lunedì 9 giugno 2025

Triste reportage

 

A Gaza polvere e macerie qui le bombe dell’Idf cancellano anche le ombre
Nulla blocca lo sguardo, chilometri di desolazione Venti mesi di raid hanno reso piatto l’orizzonte L’esercito israeliano mostra il tunnel dove è stato ucciso Mohammed Sinwar, fratello dell’uomo che ha ideato e realizzato il massacro del 7 ottobre
DI FABIO TONACCI
KHAN YOUNIS (GAZA)
A Gaza hanno rubato anche le ombre. Non ci sono più. Non si trovano punti ombreggiati perché non ci sono più le case, non ci sono più gli alberi, i palazzi, i minareti, le scuole, gli spigoli delle città. Quel che resta di Gaza è uno strato di macerie tra la polvere e il cielo. Un cielo enorme, qui è più vasto che altrove e si vede tutto, perché niente più blocca lo sguardo, libero di allungarsi per chilometri e chilometri di desolazione e di niente. Venti mesi di bombe hanno appiattito l’orizzonte.
«Quindici minuti all’arrivo», avverte il soldato.
Si va a vedere il tunnel dove hanno ucciso Mohammed Sinwar, il capo delle brigate Qassam e il leader di Hamas nella Striscia, nonché fratello del più noto Yahya, l’uomo che ha pensato e messo in pratica il pogrom del 7 Ottobre. Dicono che dei due Mohammed era il più crudele, perché ogni tanto torturava la sua stessa gente. Il veicolo corre dentro un solco che chiamano Corridoio Morag. Sempre con questa mania di dare ai passaggi strategici il nome delle colonie che occupavano la Striscia fino al 2005, Morag, Netzarim… il Kissufim no, quello prende il nome da un kibbutz.
Il Morag separa Rafah da Khan Younis, il Netzarim separa Khan Younis da Gaza City: è il piano elaborato dallo Stato maggiore delle forze armate israeliane per dividere la Striscia in tre enclavi, più facili da controllare e setacciare. E dove è più semplice «concentrare» la popolazione (il termine, orribile, è usato da alcuni ministri israeliani) sulla spiaggia o nelle tendopoli.
«Dieci minuti all’arrivo». Il corridoio Morag è una via per mezzi militari. All’ingresso c’è un cippo con una freccia e su cui qualcuno, con lo spray ha scritto “tfee palestine”. Protetto ai lati da cumuli artificiali di sabbia, attraversa la zona cuscinetto — una fascia di terra rasa al suolo a ridosso del confine, larga un chilometro, dove i soldati sparano a vista — e porta alla Salah al-Din, la strada principale. Il piano della suddivisione in enclavi ha come corollario rendere Rafah la prima città cuscinetto. Oltre alla compressione dello spazio vitale dei palestinesi. «Otto minuti».
Il veicolo sterza bruscamente nella Salah al-Din. Una volta il suo traffico definiva il bioritmo di Gaza, ora si fa fatica a chiamarla strada. È piuttosto una traccia segnata sulla sabbia dai cingoli e dalle ruote dei blindati. Un traliccio pende sulla via, fili senza più elettricità calano come liane, i tetti delle case sono a un metro di altezza e si appoggiano su mura sbriciolate, la carcassa di un cane, delle palme impolverate, i cavi della luce che collegano un cumulo di detriti a un altro cumulo di detriti, gli scheletri di calcestruzzo che una volta reggevano edifici, il rudere di una pompa di benzina. Si viaggia nell’attimo dopo di un terremoto e nell’attimo prima della fine. Sabbia, frantumi, cielo. E nessuno.
Non c’è nessuno, per chilometri non si vede anima viva. Tutto è no-go zone, area sottoposta a ordine di evacuazione o dichiarata zona di combattimento: i gazawi non possono neanche pensare di avvicinarsi. Secondo le Nazioni Unite, la no-go zone ormai copre l’80 per cento del territorio. Vista da dentro, appare come un luogo non più adatto alla vita, desertificato.
«Cinque minuti, cominciate a prepararvi».
Siamo a est di Khan Younis, destinazione finale: l’Ospedale Europeo ad Al-Fukhari. Repubblica è nella Striscia di Gaza. Ci siamo nell’unico modo permesso da Israele che da 20 mesi, nonostante le proteste, non consente il libero accesso alla stampa internazionale. Con noi anche ilNew York Times , ilWashington Post ,ilTelegraph , Libération , l’agenzia
Getty, l’Economist. La regola è rimasta la stessa di un anno fa, quando questo giornale visitò i cunicoli dove erano stati tenuti in gabbia degli ostaggi e dove si era rifugiato, per un periodo, Yahya Sinwar: le foto e i video devono passare il vaglio della censura militare, perché lo Stato maggiore teme che, accidentalmente, si diffondano immagini o dati operativi che permettano l’individuazione delle truppe. Laregola è rimasta la stessa, ma nel frattempo hanno cambiato i connotati della Striscia: un anno fa in questa regione esistevano ancora dei quartieri definibili tali, seppur diroccati, adesso il paesaggio è una linea continua e monotona. Interrotta, ogni tanto, da mozziconi di case.
L’Idf sta portando i giornalisti nell’unico posto dove può dire di aver conseguito un successo militare nell’ambito della nuova offensiva sularga scala, voluta da Netanyahu, ritenuta da molti generali del tutto priva di senso e causa di ennesime stragi di donne e bambini. Il 13 maggio un raid sull’European Hospital, «con bombe guidate ad alta precisione», ha trasformato in tomba collettiva il tunnel in cui si erano rintanati il 49 enne Mohammed Sinwar, Mohammed Sabaneh (uno dei più alti in grado nell’ala militare di Hamas, comandante della brigata Rafah)e altri quattro miliziani. «Siamoarrivati, scendiamo».
All’ingresso un carro armato, un cartello di divieto di sosta, la bandiera di Israele e quella giallo-verde della brigata Golani. L’ospedale è in piedi, ma vuoto. Aveva più di 200 posti letto, l’aveva costruito l’Unrwa anche con finanziamenti europei. Davanti al pronto soccorso si apre la voragine scavata dalle unità del genio per raggiungere il cunicolo che è lungo 80 metri e scende a una profondità di 8 metri. «Va anche sotto all’ospedale, gli accessi sono sparsi nei dintorni, ma non dentro l’Europeo», spiega il portavoce dell’Idf, il 53 enne Effie Defrin, che, curiosamente, porta a tracolla un’arma dell’esercito giordano. L’esame del dna conferma che uno dei cinque corpi è Sinwar. Il quale, forse, è morto soffocato.
Scendiamo aggrappati a una fune, con la mascherina alla bocca e l’ordine di non toccare niente. L’odore della decomposizione della carne umana è uguale in tutte le guerre, attira le mosche e impesta l’aria consunta di questa galleria bassa e corta, nonostante i cadaveri siano stati già rimossi. Si fanno venti metri e sulla sinistra si apre un loculo di 6 metri quadrati, cablato, con la volta a botte, una lampadina che penzola dal soffitto, coperte lerce, delle cianfrusaglie, del sangue rappreso. «Li abbiamo trovati qui».
Il 13 maggio scorso, stando a quanto spiega Defrin, due missili hanno colpito il tunnel 20 metri a nord e 20 metri a sud del punto dove l’intelligence aveva individuato la presenza di Sinwar. «Li abbiamo intrappolati lì dentro, potrebbero essere morti per l’onda d’urto o per soffocamento. La scorsa settimana abbiamo scavato un pozzo di ventilazione per far uscire il gas che si era formato». Defrin ci tiene a precisare che i suoi soldati «non uccidono col gas e non usano palestinesi come cavie per mandarli in avanscoperta ». E che l’operazione non ha fatto danni perché il personale aveva ricevuto l’ordine di evacuazione. Alcuni filmati, tuttavia, documentano che nel perimetro dell’edificio c’era ancora della gente: autorità locali palestinesi hanno parlato di 28 morti.
Si risale dalla voragine e non si riesce a non guardare l’ospedale inutile, senza più dottori e senza più pazienti. Se ne sono andati tutti. Si sentono colpi di artiglieria molto vicini. I centri di distribuzione del cibo di Rafah, dove si muore sulla via della fame, sono lontani. Quelli da qui non si vedono, nemmeno con l’orizzonte piatto di Gaza.

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