I reporter francesi: “Gaza, tutto ok”. Ma il “tour” è pagato da Tel Aviv
DI YUNNES ABZOUZ
A luglio, quando Emmanuel Macron non aveva ancora annunciato la sua intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina, Benjamin Netanyahu ha organizzato un press tour in Israele, interamente spesato, per diverse testate giornalistiche francesi. Il primo ministro israeliano è consapevole del fatto che la sua ostinazione a portare avanti la guerra contro Gaza, definita genocidaria da molte voci internazionali, solleva l’indignazione mondiale. Ma poiché non ha nessuna intenzione di ritardare il suo obiettivo, ovvero l’annientamento della Striscia, ritiene che a Israele resti solo una strada per non perdere definitivamente la battaglia dell’opinione: rafforzare la propaganda. È in questo contesto che, secondo le informazioni di Mediapart, l’ambasciata di Israele in Francia ha invitato un gruppo di giornalisti francesi a partecipare al viaggio stampa, dal 20 al 24 luglio scorsi: “Tutti i Paesi del mondo organizzano viaggi di questo tipo, non c’è nulla di straordinario”, ha spiegato un portavoce dell’ambasciata.
Bavagli e morti. ma la trasparenza “Non era vincolante”
Cinque testate vi hanno partecipato: Le Journal du dimanche (JDD) , Le Figaro, La Croix, L’Express e Marianne. L’ambasciata ha coperto tutte le spese: i voli di andata e ritorno – fatta eccezione per La Croix, che ha chiesto di farsene carico autonomamente – le notti di albergo e i pasti. A parte il quotidiano cattolico e L’Express, le altre testate non hanno ritenuto necessario specificare che i loro articoli erano stati scritti nell’ambito di un viaggio organizzato dall’ambasciata israeliana: “Non era vincolante”, ha giustificato Ève Szeftel, direttrice della redazione di Marianne e autrice dell’articolo. Resta però il dubbio: partecipare ad un viaggio, interamente spesato e organizzato da una delle parti in conflitto – che ha inoltre scelto con cura gli interlocutori cui i giornalisti avrebbero avuto accesso –, passando sotto silenzio tutto questo contesto al lettore, non pone un problema deontologico? “No. La prova è che l’articolo che ho scritto era molto equilibrato”, ha detto Ève Szeftel. Il JDD e Le Figaro non hanno voluto rispondere alle nostre domande. Ricordiamo che dal 7 ottobre 2023, Israele impedisce l’accesso indipendente alla striscia di Gaza ai giornalisti stranieri e che ha ucciso più di 200 giornalisti palestinesi nell’enclave assediata. Il programma del viaggio, che Mediapart ha potuto consultare, prevedeva di portare i giornalisti sui principali fronti dove è attivo l’esercito israeliano: le frontiere a nord, con Libano e Siria, e Gaza. Alla fine, però, i giornalisti non sono potuti andare a Gaza perché, secondo quanto spiegato dall’ambasciata, le autorizzazioni non erano arrivate in tempo. In alternativa, i giornalisti sono stati scortati dall’esercito israeliano al valico di Kerem Shalom, dove si accatastano gli aiuti umanitari: Israele voleva così dimostrare che la responsabilità della carestia a Gaza non è sua, ma delle Ong che rifiutano di trasportare gli aiuti a destinazione. Questa volta, nei loro articoli, il JDD, Le Figaro e L’Express hanno precisato di avere partecipato ad un reportage “embedded” con l’esercito israeliano. Arrivati di domenica pomeriggio, i giornalisti sono stati condotti in un lussuoso albergo di Safed, nella nord di Israele. La sera hanno partecipato ad una cena di benvenuto con Oren Marmorstein, il portavoce del ministero degli Esteri. “Marmorstein ha giustificato la guerra e insistito sulla responsabilità di Hamas nello scoppio delle ostilità – racconta Laurent Larcher, reporter di La Croix -. Ci ha spiegato che Hamas utilizza i civili come scudi umani e che di conseguenza Israele non avrebbe altra scelta che ricorrere ai bombardamenti per eliminare chi intende distruggere Israele”. Il giorno seguente, i reporter sono stati accompagnati a visitare l’imponente dispositivo di sicurezza messo in campo da Israele per colpire Hezbollah al confine con il Libano. Il giorno dopo ancora, sono stati portati al confine con la Siria per incontrare la comunità drusa. Ad ogni tappa del viaggio, i giornalisti hanno potuto raccogliere le testimonianze di alti ufficiali dell’esercito israeliano, di rappresentanti della società civile e anche di persone comuni. Non a caso però lo stesso venditore di pita viene intervistato tanto nell’articolo di Le Figaro che in quello del JDD. “È la strategia del chiaroscuro di Israele – spiega Amélie Férey, responsabile del laboratorio di ricerca sulla difesa dell’Institut français des relations internationales -: sommergere giornalisti, ricercatori, giuristi e operatori umanitari di informazioni, comunicati, foto, per trasmettere le loro argomentazioni e mettere in risalto certi elementi piuttosto che altri”. Al termine dei cinque giorni di visita, solo i giornalisti di La Croix e L’Express hanno preso le distanze dal flusso di informazioni distillato dagli ufficiali israeliani. Il JDD e Le Figaro invece non hanno ritenuto opportuno precisare ai loro lettori che le persone a cui avevano dato la parola erano state accuratamente selezionate da Israele.
La “graziosa casa dall’architettura levantina”
Nel suo articolo, il JDD suggerisce persino che gli incontri con le diverse fonti in Israele fossero avvenuti in maniera spontanea: “Maya Farhat, guida turistica, accoglie il JDD nella sua graziosa casa dall’architettura levantina.,.” , scrive la giornalista del settimanale, controllato dall’imprenditore Vincent Bolloré, vicino all’estrema destra. La stessa persona viene poi intervistata anche da Le Figaro. Comunicazione o giornalismo? Nel caso di Marianne, del JDD e Le Figaro la domanda è lecita. Gli articoli pubblicati da questi media danno ampio spazio alle argomentazioni israeliane, senza cercare di confrontarle con altre fonti indipendenti. Eppure, secondo Laurent Larcher di La Croix, si potevano trovare spunti interessanti al di là del quadro vincolante del viaggio. “Con il giornale avevamo concordato che avremmo partecipato senza obbligo di pubblicare un articolo – ha spiegato il giornalista – perché, dal 7 ottobre, l’unico modo per accedere al fronte è di essere guidati dall’’esercito israeliano. In questo viaggio, come sempre del resto, ho trovato le risposte più sorprendenti negli interstizi, negli imprevisti e nei silenzi, ma anche nelle mie stesse domande”. Il giornalista voleva sapere in particolare se, e in che modo, l’esercito israeliano tiene conto delle potenziali vittime civili quando spara su Hamas o Hezbollah. “È stato sorprendente constatare per esempio che i funzionari israeliani ammettevano apertamente di uccidere dei civili colpendo Hamas”, ricorda Laurent Larcher. A Marianne, le stesse riflessioni etiche non hanno portato allo stesso risultato.
La direttrice: “La redazione mi critica? E allora ci vado io”
In un primo momento, la direttrice della redazione, Ève Szeftel, le cui scelte sul trattamento editoriale della guerra a Gaza sono molto contestate internamente, non aveva previsto di partecipare al viaggio. Poiché la giornalista che si occupa abitualmente di Medio Oriente per il settimanale non era disponibile, Ève Szeftel aveva proposto allora ad un altro reporter, Étienne Campion, di partecipare. Quest’ultimo aveva però subito puntato l’attenzione su una serie di questioni deontologiche che un viaggio di questo tipo, organizzato da un Paese accusato di commettere un genocidio, inevitabilmente solleva: per il giornalista, l’unico modo di partecipare, senza compromettersi deontologicamente, sarebbe stato di raccontare onestamente ai lettori i retroscena di tutta la vicenda. La sua proposta era stata immediatamente respinta dalla direttrice della redazione: “Se è per fare qualcosa alla Checknews (la rubrica di fact checking del quotidiano Libération, ndt), allora, tanto meglio non farla”, gli aveva risposto. Ève Szeftel aveva dunque deciso di andarci lei stessa. Nei due articoli che ha scritto e pubblicato per Marianne non ha mai precisato le circostanze esatte dei suoi reportage. Una scelta che ha pesato molto sulla decisione presa dalla maggioranza dei redattori di Marianne, il 18 settembre scorso, di votare una “mozione di sfiducia” contro la responsabile della redazione. A Mediapart, Ève Szeftel ha spiegato di aver “risposto alla chiamata del giornalismo”: “Nulla sostituisce il fatto di andare sul posto, di vedere, sentire, parlare con la gente”.
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