Le parole come petardi
di MICHELE SERRA
Impressiona lo schiacciamento progressivo del discorso politico (ma forse: di tutti i discorsi) dentro lo schema binario, puerile, istantaneo dei social. Se uno parla di Gaza, subito qualcuno gli strilla: perché non parli dell’Ucraina!? Se uno parla dell’Ucraina, subito qualcuno gli strilla: perché non parli di Gaza!? Una caricatura della dialettica e una caricatura della politica.
Un tempo si aspettavano le prese di posizione dei partiti con una certa solennità.
Erano quasi sempre pompose e incravattate, spesso non dicevano niente che già non si sapesse, ma davano l’idea che qualcuno avesse impiegato almeno un’oretta del suo tempo, magari in apposite riunioni, per buttare giù quella mezza paginetta. Questa ufficialità, anche quando era solo forma, rassicurava, dava l’idea che le parole avessero un peso e una durata. La forma a questo serve: a credere, e far credere, che qualcosa abbia un senso e un peso. Se un medico che deve farti una visita importante per la tua salute ti riceve in bermuda e ciabatte, un poco ci resti male.
Ora le parole scoppiano come piccoli petardi (detti anche miniciccioli, raudi, sfreghini, snappers, cobra), con un fracasso permanente e volatile, tre secondi per dire “Gaza” e sentirsi rispondere “Ucraina”, tre secondi per dire “Ucraina” e sentirsi rispondere “Gaza”. Il primo che appenderà davanti alla sua porta il cartello “oggi non ho niente da dire, forse domani o la settimana prossima”, avrà gettato le basi della rivoluzione.
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