martedì 29 aprile 2025

Ritratto

 

Franceschini, il Br che si sentì burattino della lotta armata
DI PINO CORRIAS
Infiltrati e manovrati “Quando toccammo la Fiat il mondo degli adulti prese le sue contromisure. Noi volevamo l’insurrezione armata, lo Stato usarci per destabilizzare”
Tutti i brigatisti che ho intervistato si portano dietro una bolla d’aria che viene dagli anni Settanta. È la loro condanna. Alberto Franceschini – appena scomparso a 77 anni – più di tutti. L’ultima volta che l’ho incontrato a Milano, una decina di anni fa, mi disse: “Ci credevamo all’alba della rivoluzione, all’inizio del mondo nuovo. Invece era il tramonto di quello vecchio”. E lo disse a consuntivo, senza alcuna emozione per la sconfitta, né per l’abbaglio. Solo stanchezza.
Ci incontrammo davanti al bianco e nero della Stazione Centrale. Arrivò puntuale al minuto, come aveva imparato negli anni della clandestinità e in quelli del carcere. Sbucò dalla folla, camminando lento. Veniva da una lontananza speciale, dopo il clamoroso arresto a Pinerolo con Renato Curcio, anno 1974, diciotto anni di carcere duro, molti processi, la dissociazione dalla lotta armata, i sospetti di essere stato strumento più che attore, la solitudine.
Mi disse: “Sono tornato da poco a Milano. Non ho moglie. Non ho figli. Sono solo proprio come quando sono partito da Reggio Emilia cinquant’anni fa. Resto un clandestino come allora”.
Indossava un giaccone e i pantaloni grigi, la coppola calcata sui capelli bianchi. Era invecchiato anche lui come tutta questa storia di piombo, che sempre aleggia nei fondali della nostra Repubblica, ora che la ferocia di quei tempi è diventata una lunga coda di inchiostro, dove si sono smarrite le ragioni, non i lutti e neppure i torti.
Nei libri e nei verbali ha raccontato le radici della sua scelta. Il nonno e il padre partigiani a Reggio Emilia, lui iscritto al Partito comunista fin da ragazzo. Poi le insofferenze per il moderatismo del partito. E perciò la scissione con i compagni dissidenti, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Paolo Maurizio Ferrari. Il trasferimento a Milano, la città delle fabbriche. L’incontro con Renato Curcio e Mara Cagol, le riunioni del Collettivo politico metropolitano, l’antifascismo che doveva tornare militante, dopo la resa di Togliatti. Tutto accelerato dalla strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, la decisione di continuare “la rivoluzione interrotta”, riprendere le armi, fondare le Brigate Rosse.
Mi disse: “Non cerco giustificazioni. Ma davvero eravamo dei ragazzi, io avevo 22 anni, quando sono entrato in clandestinità, Renato Curcio ne aveva 29 e a me sembrava grande e maturo. Non ci rendevamo conto di quello che stavamo mettendo in moto”.
Nel 1972 il primo sequestro di persona, l’ingegnere della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, rapito per otto ore, fotografato con un cartello al collo “Colpiscine uno per educarne cento!”. L’anno dopo, l’altro rapimento del dirigente d’azienda, Ettore Amerio, a Torino, capo del personale Fiat, sequestrato e interrogato per sette giorni.
Raccontava Franceschini: “Toccando la Fiat le cose cambiarono rapidamente. Il mondo degli adulti prese le sue contromisure”.
In che senso? “Nel senso che ci fu una riunione a Torino nell’ufficio del procuratore Bruno Caccia con il generale Dalla Chiesa, che aveva appena fondato il suo Nucleo Antiterrorismo, e alla riunione partecipò Ugo Pecchioli, il responsabile della sicurezza del Partito comunista che ci considerava nemici mortali. Estremisti da sconfiggere perché il nostro attacco armato poteva danneggiare lo Stato, le istituzioni, ma prima di tutto il Pci. Portò ai magistrati l’elenco dei sospetti, i più combattivi nelle fabbriche, gli extraparlamentari, gli ex militanti del Pci che se n’erano usciti a sinistra, come noi”.
Andammo a sederci nella saletta dell’Alemagna che aveva arredi antichi, coerenti al racconto di Franceschini. “Pecchioli collaborò all’infiltrazione del primo nucleo Br perché Dalla Chiesa aveva bisogno di occhi e orecchie dentro l’organizzazione”.
Poi ci furono i trentacinque giorni del sequestro Sossi, il magistrato genovese, rapito nell’aprile del 1974, liberato con la promessa della scarcerazione di otto “prigionieri politici”, un patto che venne immediatamente cancellato, quando Sossi fu in salvo, con ulteriore catena di conseguenze sanguinose, l’uccisione per rappresaglia del procuratore capo di Genova Francesco Coco e l’ostinazione dei brigatisti, durante i 55 giorni del sequestro Moro a non liberare l’ostaggio prima di ottenere la contropartita.
Tutti eventi che Franceschini visse da detenuto, carceri speciali di Asinara, Bad’e Carros, Palmi, avamposti del “fronte delle carceri”, mentre fuori cominciava a scorrere il sangue dei morti ammazzati, delle rapine, fino “all’assalto al cuore dello Stato” con la strage di via Fani.
Ricordava tutto di quell’ultimo anno di libertà clandestina: “Dalla Chiesa unificò le indagini, creò analisi e archivi. Infiltrò un tale Marra, di cui non si sentirà più parlare, poi Silvano Girotto, detto Frate Mitra, che veniva dalle guerriglie sudamericane, e determinerà il mio arresto e quello di Renato”. Dei molti anni in carcere ricordava le botte, le rivolte, la difesa identitaria dell’organizzazione. Compresa quella volta, a Palmi, quando Luciano Liggio, il boss di Cosa Nostra, invitò Curcio in cella: “Gli disse: vi porto i saluti di quelli che vi hanno fatto un favore e si riferiva all’omicidio Dalla Chiesa che era appena avvenuto a Palermo. Gli propose uno scambio: il permesso di costruire una nostra rete in Sicilia e in cambio l’impegno di ammazzargli dei dirigenti del Pci che gli davano fastidio. Neanche lo prendemmo in considerazione, ovvio. Ma questo era il clima”.
La sua tesi rimase fino alla fine che le Br – a corredo della sconfitta politica – fossero state infiltrate da subito: “L’informatore più importante fu Patrizio Peci che a un certo punto consegnò ai carabinieri tutto l’organigramma dell’organizzazione”. Peci lo ha sempre smentito. Vive sotto protezione da quegli anni lontani, dopo il carcere e dopo che le Br avevano sequestrato e ucciso per rappresaglia suo fratello Roberto.
Franceschini scuoteva la testa: “Resto convinto che le Br siano state controllate prima, durante e anche dopo il sequestro Moro. Che fu roba nostra, come hanno dichiarato Gallinari e Moretti, ma solo perché ce lo hanno lasciato fare. Serviva che accadesse e accadde”.
Aggiunse: “Noi avevamo un progetto politico, l’insurrezione armata. Ma anche lo Stato ne aveva uno: usarci per stabilizzare il suo potere, quello congelato dall’alleanza atlantica, tenendo immobile il Pci, ma senza tagliarlo fuori del tutto. Per loro una fetta del gioco grande c’era sempre. Noi eravamo solo i burattini che servivano”.

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