Sulla stessa barca
di Michele Serra
I toni, i modi, i contenuti politici e umani, insomma le parole con le quali Carlo Moroni, romano, 70 anni, ha spiegato la sua scelta di scendere da Flotilla, sono esemplari. Prima di tutto per il rispetto e la fraternità che esprime per chi è rimasto a bordo, facendo una scelta contraria alla sua.
Si tratta di una scelta difficilissima, nell’uno e nell’altro caso. In un contesto drammatico e rischioso: non teorico, maledettamente concreto, così come Flotilla ha deciso debba essere la pratica politica, esposta anche personalmente, fisicamente, ai venti terribili della Storia. Secondo i canoni triti, e anche tristi, della sinistra non solo italiana, chi arretra è un traditore, chi passa il limite un pazzo estremista. Leggete l’intervista a Moroni, e finalmente troverete la misura (la giusta misura) che abbandona questa vecchia e lacerante contrapposizione.
Moroni si sente compagno di ogni altro navigante di Flotilla, ma è per la trattativa. Era disposto “a portare la barca fino al 51esimo miglio dalle coste di Gaza, non a entrare nelle acque che Israele considera sue. Mi sembra un rischio eccessivo”. Chissà se sui social qualche esaltato (nella comodità della sua cameretta) gli dà del disertore, ignorando la fatica, l’azzardo, il coraggio fino a qui messi in campo da Moroni. E chissà se l’opposto moralismo “riformista” oserà contrapporre al coraggio di chi fa rotta per Gaza l’accusa di stupido oltranzismo. Chissà, infine, se qualcuno comincerà a capire che quelli che sono scesi, e quelli che proseguono il viaggio, sono sulla stessa barca.
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