sabato 28 giugno 2025

Sindrome

 

ll personaggio
Olofsson, il bandito gentile della sindrome di Stoccolma
di VIOLA ARDONE
Racconta Proust nel quinto volume della Recherche che Madame de La Rochefoucauld a chi le chiedeva se fosse felice di vivere in una così bella dimora rispondeva: «Non esistono belle prigioni». Parallelamente, il Narratore e Albertine, protagonisti di questo romanzo che si intitola proprio La Prigioniera , vivono una complicata storia di gelosia e di reclusione tormentata dal bisogno di possesso e di controllo, una ambigua relazione di prigionia in cui i ruoli di vittima e carnefice sono strettamente legati e in qualche modo intercambiabili. Ma se è vero che non esistono belle prigioni, è altrettanto evidente che in alcuni casi la prigionia può generare reazioni del tutto controintuitive rispetto al senso comune.
Nel 1973, nel corso di un colpo alla Kreditbanken di Stoccolma, il rapinatore Jan-Erik Olsson chiese e ottenne la liberazione di un detenuto suo amico, Clark Olofsson, in cambio della vita di quattro ostaggi. Da quel momento accadde qualcosa di inspiegabile e la rapina, con annesso rapimento, prese una piega che nemmeno lo sceneggiatore più spregiudicato avrebbe potuto immaginare. Olofsson, arrivato sulla scena della rapina, riuscì a creare con gli ostaggi un clima di empatia e solidarietà, al punto tale che questi passarono in breve tempo dalla parte dei loro carcerieri, mostrandosi per converso ostili alle forze dell’ordine intervenute per liberarli. Kristin Enmark, una delle persone sequestrate, nel corso di una comunicazione telefonica con il primo ministro svedese Olof Palme che si adoperava in prima persona nella trattativa, affermò di avere grande fiducia in “Clark”, dal momento che si era mostrato premuroso nei loro confronti e che, anzi, lei e gli altri reclusi stavano bene e «si divertivano».
Olofsson, che per quell’episodio venne assolto anche grazie alle testimonianze degli ostaggi, è morto ieri all’età di 78 anni, a lui e alla sua storia è rimasta legata l’espressione “Sindrome di Stoccolma”, coniata dal criminologo e psichiatra svedese Nils Bejerot per indicare quel paradosso emotivo che nasce dal corto circuito psichico tra libertà e prigionia, tra dentro e fuori, tra aiutante e oppositore. La Sindrome non ha trovato spazio nella letteratura scientifica e non è descritta nei manuali di psichiatria, eppure in questi cinquant’anni è diventata così nota da essere ormai un’espressione comune, usata (e spesso abusata) in contesti molto differenti. Ma come si spiegano i sentimenti positivi che possono nascere nella vittima nei confronti del suo aguzzino? C’è un fondo di verità scientifica in questo processo che ha ispirato opere letterarie e cinematografiche basate appunto su una sorta di connivenza tra predatore e preda? Liliana Cavani ha esplorato questa condizione in un suo film del 1974, Il portiere di notte che, ambientato a Vienna nel 1957, racconta dell’incontro casuale tra un portiere d’albergo deferente e gentile e una affascinante cliente borghese. Dal momento in cui i due si riconoscono come una ex guardia nazista e una ebrea prigioniera del campo di concentramento, scatta di nuovo tra loro una relazione di dominio e sottomissione a cui lei si aggioga docilmente, come sopraffatta dal potere che il suo aguzzino ha avuto tanto tempo prima.
Un anno dopo è il regista statunitense Sidney Lumet a trarre ispirazione dalla Sindrome di Stoccolma per uno dei suoi film più famosi,Quel pomeriggio di un giorno da cani .
Anche qui c’è una rapina, questa volta in una banca di New York, e anche qui tra ostaggi e rapinatori (uno dei quali interpretato da un disarmante Al Pacino) si crea una relazione di complicità.
Sia nelle rappresentazioni cinematografiche che negli episodi reali, al rancore e alla rabbia iniziali si sostituisce con il passare dei giorni un idem sentire che accomuna carceriere e carcerato, costretti a convivere nei medesimi spazi angusti, a controllarsi a vicenda, a condividere lo stesso desiderio: quello di uscire fuori dal luogo chiuso e di ritrovare la libertà, obiettivo rispetto al quale paradossalmente le forze dell’ordine si frappongono come un ostacolo comune. In questa sorta di rovesciamento delle parti colui che ha sugli altri diritto di vita e di morte diventa automaticamente un dio, anzi una sorta di «dio di emergenza», come ebbe a dire Sven Säfström un altro degli ostaggi liberati, alla fine, grazie a un’azione di forza da parte della polizia svedese. È a lui che bisogna rivolgersi per avere salva la vita, lui ha tra le mani il filo che potrebbe recidere con un colpo netto, come una delle tre Parche, la nera Atropo. E d’altra parte anche nell’ascesa dei regimi dittatoriali l’autocrate di turno è spesso sostenuto dalle masse che riconoscono in lui un aiutante, invece che un tiranno, l’espressione di una forza e di una determinazione tali da volergli consegnare spontaneamente la propria vita. La deposizione della volontà è l’atto di fondazione di ogni regime dispotico, forse perché ha come contropartita la perdita di responsabilità individuale, un fardello di cui alcuni preferiscono liberarsi, a costo di vivere in cattività.
Kristin Enmark, che ha intrattenuto anche in seguito rapporti di amicizia con Olofsson, è stata accusata di essere stata connivente con un criminale, di essersi fatta manipolare fino a proteggerlo e giustificarlo. Lei però non ha mai accettato la definizione di Sindrome di Stoccolma e ha definito queste accuse una sorta di vittimizzazione secondaria, come se fosse stata considerata in qualche modo corresponsabile del proprio rapimento.
«È un modo per incolpare la vittima », ha dichiarato nel 2021 in un podcast della Bbc .«Ho solo fatto il possibile per sopravvivere». È la stessa accusa, a ben guardare, che viene mossa in maniera più o meno esplicita a molte donne vittime di violenza domestica, quella di non aver gridato abbastanza forte e di essere state, in fondo, complici dell’aggressore, affette da una sorta di “Sindrome della prigioniera”.

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