Gli stolti hanno bovinamente compreso che Montanari abbia paragonato la Meloni a Hitler.
Non è vero naturalmente. Ma per i soliti stolti impelagati in questa corsa verso il baratro, nell’indifferenza generale, invece è così. Ma Montanari e i savi come lui, è un captare dei segnali, sempre meno flebili, purtroppo.
Ecco l’articolo incriminato:
L’underdog Hitler: la “pancia” e quegli inizi così simili a oggi
Il futuro Führer descrive la sofferenza dei lavoratori, la smania della “roba” dei benestanti, l’indifferenza della politica. Tutto attualissimo, troppo
di Tomaso Montanari
Se volete capire cosa sta succedendo alle democrazie occidentali, andate a vedere Mein Kampf di Stefano Massini. Lungo i magistrali 85 minuti in cui tiene inchiodato il pubblico, Massini non parla mai di oggi. Ogni parola che egli pronuncia si riferisce a fatti che precedono il 1919: sì, quelle che di seguito citerò tra virgolette sono tutte di Adolf Hitler. Attraverso brani del Mein Kampf e di altre fonti dirette, Hitler racconta le sue frustrazioni e aspirazioni, la sua lettura del mondo e la volontà di sottometterlo. Ne esce uno spiazzante autoritratto del dittatore da giovane: non si vede ancora una svastica, non si parla della Shoah, della guerra. Se ne vede però l’antefatto, la radice, l’inizio. A Vienna, un Hitler diciannovenne conosce la sofferenza della classe lavoratrice, e la descrive con accenti così solidali da far correre un brivido sulla schiena del pubblico, che lì si scopre d’accordo col ‘mostro’: “Laddove chiunque avrebbe chiuso gli occhi per pietà o per disprezzo, io viceversa gli occhi mi imposi di aprirli, e vedevo tutto: lo sforzo infame dei facchini, le schiene piegate delle lavandaie, l’inchino – mento a terra – dei lustrascarpe, calli alle mani dei falegnami, ustioni al polso dei fabbri, tagli verticali sulle gambe degli stagnai, ulcere rosse fino al sangue di chi mescola la calce… ”. Non meno empatia si prova di fronte alla condanna dei benestanti: “Garantiti nella vostra più che ovvia sopravvivenza pasciuti di pranzi a più portate, sprofondati nei palchetti dei teatri, come bambini vi si illuminano gli occhi alla gioia dell’acquisto”. Commiserando questo popolo, diviso per condizione, ma accomunato da un’identica incapacità di mutare destino, il giovane Hitler ha l’intuizione: “Vi manca una guida… Vi manca un Führer”. E poi un’altra: in mancanza di soluzioni, la soluzione è inventare un nemico. Chi? Il diverso, l’altro, l’ebreo: “Lui mi appare all’angolo destro della strada, mi è del tutto indifferente, non avrei alcuna ragione per notarlo, se non fosse che adesso lui avanza nella mia direzione, lentamente, nel centro esatto della strada: e si ferma a pochi passi da me. Le sue scarpe. Il suo caftano. La valigia. L’ampio cappello scuro, tipico della sua… razza”. Lui, e gli altri ‘diversi’ come lui (saranno poi, lo sappiamo, neri, zingari, omosessuali, comunisti…): “A futura memoria riporto la lista dei nemici, prova inoppugnabile di quanto grave sia la cancrena”. Sono questi nemici a perseguitare i bianchi, vittime di un complotto internazionale, una sostituzione etnica: “Parliamo di come ti hanno tolto la voce? Di come ti hanno soffocato in ogni minima ambizione?… Hai dovuto ripiegare scendendo al contrario la scala, gradino dopo gradino… e tu stai zitto? Stai zitto. Tolleri”. Il mondo al contrario: le vittime sono i bianchi, i ‘normali’! Gridiamolo, ‘prima noi!’: basta subire! Hitler capisce che paura e rabbia sono la chiave: “C’è una forza straordinaria nella disperazione. Un combustile perfetto, annidato nel petto di chiunque”. C’è bisogno di “uno chiamato a comandare ben oltre la melassa stantia dei parlamenti, con le loro liturgie”. Non si chiamava ‘premierato’, ma lo scopo ero lo stesso: far fuori “i parlamenti: così inutilmente lenti, così tardivi, soporiferi, inconcludenti”. E il capo, ovviamente, è l’underdog Adolf: “Uno come me, che non sono l’erede di chissà quale dinastia. Non verso liquore francese in calici di cristallo, non ho un posto d’onore da cui salutare ossequiosamente i notabili in vista della città”. Un underdog fortissimo nella comunicazione, lontano dalle complessità incomprensibili delle sinistre: “Per entrargli dentro addosso inestricabilmente e non uscirne più ti servono poche pochissime parole che scavino come gocce: sempre uguali, sempre identiche, sempre uguali. Vuote, prosciugate di qualunque minimo spessore che non sia il loro ripetersi ossessivo”. Parole che indichino “dov’è il bene, dov’è il male, dov’è il pericolo”. Parole che non parlano all’intelligenza, ma alla pancia: “Non è la loro testa che devi conquistare – dice Adolf a sé stesso – non è lì che puoi farli innamorare. Nel petto, nello stomaco, nelle viscere, dove l’istinto regna incontrastato. La tua rabbia, che è la mia, il tuo orgoglio, la tua paura, la tua frustrazione, il dolore, la sconfitta che ho vissuto come te anch’io”. Alla fine, si esce sconvolti: perché noi le conosciamo, le ascoltiamo tutti i giorni, queste parole. Sono quelle dei Trump, Milei, Orbán, Salvini, Meloni, Vannacci: dopo un secolo, la retorica con cui l’estrema destra arriva al potere è esattamente la stessa. E sono le stesse anche le le colpe di noi benestanti, che ascoltiamo tutto questo ancora sprofondati nei palchi di un teatro. Anche chi è convinto che lo sviluppo della storia sarà completamente diverso, dovrebbe interrogarsi sul fatto che l’inizio è dimostrabilmente, terrificantemente, identico. Possiamo scegliere di non vederlo: ma è tutto lì, in quegli 85 minuti.
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