L’attenzione è concentrata sulla mediazione con Putin e sulla fine dell’espansionismo della Nato. Siamo di fronte al paradosso: l’Europa continentale e mediterranea che si è opposta al Vertice di Bucarest nel 2008 all’inserimento di Ucraina e Georgia nella Nato, che si è dovuta allineare malvolentieri dopo il colpo di Stato a Kiev nel 2014 a una guerra che ha portato benefici energetici, economici e geopolitici agli Stati Uniti calpestando gli interessi economici ed energetici dei popoli europei e riducendo l’Ue ad appendice della Nato, dunque questa Europa, brutta copia dello Stato profondo statunitense espresso nei Dem e nei neocon repubblicani come Bush e Cheney, critica la dottrina Trump perché vorrebbe portare avanti, anche da sola, le guerre di esportazione della democrazia a interesse esclusivo del dollaro. La situazione è surrealistica. Sui giornali mainstream, intellettuali come Ezio Mauro o competenti giornalisti come Milena Gabanelli, si disperano individuando l’essenza dell’Europa nell’espansionismo della Nato e nella continuazione della guerra in Ucraina, nell’indifferenza delle vittime di una guerra di attrito il cui numero ha raggiunto cifre incompatibili con la nostra morale e civiltà. Nella manipolazione mediatica, a cui purtroppo si associano i rappresentanti delle maggiori istituzioni politiche e culturali europee, la difesa dell’Europa contro il post fascismo di Trump (di cui si nega la continuità con la plutocrazia del predecessori Clinton, Bush, Obama e Biden) sarebbe costituita dalla continuazione della guerra contro la Russia e per esportare la “democrazia/Nato” nel mondo. Salvare l’Europa dalla crescita delle destre che in Trump trovano un punto di riferimento, non significa ritornare all’umanesimo, ai valori di mediazione e dialogo, alla diplomazia e alla prevenzione dei conflitti, ma nella visione distorta delle oligarchie illiberali europee e di tutta la loro classe di servizio, si sostanzierebbe nella propaganda militarista, in Bruxelles che non alza bandiera bianca, nella militarizzazione delle coscienze, nelle guerre dei neocon.
Sembra di vivere un incubo. I naufraghi annaspano nella tempesta distopica. E, come in Approdo per noi naufraghi torniamo a chiedere, ai cantori dell’Occidente bellicista, neocoloniale e genocida, veramente volete questa società per i vostri figli e nipoti? Volete il riarmo e la leva obbligatoria, in un clima di insicurezza perenne e di tregua armata con Mosca? Questo è quanto volete salvare dell’Occidente, della nostra storia di civiltà e barbarie? Non l’Europa di Edgar Morin, potenza civile, ma quella delle lobby delle armi e di Israele, l’Europa guerrafondaia e appendice dell’imperialismo statunitense?

Cambiamenti

 

L’infiltrato
DI MARCO TRAVAGLIO
E niente: dopo Otto e mezzo mi ero convinto che Trump non conta più niente e sta per ritirarsi dai negoziati, mentre le sorti della guerra sono tutte in mano alla nostra bella Ue, che per essere proprio perfetta deve sposare l’Agenda Draghi (ove mai la trovasse), quindi scegliere finalmente “fra la pace e il condizionatore acceso”. Avevo già pronti gli spilloni e la bambolina col broncio e il ciuffo giallo del Puzzone per la macumba, così che, sparito lui dalla scena, la nostra Ue tornasse a rifulgere più bella e più superba che pria, d’amore e d’accordo con gli americani, che fino a Trump han fatto il nostro bene. Poi mi sono imbattuto, in fondo a pagina 8 di Rep, in un’intervista agghiacciante. Che mai dovrebbe uscire su un giornale perbene se funzionasse lo “scudo democratico” contro la guerra ibrida putiniana, ma pure trumpiana (che è la stessa cosa). Parla Cesare Maria Ragaglini, già consigliere diplomatico di D’Alema, Amato e B., sherpa di Prodi al G8, ambasciatore all’Onu e a Mosca. Incipit: “Nella storia non ricordo né guerre giuste né paci giuste. Sull’Ucraina serve un sano realismo, se vogliamo fermare questa carneficina”. Apperò. “Prima di Trump gli Usa non hanno mai amato l’Ue. Solo che prima c’era la Gran Bretagna che pensava a mettere i paletti a una maggior integrazione Ue”. Non quei fottuti sovranisti di Orbán&C: la mirabile Gran Bretagna. “L’Europa è stata in una posizione di totale sudditanza nei confronti degli Usa senza far valere i propri interessi geopolitici ed economici. Non ha mai assunto un’iniziativa diplomatica. Questa guerra, tornando indietro al 2014, si poteva evitare”. Oddìo.
E gli eroici Volenterosi? “Del tutto velleitari. Perché mai la Russia dovrebbe accettare delle truppe Nato in Ucraina quando l’ha invasa proprio per evitare che Kiev entrasse nella Nato?”. E gli europei? “Prigionieri del mito della vittoria ucraina, quando tutti sapevano che non sarebbe successo. Nel novembre ‘22 lo disse pure il capo degli stati maggiori Usa”, generale Milley. E ora? “Non si tratta di darla vinta a Putin, ma di leggere la situazione con realismo. Gli europei sono fuori gioco per l’oggettiva incapacità di proporre soluzioni concrete. Perciò Trump ci ritiene inefficaci nel fermare il conflitto”. E sul tavolo c’è un solo piano: quello concordato da Trump con Putin: “Se vogliamo arrivare alla pace dobbiamo tutti mettere da parte questioni non attinenti alla realtà … Alla fine quello che conta è un compromesso per finire questa guerra”. Ma gli euroatlantisti di Rep si sono accorti della falla nella sicurezza? Che aspetta chi di dovere ad arrestare il putribondo figuro e a organizzare una marcia riparatoria con bandiere azzurro-stellate e gialloblu? Guai se queste minacce di pace restassero impunite.

Il Bavoso Guerrafondaio

 

Il Bavoso, per compiacere la Caciottara, sta facendo una disgustosa propaganda bellicista, per inculcarci l’idea che la guerra è bella e necessaria.
Sfanculatelo in modalità Jingle Bells!



L'Amaca

 

Com’è antica la guerra
di Michele Serra
Le foto aeree di Gaza mostrano una distruzione quasi totale. Metro per metro, un annientamento che si estende oltre l’orizzonte. Una visione da evo antico, quando la presa di una città spesso valeva la sua cancellazione fisica, così che i superstiti non potessero fare altro che andarsene. Molte città (una per tutte, Venezia) sono state fondate da profughi in fuga dagli invasori, ma non risulta che per i gazawi questo sbocco sia verosimile. Rimangono lì, sulle loro macerie, con tende e materassi piazzati laddove c’erano muri, pavimenti, cucine, mobili. In una condizione primordiale: primordiale come la distruzione e come la tenacia della vita.
I discorsi sulle guerre a noi contemporanee sono intrisi di tecnologia, i droni, l’intelligence, la sofisticazione dei sistemi di difesa e di offesa. A cose fatte, però, ci sono montagne di cadaveri sotto montagne di macerie, come dall’alba dei tempi, i villaggi che bruciano, le città distrutte, la cenere e la polvere che assorbono e calcificano la carne e il sangue.
La vera opposizione ideale alla mostruosa riqualificazione di Gaza come resort turistico sarebbe lasciarla tale e quale, una specie di enorme museo a cielo aperto della guerra. Da visitare con le scolaresche in fila indiana, chilometri nel nulla, una città sbriciolata. È un’ipotesi puramente teorica, l’impulso umano a ricostruire e ricominciare a vivere è incontenibile. E alla rimozione delle macerie si somma, come è normale, la rimozione del dolore, perché la vita deve continuare. Ma quasi dispiace che una testimonianza così precisa e lampante del potere di distruzione degli uomini possa scomparire. Un museo fatto solo di quelle foto e di quelle macerie basterebbe a fare di Gaza (come Leningrado, come Dresda, come Hiroshima) una città simbolo.

mercoledì 10 dicembre 2025

Robecchi

 

Follia. Hind Rajab come Anna Frank: un paragone che sarà vietato per legge
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Si può regolare (cioè: vietare) per legge un paragone storico? Una similitudine tra epoche e attori della tragedia umana, un’analogia operativa o ideologica, una riflessione storica? Il ddl Delrio, cosiddetto “sull’antisemitismo”, tra le altre cosette, contiene anche questa prelibatezza censoria, costruita ad hoc, una vera “legge ad paesem”, applicabile solo e soltanto allo Stato di Israele. Si sa che l’accezione di “antisemitismo” su cui poggia il ddl è quella di Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), benedetta da Israele e accolta come base da qualche istituzione, e che quella definizione punta essenzialmente a una cosa: far coincidere ogni critica allo Stato di Israele, alle sue azioni, alla sua politica di sterminio e pulizia etnica, con un sentimento antisemita. Molti studiosi e storici, anche ebrei, contestano quella definizione, dicendo che può essere strumentalmente usata per limitare la libertà di opinione e di critica, e la cosa è evidente, dato che si accetta la storica politica dello Stato israeliano, e di molti fiancheggiatori, di coprire vergognosamente le proprie disumane malefatte con l’ombrello dell’Olocausto. Un vecchio trucco che funziona sempre meno e che non a caso si vuole trasformare in legge.
“Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti” è uno dei punti di quella definizione. Cioè: se dite che quel che sta succedendo a Gaza ricorda quel che successe nei campi di sterminio nazisti, o se notate che un campo profughi palestinese somiglia al ghetto di Varsavia, o se certe affermazioni di ministri e politici e cittadini israeliani ricordano i deliri suprematisti dei gerarchi nazisti (come la definizione di “non umani” riferita ai palestinesi), o se pensate che deportazioni, torture, uccisioni deliberate di donne e bambini per mano di Idf ricordino certe imprese agghiaccianti delle SS, potreste incorrere in censura o sanzioni in quanto antisemiti. È una norma che non vale per nessuno Stato, solo per Israele, e colpisce che la definizione fu elaborata dieci anni fa: l’analogia tra Tel Aviv e il Terzo Reich non nasce con Gaza, insomma.
Si sa che i paragoni storici non sono mai in scala uno a uno, che sono più similitudini e suggestioni che ripetizioni meccaniche di fatti e modalità. Eppure le analogie tra le azioni di Idf e quelle delle truppe di occupazione naziste sono innegabili, a partire dalla “scientificità” dell’oppressione del popolo palestinese nei territori occupati e a Gaza, per arrivare a molte modalità operative (i molti medici che riferiscono di bambini uccisi con un colpo singolo alla testa sono solo uno di quei casi, la fame usata come arma è un altro esempio). Vietare di dirlo per legge non è solo un’assurdità, è anche una specie di lasciapassare perché certi crimini contro l’umanità vengano normalizzati, almeno se li commette Israele. In pratica, si tenta di vietare ogni critica allo Stato di Israele, accusato di genocidio e i cui crimini di guerra e contro l’umanità sono abbondantemente provati (anche da evidenze fornite sui social degli stessi carnefici). La storia di Hind Rajab, la bambina (5 anni) assassinata insieme ai membri della sua famiglia e ai soccorritori dai militari israeliani, sarà per sempre un simbolo per il popolo palestinese e per chi vuole giustizia. Hind sarà per sempre una piccola Anna Frank, legge o non legge, perché se non vuoi farti paragonare ai nazisti la prima mossa è non comportarti come i nazisti. Ecco, per Israele è un po’ tardi: già fatto.

Chiarimenti

 

Il gioco Usa è sempre sporco, eppure noi ci roviniamo da soli
DI DANIELA RANIERI
Ma veramente qualcuno credeva che a Trump potessero interessare il Donbass e la Crimea? Che alla Casa Bianca qualcuno potesse credere alla frottola del “c’è un aggressore e un aggredito”, all’Ucraina che “difende anche la democrazia europea difendendo sé stessa”? Qualcuno ancora crede che interessassero a Biden? A malapena i due anziani sapranno dove si trova Kiev sulla cartina. Adesso forse è chiaro anche ai più fanatici tra i bellicisti a oltranza che l’Ucraina, col suo popolo eterogeneo, era solo una pedina dello sporco gioco degli americani in Europa.
Trump, come già altre volte, ha solo esplicitato quello che gli altri presidenti americani, sedicenti democratici, dissimulavano dietro coltri di perbenismo e finta bontà: gli Usa considerano l’Unione europea un mero strumento burocratico per tenere a bada i mercati della provincia occidentale e non farli confliggere con quello imperiale; un simulacro, nato dopo la ricostruzione (saremo sempre in debito per il piano Marshall), per intortare i cittadini europei con la favoletta della pace e dei valori superiori della liberal-democrazia. Con il documento che delinea la Strategia di sicurezza nazionale, Trump ha reso palese l’obiettivo degli Usa: disunire i 27 paesi dell’Unione Europea, che in realtà avrebbero dovuto iniziare a smettere di credere a Babbo Natale già dalla Brexit, a favore di un’ondata sovranista e autarchica che li renda più deboli sul piano economico e militare. L’Ue aveva già rinunciato alla dignità scegliendo di appoggiare lo scellerato progetto della Nato a guida Usa di muovere guerra alla Russia usando l’Ucraina, un Paese oggi distrutto, con 6 milioni di emigrati, una generazione falcidiata sul campo, una classe dirigente decimata dalla corruzione, un presidente delegittimato a cui resta solo di obbedire a ciò che Trump e Putin decideranno per lui. La Disunione Europea, dopo aver acconsentito a dare il 5% del suo (nostro) Prodotto Interno Lordo alla Nato e di ingrassare l’industria delle armi, soprattutto americane, a scapito dello Stato sociale (un’invenzione europea), sta progettando di mandare i figli delle sue patrie al macello, ciò che completerà la sua parabola nella Storia.
Intanto i giornali padronali si sgolano: “Putin minaccia l’Europa”; quando Putin ha detto l’esatto contrario: “Non abbiamo intenzione di andare in guerra con l’Europa. Ma se l’Europa volesse combattere contro di noi, saremmo pronti fin da subito”. Putin ha detto l’ovvio: cari europei, visto che vi state riarmando allo spasimo e state insufflando i vostri popoli di retorica bellicista, anche se essi sono refrattari a fare la guerra a un Paese che non è loro nemico, sappiate che, se proprio volete, ci troverete pronti” (al contrario dell’Italia, come confessò il ministro Crosetto).
Meloni, che ha preso i voti promettendo guerra alle potenze sovranazionali, ubbidisce a Trump perché ciò le consente di fingersi coerente (“siamo sempre stati per la sovranità nazionale, non europea”), in realtà autodenunciandosi quale capo di un governo-colonia. Il ministro della Guerra italiano, già mercante di armi, fa la colomba: non istituiremo proprio una leva volontaria, come in Francia (Macron, distruttore di welfare e pensioni, promette ai “volontari” 800 euro lordi per 10 mesi) e in Germania (dove, se i volontari saranno pochi, si ricorrerà ai proscritti, come fosse in vigore la legge marziale); si tratta di una “riserva selezionata e meccanismi per attirare le persone, incentivi economici”; una cinica mossa che affonda il coltello nella disuguaglianza di classe che domina l’Occidente, giacché si sa che in assenza di un lavoro dignitoso, ed escludendo la carriera ecclesiastica come in epoca feudale, saranno i giovani poveri a dover accettare lo stipendio da militari, e allora, non potendo essere dignitosamente lavoratori “salariati” come sognarono i nostri padri, saranno a tutti gli effetti soldati.