domenica 20 luglio 2025

Vista su Milano

 

Milano luccicante puntando al cielo ha perso la strada
Come per Mani Pulite è di nuovo scontro tra garantisti e giustizialisti. Ma il secondo boom è stato scelto senza nostalgie
di MICHELE SERRA
Da Tangentopoli sono passati trentatré anni, un terzo di secolo, e niente, a partire dalle carte della Procura, rimanda a quel terremoto che rase al suolo il potere dei partiti della prima Repubblica. Allora venne messo a nudo, con qualche rudezza giudiziaria, un sistema di simbiosi strutturale tra partiti e imprenditori, fondato sulla corruzione. Da moltissimi conosciuto ma da tutti taciuto per l’evidente ragione che era illegale. Conveniente e illegale.
Questa volta è sotto accusa un metodo consolidato, molto disinvolto, molto discusso ma alla luce del sole, di facilitazione/accelerazione delle pratiche edilizie, così che i grattacieli possano sbucare in fretta (ma anche i tre studentati di Rogoredo, Greco e San Leonardo che avrebbero dovuto accogliere 1500 studenti fuori sede e sono bloccati per effetto dell’inchiesta); in più, vengono indagate alcune ambiguità di ruolo tra le parti in causa - costruttori, progettisti, consulenti, amministratori - che gli inquirenti ritengono reato.
(Si spera che il prevedibile dibattito tra giustizialisti e garantisti si attenga, come dovrebbe essere, alla materia dell’inchiestae non cada nella tentazione di un remake nostalgico, anche perché sarebbe una nostalgia molto malposta. Trent’anni fa eravamo tutti molto più giovani, ma anche molto più impreparati all’improvviso, tremendo cozzo tra potere giudiziario e potere politico. L’irruzione delle manette nella Polis sollevò emozione enorme e costruì tifoserie tutt’ora attive, anche se i capi ultras sono attempati. Ma ci vollero poi anni per capire che contare sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, sostanzialmente, rinunciare a fare politica; o disimparare a farla. Chiusa la lunga, dovuta parentesi) Nemmeno Milano è la stessa di trentatré anni fa. Da allora ha subìto - o a seconda dei punti di vista ha scelto - la più rapida e profonda trasformazione della sua storia bimillenaria. Lo skyline è irriconoscibile, irto e scintillante degli acciai e dei vetri di grattacieli sorti a decine. Quartieri che i vecchi milanesi (ma nemmeno tanto vecchi) ricordano modesti e rattoppati, come congelati in un lunghissimo dopoguerra, sono stati ridisegnati ex novo, con enorme rimbalzo sui prezzi delle case. Si chiama “gentrificazione”, e vuol dire: via quelli di reddito basso, che non possono più permettersi di abitare lì e saranno rimpiazzati dai benestanti. Ma vuol dire anche: una botta di energia e di nuova vita.
Quanto alla vecchia “Milano da bere” degli anni Ottanta, con la sua ostentazione di griffe e di ninnoli che parve a molti, compreso chi scrive, una sostituzione futile e pocosostanziosa del vecchio tessuto produttivo industriale, è appena uno sbiadito ricordo di fronte alla vera e propria esplosione turistica, commerciale e ricreativa seguita all’Expo. Locali, movide, ristoranti, mangerie e mescite in certi quartieri non hanno soluzione di continuità, come una filiera infinita di luoghi di ritrovo sempre pieni e in costante mutamento – ho dovuto farmi spiegare che cosa sono i “shisha bar”. I portoni delle case sembrano intrusi tra le vetrine e i dehors che li assediano. Fracasso, chiacchiere in strada, musica, luci accese fino all’alba, molto alcol e una palpabile circolazione di polverine e pastiglie, i residenti con i tappi nelle orecchie e al mattino molto lavoro per la nettezza urbana. Ma la maggioranza rumorosa non conosce orari, e d’altra parte la fine del modello industriale e la diffusione capillare di un vero e proprio personal work (ogni persona uno smartphone, ogni smartphone un’azienda) ha sbriciolato il tempo e lo ha reso disponibile a qualunque uso. A timbrare ancora il cartellino è una minoranza assediata.

Nella sua vecchia struttura urbana, medievale e raccolta, la nuova Milano è riuscita a stipare una quantità inverosimile di punti di ritrovo, vetrine, convivi, showroom dentro i cortili, come se il Salone del Mobile fosse un modello endemico e permanente. Con gli uffici impilati nei grattacieli, e le attività finanziarie nell’alto dei cieli (forse il dito di Cattelan davanti alla Borsa proprio questo vuol dire: se volete capire dove abita il vero potere economico, guardate lassù), tutto il resto della città sembra una immensa colatura di attività umane le più disparate, con forte impronta multietnica, lontana anni luce dall’antropologia impiegatizia, operaia, vetero-borghese e nuovo- ricca della Milano “classica”, quella del primo boom economico, che Giorgio Bocca ha descritto così bene in quel libro fondamentale del Novecento italiano che è “IlProvinciale”. Sceso dalle sue Alpi in una Torino molto formale, inamidata e classista, fu poi stregato e come risucchiato dal vorticoso dinamismo milanese e perfino dalla pacchianeria dei “cumenda” e dalla fame sociale del largo indotto circostante, che voleva buttarsi alle spalle la penuria contadina. Amò profondamente Milano ma la visse e la raccontò, nel pieno del Grande Boom dei Cinquanta e Sessanta, e poi nelle sue fasi di assestamento, come il luogo nel quale la sua antica morale “di montagna” era spazzata via da una modernità febbrile, laboriosa e di pochi scrupoli. “L’onestà non era più di moda, tutti parlavano di soldi, solo i soldi davano rispettabilità”. Più chiaro di così… Ogni giudizio estetico su questa nuova Milano, che possiamo chiamare del Secondo Grande Boom, è ovviamente legittimo. Nell’esaltazione per lo skyline oggi molto simile a quello delle metropoli di Occidente, con qualche decennio di ritardo; così come nella ripulsa, con annesso rimpianto dei caseggiati di ringhiera, anche in pieno centro, dove il popolo si sentiva a casa sua. Il giudizio etico (che comunque non spetta alla magistratura inquirente, il cui prezioso, fondamentale lavoro, da proteggere con intransigenza dalle rappresaglie politiche, è individuare reati, non emettere giudizi morali) è ugualmente controverso, perché la vitalità e la ricchezza di Milano, con relativi vantaggi, sono state costruite anche a prezzo dell’esclusione progressiva non solamente dei “poveri”, categoria dickensiana che non rassomiglia al confuso melting pot sociale delle nuove città; anche dal ceto medio, gli artigiani e i bottegai, gli impiegati pubblici, gli insegnanti, gli studenti non figli di ricchi, per i quali una casa a Milano non è più abbordabile se non per via ereditaria, a patto si possa poi mantenerla. E si sono spostati nell’immenso hinterland, ex milanesi centrifugati.
Il giudizio etico sarebbe poi in buona parte coincidente con il giudizio politico, che non può consistere solo in una somma di convenienze. Ne è valsa la pena? È meglio adesso di prima? Quale prezzo è stato fatto pagare ai deboli? Le politiche sociali del Comune – che pure hanno, a Milano, l’antica tradizione del socialismo filantropico – sono sembrate un argine generoso ma minimo per soccorrere i vecchi esclusi (i milanesi, soprattutto anziani, che non ce la fanno più a reggere ritmo e prezzi) e quelli nuovi, gli immigrati non assorbiti dalla metropoli. Più che legittimo chiedersi, a fronte della sproporzione annichilente tra l’onda gigantesca degli affari e dello sviluppo edilizio e la fragilità delle difese sociali, chi e come avrebbe dovuto fare qualcosa per contrastarla, quella sproporzione annichilente. Ma questo, come ognuno capisce, non è un problema “milanese”, è un problema nazionale e mondiale. È la mancanza di una alternativa, per dirla semplice; di altri modelli economici e sociali che nessuno sembra avere il tempo di progettare, forse nemmeno di pensare.

La finanza corre veloce, accumula tra i suoi immensi poteri anche quello di progettare le città, e il mondo, e le abitudini degli umani, ed è costantemente a cose fatte che la politica si interroga.
La politica è diventata, nella migliore delle ipotesi, un “dopo” che rimugina sul già accaduto, mai un “prima” che progetta il futuro come se potesse davvero plasmarlo.
Così che, nella morte conclamata di ogni visione diversa delle cose, e della vita, il rapper Marracash, cresciuto nei vecchi caseggiati popolari della Barona, mi racconta sconsolato che l’unico sogno residuo dei ragazzi del suo quartiere è diventare uguali ai ricchi. «Adorano certi influencer che solo vent’anni fa avrebbero mangiato vivi».
La sola cosa che rimpiango della Milano in cui sono cresciuto è l’antica, diffusa certezza che la politica avesse gambe e testa quante ne bastavano per governare il domani.
Tutto il resto no, non lo rimpiango, piazza Gae Aulenti è cento volte più bella, pulita e socievole delle sterpaglie e dei marciapiedi scassati che ospitavano, quando ero ragazzino, un triste lunapark, e i quartieri gay friendly dove si mangia coreano, etiope, mongolo e palestinese sono molto migliori di certe torve periferie della mia infanzia dove anche i “capelloni” erano guardati come balordi da stigmatizzare.
Ma la politica - se non è pura amministrazione di forze e di movimenti già in atto per loro conto - quella è la vera presenza mancante nello skyline della mia città: e forse di tutte le città del mondo.

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