Bezos ci crede veramente
DI MICHELE SERRA
Si può fare anche un’ipotesi “ingenua” sulla decisione dell’editore Jeff Bezos di impedire ai giornalisti del Washington Post di fare il loro endorsement per Kamala Harris.
L’ipotesi è questa: non lo ha fatto per convenienza economica, per mettere al riparo i suoi interessi personali nel caso di una vittoria di Trump. Lo ha fatto perché crede veramente nella neutralità dell’informazione e ritiene che un giornale (perfino un giornale come quello) non abbia tra le sue prerogative fondamentali l’identità politica, il percorso culturale e civile che lo ha portato, nei decenni, a essere quel giornale e non altri. È più o meno quello che Bezos ha spiegato, nero su bianco, di fronte alla reazione indignata dei giornalisti e di moltissimi lettori.
Se possibile questa lettura, che esclude calcolo economico, è perfino più inquietante di quella maliziosa. Perché rimanda a un’idea asettica, fredda dell’informazione, riconvertita a servizio “tecnico”, a merce ben confezionata ma senza spigoli. Un’informazione che parli apoliticamente della politica è un compito quasi impossibile (a meno di affidarlo all’intelligenza artificiale, che da buon servo non può che obbedire), ma se Bezos ci crede è perché nel mondo della compravendita globale, del quale è uno degli imperatori, livellare i gusti, limare le asprezze, uniformare i linguaggi, pacificare i conflitti è il primo obiettivo.
Perché mai un giornale dovrebbe essere di sinistra, o di destra, o altro? Un giornale deve essere decentemente prodotto e piacere a tutti. Evoluzione, molti anni dopo, del cartello “qui si lavora e non si parla di politica” che negli anni del boom già diceva tutto quello che c’era da dire.
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